La diffusione del lessico inglese è un fenomeno d’epoca inarrestabile perché è imposto da potenze senza volto contro cui siamo diventati impotenti: economia, tecnologia, globalizzazione.
Alfonso Berardinelli, “Evitare i troppi anglicismi è questione di educazione”, «Avvenire»
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Gli anglicismi sono un fenomeno d’epoca, è vero: questa espressione rappresenta l’esatta fotografia dello stato attuale della lingua italiana.
Una lingua che nel tempo, specialmente negli ultimi anni, ha perso molti tasselli (parole), in virtù di una imprecisata necessità di ricorrere alla lingua inglese.
Chi impone gli anglicismi?
L’abuso dei termini inglesi – con la scusa (perché di scusa si tratta) dei prestiti linguistici – ci viene imposto ogni giorno dalla televisione (pubblicità, programmi, telegiornali), dai professionisti di vari settori, dalla politica, che da una parte propone leggi a favore dell’italiano e dall’altra continua coi suoi question time, peer reviewed, Grant Office, webinar e workprogramme cluster 2-cultura (questa assurdità è scritta davvero nel sito del Ministero della cultura), e dal giornalismo.
Soprattutto il giornalismo è responsabile della diffusione indiscriminata di anglicismi (dal red carpet al sold out, tanto per fare gli esempi più comuni). Ma non solo: i giornalisti fanno testo e se li senti dire èdile e non edìle o utènsile e non utensìle, (come realmente ho sentito), per qualcuno è così che si pronunciano quelle parole.
Se neanche la politica italiana si fa garante della italianità della nostra lingua e abusa di inglesismi, da chi dovremmo aspettarci una seria tutela dell’italiano? Le istituzioni, a quanto pare, se ne disinteressano del tutto.
Ma anche chi dovrebbe promuovere la lingua italiana infarcisce la sua comunicazione di termini inglesi, come vediamo da questa schermata presa sul sito della Treccani:
Il titolo del “Master” in questione si intitola perfino “Comunicare la cultura”. Quella inglese, forse.
Anglicismi: si può parlare di imposizione?
Il termine “imposizione” non va letto nell’accezione più comune: non intendo, cioè, che ci sia una volontà dall’alto che ci obbliga al ricorso ai termini inglesi – anche se in alcuni casi si tratta proprio di questo, come avviene per alcuni corsi totalmente in inglese e alcuni progetti presentabili soltanto in inglese.
“Imporre” nel senso di “porre sopra”, “assegnare”, “attribuire”: è ciò che accade alla lingua italiana, che ha visto inglesismi assegnati, attribuiti a termini, concetti, espressioni, modi di dire italiani.
Ma l’imposizione scatta nell’accezione negativa quando una maggioranza, all’interno di un contesto (lavorativo, politico, scolastico, professionale, sportivo, letterario, ecc.), comunica abusando di anglicismi. E di fatto escludendo chi rifiuta questa ridicola tendenza.
Come più volte ho sottolineato, nelle mie battaglie contro gli inglesismi, spesso mi trovo a non capire cosa scrivano i miei connazionali. E mi sembra assurdo che io debba frequentare un corso avanzato di lingua inglese per comunicare con gli italiani in Italia.
La lingua italiana e il senso d’inferiorità
Nel momento in cui sostituiamo una parola italiana con una inglese, un’espressione italiana con una inglese, consideriamo l’italiano una lingua non adatta a esprimere quella data parola, a comunicare quella certa espressione.
La lingua italiana diviene così, col tempo, una lingua di second’ordine, perché inferiore alla lingua inglese che, grazie al cielo, ci permette di definire professioni, eventi, oggetti, corsi, situazioni, cibi e chi più ne ha più ne metta.
Il senso d’inferiorità che si percepisce è reale, corposo, in alcuni casi perfino schiacciante. Ma è una sensazione che non tutti possono avvertire: di certo ne sono immuni gli anglofili, i parlanti itanglese, quelli del “si-dice-così-adesso”.
Ben pochi si preoccupano della figura che facciamo nel mondo anglofono: molti ridicolizzano giustamente questa italica tendenza, sottolineando spesso l’inesatta accezione di alcuni termini inglesi di cui ci appropriamo.
Ma la lingua è viva, dicono. Quale?, mi chiedo. Perché, se continua così, la lingua, almeno quella italiana, morirà, sostituita in tutto da quella inglese.
Educare all’italiano
Io sono convinto che sia possibile deanglicizzare la lingua italiana, ma i comuni cittadini, da soli, possono ben poco. Per contrastare questa tendenza invasiva, e lesiva, serve molto altro.
