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In Italia c’è la credenza che la lingua evolva dal basso, cioè dai parlanti, da noi che la parliamo tutti i giorni e, di conseguenza, la plasmiamo, modificandola secondo l’uso quotidiano.
In realtà oggi la lingua italiana non sta evolvendo dal basso, ma subisce continue modifiche da un “alto” che esercita un forte potere sull’informazione e sulla diffusione delle parole.
Se un’ASL, in un certificato delle analisi, scrive di fare un follow-up – e non una comune, comprensibile, italiana visita di controllo – quella sostituzione di parole italiane con quelle inglesi non è un’evoluzione che parte dal basso. Le ASL non stanno in basso, perché sono enti pubblici, quindi istituzioni, dunque stanno in alto.
La costante e sempre più invasiva e persistente presenza degli anglicismi nella lingua italiana è dovuta a una serie di “organi” che, insieme, influenzano i parlanti (e gli scriventi), creando una lingua ibrida, che di italiano ha sempre meno.
Il potere schiacciante della televisione…
La televisione svolge un ruolo di grande impatto sulla popolazione: oggi i programmi si susseguono senza soluzione di continuità per tutto il giorno e i canali che trasmettono non si contano più.
Ne risulta un vero bombardamento mediatico: spettacoli con nomi inglesi, pubblicità di prodotti con nomi inglesi (es., San Benedetto Skin Care – my secret…), conduttori che abusano di anglicismi. A questo aggiungiamo i film i cui titoli non vengono più tradotti in italiano da anni.
… e quello dei quotidiani
Questi sono soltanto pochissimi esempi dello scempio della lingua italiana da parte dei quotidiani. Sugar tax, stop, festival, red carpet, cushion, must-have… non è nulla in confronto a quanto accade sulla carta stampata e nel mondo digitale.
Il risultato è prevedibile: quando si continuano a leggere testi imbottiti di anglicismi, si tende a imitare quel modo di esprimersi. I giornali fanno testo, come la televisione.
L’itanglese dei professionisti
Nel rebranding della città di Porto…
la rete di retail specialist che da qualche mese…
Comprensione dell’ audience …
La facciamo una repo con tutti i badge ed i tesserini…
… riesce a comprendere sia voce che immagini in real time !
Un device elettronico che monitora la salute delle batterie…
Come differenziarti dai competitor …
In foto uno screen di un test partito da qualche giorno su un popup di uno store , poco ci frega se già ti dicono excellent , poco ti frega se la variabile controllo ha una performance doppia rispetto al benchmark di mercato.
Sono molto felice del risultato del progetto di upcycling di abiti da sposa…
Benvenuti su LinkedIn, il luogo in cui ho serie difficoltà a capire ciò che scrivono gli altri.
Ma è questo il livello medio del linguaggio che vi si parla. Io non ci scrivo ormai più. Quando lo facevo, totalizzavo una manciata di apprezzamenti e forse uno o due commenti. Comincio a pensare che, scrivendo in italiano e non in itanglese come gli altri, non mi capisse nessuno.
Il vergognoso contributo della politica
E la politica sta a guardare. Anzi, magari si limitasse a guardare, a restare inerte. Fa di peggio, perché sparge anglicismi a larga mano, come gli altri “organi”.
Nomi di tasse in inglese, nomi di ministeri in inglese (ricordate il Ministero del Welfare?), voci nei siti istituzionali in inglese, anglicismi nei comunicati e nei discorsi.
Se neanche alle istituzioni interessa tutelare la lingua italiana – nostro patrimonio non solo linguistico, ma anche culturale – a chi dovrebbe interessare? Perché finora vedo soltanto uno sparuto gruppo di cittadini che contesta questo stato di cose, questa deriva che non ha alcuna giustificazione.
La funzione dei vocabolari
Il profilo della Zanichelli annunciava su Twitter quello che chiama neologismo:
Sempre più persone, per fortuna, cercano di fare quanto possibile, nel loro piccolo, per ridurre l’inquinamento e tutelare l’ambiente e la natura.
Il neologismo #plogging – entrato nel vocabolario Zingarelli 2024 – indica la pratica che consiste nel raccogliere rifiuti lungo il percorso, mentre si fa jogging.
Alla dura reazione di un utente la terminologa Licia Corbolante gli ha chiesto se capisse “la finalità dei dizionari”.
A me ha risposto come avete visto all’inizio. Ma su quella risposta ho molte riserve. La stessa Zanichelli ha scritto che il “neologismo #plogging” è “entrato nel vocabolario Zingarelli 2024”.