Noi pochi amanti e sostenitori dell’italiano – nostra lingua ufficiale, lo ricordo – al massimo possiamo escludere chi abusa di anglicismi, ma il fenomeno non si arresterà con questo minimo boicottaggio.
Occorrono iniziative che partano dall’alto. Occorre una totale revisione dei testi istituzionali, un primo passo verso la deanglicizzazione della lingua italiana e un primo valido esempio per le generazioni attuali e future.
Occorre educare gli italiani all’italiano.
antonio zoppetti
Concordo con la tua analisi, e aggiungo che siamo in una fase di passaggio dal trapianto dei singoli anglicismi in circolazione (oltre 4000 dai dizionari) alla nascita di una vera e propria neolingua. Questa non è più caratterizzata solo dalla presenza massiccia di parole inglesi e pseudoinglesi, ma anche dalla loro ricombinazione (vedi lo pseudoanglicismo smart working, o pet sitter sul modello di baby sitter, che a sua volta si appoggia a pet food, che a sua volta si appoggia agli infiniti altri food: fast food, street food…); dal proliferare dei cosiddetti “prestiti sintattici” con inversione della collocazione (family day e non giornata della famiglia, covid hospital e non ospedale covid…); dalla nascita di espressioni ibride che generano qualcosa che non è più né italiano né inglese (libro-game, baby-pensionato, cybercriminale) e dalle neoformazioni ibride (softwarista, speakeraggio, zoomare). Tutto ciò non ha precedenti nella storia della lingua italiana, e questo fenomeno non è mai accaduto nel caso dell’interferenza storica del francese, o dello spagnolo (non ci sono ibridazioni a base francese o spagnola se non sporadiche); queste lingue che ci hanno regalato migliaia e migliaia di parole che sono però state adattate nella stragrande maggioranza dei casi e dunque sono a tutti gli effetti italiane (dalle marche del Gradit di De Mauro risulta che nel 70% dei casi i francesismi sono stati italianizzati, mentre al contrario nel 70% gli anglicismi sono”crudi” e non adattati). In questo modo si sta determinando per la prima volta una rottura della continuità storica da Dante al ‘900, una continuità basata sull’identità ortografica e fonologica che ci permette di comprendere ancora oggi gli scitti trecenteschi. L’itanglese spezza invece le regole storiche, crea una frattura e un salto che fa dell’intanglese qualcosa di diverso dall’italiano, una lingua dalla sonorità che nel mondo ha un’ammirazione che nessuna altra lingua possiede. Le lingue devono evolversi nel tempo, ma in gioco non c’è la negazione “puristica” del cambiamento, bensì il MODO con cui l’italiano si sta modernizzando, attraverso il trapianto dell’inglese (la metà dei neologismi del nuovo millennio è in inglese e l’italiano proprio per questo NON si evolve con le proprie risorse, ma si creolizza).
Dunque hai perfettamente ragione a dire che per tutelare i nostro patrimonio storico occorre un intervento culturale e istituzionale dall’alto, le lingue si impongono sempre dall’alto e il mito dell’uso che fa credere che nascano dal basso è una solenne bufala. Educare all’italiano non ha nulla a che vedere con il “purismo” né con la guerra ai barbarismi del passato, ha a che fare con l’ecologia linguistica: ogni lingua è un ecosistema che va tutelato, se viene travolto e schiacciato da una lingua dominante che rischia di snaturarla, di farla regredire o anche morire. Il problema, insomma, non è di principio, non c’è da fare la guerra ai “forestierismi” per autarchia o sovranismo, ma c’è da organizzare la resistenza di fronte alla glottofagia del globalese che è una minaccia per il plurilinguismo. Lo hanno capito in Francia, in Spagna, in Islanda e in quasi tutto il mondo, tranne che da noi.
Daniele Imperi
Anche per me sta diventando ormai una neolingua: quando gi anglicismi continuano a essere inseriti e si diffondono, non si può ancora parlare di lingua italiana, perché di fatto non lo è più.
È come dici, non esistono precedenti storici, basta leggere qualche classico o qualsiasi libro dei secoli passati per averne conferma.
A me spesso hanno dato del purista perché combatto questa tendenza, con la scusa dell’evoluzione della lingua. Ma qui la lingua si sta imbastardendo, perdendo identità.
Corrado S. Magro
Da quello che vedo in giro, anche i francesi, difensori a oltranza della loro lingua, non riescono a sottrarsi all’invasione degli anglicismi e devono abdicare a loro favore anche se in quantità molto ridotta. Alle basi di questa invasione ci sono fatti che hai ben catalogato. Aggiungi: pigrizia intellettuale, lo stillicidio quotidiano, l’ignoranza dilagante, gli sforzi ridicoli di apparire a passo con i tempi, l’assenza della conoscenza dell’esistenza di dizionari e vocabolari on line e la zuppa è ben condita. Ma accontentiamoci , almeno fin quando non dovremo misurarci, con arabo, ebraico, cinese , copto e simili, chi lo vuole e ne è ancora capace, può esprimersi nella propria limgua madre. Ma appunto quanti sono i capaci?
Daniele Imperi
In alcuni casi ci sono anche la pigrizia intellettuale e l’ignoranza dilagante, ma soprattutto il voler apparire moderni, acculturati, “professionali”: vuoi mettere? Sfoggiano termini inglesi, quindi si convincono di dire cose nuove, non di aver cambiato nome a quelle vecchie.
Orsa
Se finora ero irritata da tanta pervasività e anche tanto dispiaciuta alla vista di alcune persone in difficoltà (mi è capitato proprio in ospedale, una persona anziana cercava invano la chirurgia perché sulle indicazioni c’era “surgery”), adesso sono proprio terrorizzata dallo scenario descritto da Zoppetti.
Tuttavia un asso nella manica ce lo abbiamo (forse): siccome siamo fanatici delle mode e dei copioni senza speranza, confido nel fatto che prima o poi copieremo anche le politiche linguistiche protezionistiche che presto adotteranno Francia, Spagna ecc. E a proposito di copiare, ho provato a interrogare IA come fai tu, ho chiesto a Bard cosa pensasse dell’uso smodato degli anglicismi e mi ha risposto così: “Personalmente, penso che sia importante usare gli anglicismi con moderazione. È importante conoscere le parole e le espressioni italiane corrispondenti, in modo da poterle usare quando sono più appropriate. È anche importante essere consapevoli del fatto che gli anglicismi possono essere difficili da capire per alcuni parlanti italiani”.
Anche l’intelligenza artificiale mostra di avere più saggezza di noi sull’argomento.
Daniele Imperi
In ospedale hanno scritto “surgery”? E per quale motivo?
Non ci credo che possiamo copiare le politiche linguistiche protezionistiche di altri paesi: qui abbiamo sempre preso il peggio dagli altri Stati.
Barbara
Fortunatamente io osservo anche l’altra faccia della medaglia. gli stranieri che impazziscono per l’Italia e per tutto quello che è italiano, considerato paradiso terrestre in terra. E usano termini italiani tutti i giorni. L’esempio più lampante che mi viene in mente è Latte, usato sia in inglese britannico che americano al posto di Cappuccino (che è per loro di difficile pronuncia). Ai baristi non piace, ma ci si sono adeguati (anche perché spesso sono proprio italiani all’estero ). Un altro esempio è Ciao (per altro di origine veneziana), piace molto come saluto e cercano ogni occasione per utilizzarlo. Anche “Dolce vita” usato pure dall’attore George Clooney per definire un modo di vivere dove il lavoro è propedeutico a godersi meglio il tempo libero (gli americani soprattutto sono stacanovisti senza soluzione). Anche Panini è ora molto in voga: noi abbiamo cominciato a usare sandwich (penso al “club sandwich” che si trova nei nostri bar italiani) mentre loro ora li chiamano Panini, a volte sia per i loro sandwich (come i nostri tramezzini) che per i “bun” (panino più grande, stile hamburger o il nostro panino con la cotoletta milanese). Sono in contatto con molti stranieri tramite una community (chiamarla “comunità” mi farebbe pensare a quelle di recupero, questa invece è un enorme gruppo di 20.000 persone intorno al mondo, con la missione di migliorare il proprio benessere e al tempo stesso raccogliere fondi per la ricerca sui tumori del sangue) e, oltre a scoprire che tutti hanno una qualche connessione con l’Italia nel proprio albero genealogico (davvero, siamo andati ovunque noi Italiani!), guardano tutti alla mia lingua con sguardo sognante. Per loro venire in Italia è un sogno nel cassetto, alcuni di loro si impegnano a studiare seriamente la nostra lingua. Il libricino che gli sento nominare spesso per lo studio è il nostro caro Pinocchio. E il corrispondente del nostro “The pen in on the table” per loro è “Il leone mangia la mela.”
Daniele Imperi
“Latte” si usa anche in Norvegia, credo anche lì per cappuccino. Nei paesi anglofoni, comunque, i termini italiani usati sono pochissimi, rispetto alla situazione che abbiamo in Italia.
Barbara
Da quel che dice la mia insegnante madrelingua inglese (australiana, ma vissuta anche negli USA e in Inghilterra, dove ritorna sovente) non è così, per lo meno non in questi ultimi anni.
Tieni conto che la lingua inglese è la lingua di comunicazione ufficiale sia dell’Informatica sia delle Scienze e alcuni termini sono presi da là. “webinar” può essere solo “webinar” perché chi la chiama “presentazione in tempo reale via rete Internet” sta semplificando troppo, è un termine tecnico non una traduzione. Così come il termine “smart working” deriva dal mondo informatico, dove siamo stati i primi a utilizzare quella formula lavorativa, ancora 20 anni fa. Idem nel mondo del Marketing, sempre più focalizzato nel “web marketing”, dove certi termini non li puoi sostituire perché sono di derivazione informatica e gli informatici colloquiano tra loro, da almeno 60 anni, in lingua inglese. Al CERN, sebbene sia localizzato a Ginevra, nel cantone di lingua francese, si parla solo in Inglese. Se poi pensiamo alle lingua ufficiali dell’ONU, si capisce anche che, a livello internazionale, storicamente l’Italia sta indietro: l’ONU scrive i propri documenti ufficiali in inglese, francese, spagnolo, russo, arabo e cinese. Le lingue parlate, di lavoro, sono inglese e francese. L’Italiano non c’è. Chiaramente, in un mondo sempre più globalizzato, proprio per mezzo delle tecnologie informatiche (che usano solo l’inglese), questo un certo perso lo ha.
Che poi ci siano in Italia giornalisti e personaggi pubblici che per darsi un tono usano l’inglese, il più delle volte a sproposito, quella è un’altra questione ancora. Magari sono gli stessi che scrivono “qual’è” (mi è capitato di leggerlo, in un documento professionale, ripetuto tre volte…)
Daniele Imperi
Secondo quella insegnante nei paesi anglofoni ci sono più parole in italiano rispetto alle inglesi nella nostra lingua? Leggo spesso in inglese e solo raramente trovo termini italiani.
“Webinar” significa seminario online. E riguardo “smart working” ho letto critiche da parte di anglofoni.
A parte alcuni contesti che citi, come il CERN e l’ONU, qui da noi politica, giornalismo, televisione e social abusano di anglicismi ogni giorno.
antonio zoppetti
Vorrei smentire un po’ di luoghi comuni che ho letto e che non mi paiono affatto sostenibili.
Gli italianismi in inglese appartengono al passato, se vogliamo fare un discorso serio pesandone la dimensione, e non c’è alcuna proporzione tra ciò che abbiamo esportato soprattutto nel Rinascimento e poi nel Seicento e Settecento (soprattutto nella musica) e ciò che abbiamo importato nel secondo dopoguerra. Inoltre l’inglese è una lingua ricchissima di parole importate da altre lingue, ma vengono quasi sempre adattate nella grafia e nella pronuncia, per esempio design (dal disegno industriale), sketch (dallo schizzo pittorico applicato alle scenette teatrali), mascara (da maschera), bank (da banca), novel (dalle novelle di Boccaccio), manager (dal maneggio dei cavalli)… e tutte queste parole oggi le usiamo con il “restyling” in inglese, perché attualmente (fuori da qualche esempio di parole folcloristiche) non ci imponiamo nemmeno negli ambiti dove siamo più forti, a partire dall’italian design. La terminologia informatica, fino agli anni ’80, da noi era in italiano, non manipoliamo la realtà: c’era il calcolatore, con i terminali, le schede perforate, le periferiche, i database (pronunciati all’italiana), la stampante a margherita… nella comunicazione dell’Ibm fino ai primi anni ’90 i termini inglesi erano praticamente assenti; e vogliamo parlare del ruolo e della lingua dell’Olivetti nell’anticipare quello che oggi è diventato solo personal computer? Poi tutto è stato spazzato via dalla rivoluzione internettiana nata e pensata negli Usa (utilizziamo persino le sigle con l’ordine anglofono) che abbiamo subito passivamente, ma parole come webinar in italiano sono perfettamente esprimibili con “seminario digitale” per esempio, che in Francia si chiama “séminaire en ligne” e in Spagna “seminario web”; dunque per essere internazionali bisognerebbe seguire gli esempi di chi traduce la tecnologia e promuove la propria lingua, invece che proclamare tecnicismo ciò che è un termine inglese. Per non parlare di parole come mouse che tutti hanno tradotto e solo noi abbiamo proclamato “tecnicismo” intraducibile quello che a partire dell’inglese è invece una semplice metafora tratta dal linguaggio comune (come flag, tablet…). Smart working è un itanglismo, o se vuoi una sorta di pseudoanglicismo-italianata che non è comprensibile per un anglofono (a meno che non sia fortemente contestualizzato) che parla invece di home o remote working, ma non lo capisce nemmeno un francese o uno spagnolo che parlano di telelavoro o lavoro da casa, come potremmo fare anche noi se non fossimo spontaneamente zerbinati in modo servile alla lingua dei padroni che si vuole ufficializzare. Per fortuna fuori dall’italietta provinciale malata di anglomania, questa visione è non solo messa in discussione da molti, ma anche combattuta in nome del plurilinguismo che non è un ostacolo al monolinguismo a base inglese che si vuole far diventare la lingua dell’umanità, ma è una ricchezza. Anche l’idea che l’inglese sia la lingua della scienza è piuttosto discutibile, e se è vero che è dominante soprattutto in certi ambiti, in certi atenei e in certe materie, non ha affatto soppiantato prestigiosi studi internazionali in cinese, spagnolo e altre lingue. Almeno per adesso. A parte l’Onu, l’italiano non è più lingua di lavoro nemmeno nell’Ue, e benché siamo tra i fondatori è stato estromesso senza che la nostra politica facesse niente. Il che è un segnale della regressione dell’italiano proprio davanti alla glottofagia dell’inglese. Bisognerebbe riflettere su queste cose e spazzare via gli stereotipi in circolazione. E soprattutto, invece che dare per scontato che la soluzione per la comunicazione internazionale sia l’inglese, riflettere sulle altre possibilità in campo e soprattutto su quanto ci costa la scelta dell’inglese, su quali siano gli effetti collaterali per le lingue locali, e sugli incalcolabili introiti dei Paesi anglofoni, che non studiano altre lingue, preferiscono che il resto dell’umanità parli nella loro, e godono di tutti i vantaggi che comporta l’imporre la propria lingua naturale agli altri.
Daniele Imperi
Tempo fa ho pubblicato un breve elenco di parole inglesi che provengono dal latino. Soprattutto mi sembra ridicolo usare termini inglesi originati dalla nostra lingua madre, specie quando somigliano in tutto e per tutto ai nostrani, come vision, mission, ecc.
La terminologia informatica me la ricordo in italiano negli anni ’80.
Smart working è infatti un telelavoro o un lavoro da casa.
Molti usano gli anglicismi con la scusa – o l’ignoranza – che siano termini che provengono dal mondo angolosassone, vedi i ridicoli “catcalling” (qui i gatti non si chiamano fischiando, tra l’altro) o whistleblowing (ho dovuto cercarlo, manco lo ricordavo, come non so cosa significhi). Piuttosto diciamo che certe cose negli Stati Uniti o in Gran Bretagna si chiamano in quel modo, ma questo non significa che dobbiamo anche noi chiamarle alla stessa maniera. Quello è il loro modo di esprimersi, non il nostro. È questo che diventa difficile far capire a certi soggetti.
Luciano Cupioli
L’italiese sta assumendo le proporzioni di una vera e propria dottrina a cui in certi ambiti lavorativi devi appartenere per forza se vuoi colloquiare con colleghi e superiori. Si tratta di una forma verbale arricchita da termini in dubbio inglese che attribuiscono arroganza linguistica a chi li utilizza. Mi mancano le nonne e i nonni che sbagliavano a coniugare i verbi, o i singolari e i plurali, ma che si erano spezzati la schiena per mandare a scuola i propri figli e poter dire di loro “come parlano bene!”. Stiamo assistendo a uno scisma linguistico che sta minando una delle basi della nostra cultura, quella che hanno utilizzato sommi poeti e scrittori. Se pensiamo di essere moderni, sbagliamo, siamo solo dei pecoroni modaioli che non tengono alle tradizioni. Il futuro è tutto a scrivere, spero solo che sia leggibile in italiano.
Daniele Imperi
È vero, ho constatato anche io che in certi ambienti non viene compreso se usi l’italiano e non si abbassi a usare gli anglicismi. Ecco due espressioni che fotografano alla perfezione la situazione di oggi della nostra lingua: “dubbio inglese” e “arroganza linguistica”.
Gli anglicismi minano, stanno già minando la nostra cultura, perché la cultura di una nazione e di un popolo passano prima di tutto dalla lingua.