Quando una parola entra nel vocabolario, è accessibile a chiunque lo consulti. Se è vero che non convalidano l’anglicismo, non lo ufficializzano, è altrettanto vero che lo registrano fra le parole italiane e quindi fungono da sprone a usarlo.
Plogging stava bene nei vocabolari inglesi, non in quelli italiani. Voglio proprio vedere quanti italiani usano quel termine.
Riportando questo esempio della Zanichelli sul blog «Diciamolo in italiano», Antonio Zoppetti ha risposto così:
I dizionari non si limitano a registrare le parole in uso – se così fosse si potrebbero sostituire con un algoritmo – le devono anche spiegare e attualmente non sono concepiti per promuovere le alternative in italiano – che non vengono quasi mai riportate – si limitano a dare delle definizioni, in questo caso di un anglicismo, senza alcun rispetto per le risorse nazionali.
[…]Inserire plogging è una scelta, e nella schermata Zanichelli si promuove questa pratica (a parte il vantarsi di averla registrata) con un nome sconosciuto ai più che dunque si promuove e ufficializza.
Concludendo che i dizionari «sono delle risorse che la gente consulta e fissano la norma».
Niente di più vero. Stiamo parlando di un vocabolario della lingua italiana: se all’interno troviamo anglicismi come plogging, che cosa pensiamo? Semplice: che sia un neologismo, che ormai fa parte della nostra lingua e possiamo usarlo.
I dizionari convalidano e ufficializzano tutte le parole che contengono.
Chi ufficializza gli anglicismi?
Chi ha il potere di farlo: televisione, quotidiani, professionisti, politica, vocabolari.
Forse il lato peggiore di questo andazzo è l’inconsapevolezza: si introducono anglicismi senza pensare ai danni che arrecano alla lingua italiana. È puro disinteresse, è indifferenza nei confronti del livello cui è giunta la nostra lingua.
Molti non sono più in grado di esprimersi in un corretto italiano, ma sono spinti a ricorrere all’inglese.
Come sarà la nostra lingua fra qualche decennio?
Corrado S. Magro
Descrivere tutti gl’impulsi sociali (essere “In”, pavoneggiarsi), economici, politici, letterari che spingono all’uso di anglicismi, che per me hanno poco a che fare con i neologismi, è un’impresa non da poco. Il fenomeno non è limitato allo stivale ma all’intero mondo occidentale e oltre. Mi chiedo anche: Che lingua si parla nei licei, scuole superiori, università, accademie? Quando un diplomato, un laureato (campione adornato con la corona di alloro) scrive in un italiano suscettibile di essere incoronato da aculei avvelenati al curaro, cosa dobbiamo asspettarci? Oggi, ridendo sotto i baffi, arrivo a pensare che un correttivo potrebbe venire proprio dall’IA se applicata nel giusto modo alle nozioni immagazzinate. Sulla TV non mi esprimo! Un apparato degno dei forni sublimizzatori costruiti per eliminare la diossina di Seveso, sebbene ancora dalle mie parti alcune trasmissioni di carattere culturale siano ineccepibili. Un grazie a chi le cura!
Daniele Imperi
Anche per me gli anglicismi hanno poco a che fare con i neologismi, che sono cosa ben diversa.
Mi piacerebbe sapere come si parla nelle scuole e nelle università, se insegnanti e studenti parlano e scrivono usando anglicismi a iosa.
franco battaglia
Io nella mia descrizione del blog non metterei mai “About: Daniele Imperi”, ma comprendo che uno inconsciamente si adegua all’andazzo pur chiedendosi, poi, in post come questo, perché lo facciamo.
Daniele Imperi
Dove leggi “About: Daniele Imperi”? Perché io non ho mai scritto una cosa del genere.
E cosa intendi per descrizione del blog?
franco battaglia
ABOUT : DANIELE IMPERI
Il mio lavoro è scrivere testi per il web e correggere bozze di manoscritti. «Penna blu» è il mio blog principale, un luogo aperto in cui parlare di scrittura, editoria e lettura. Scrivo anche sulla rivista dedicata a Edgar Allan Poe e sull’aerosito ufficiale di Filippo Tommaso Marinetti. Ho scritto il libro Le 22 immutabili leggi del blogging.
Daniele Imperi
Io continuo a non vedere quell’about… La mia biografica a fine articolo dice: AUTORE: DANIELE IMPERI (2096 ARTICOLI) e sotto il resto che hai riportato.
Mi viene un dubbio: quell’about ti appare da cellulare?
Ho appena controllato da cellulare: vedo come da computer, non leggo nessun about.
franco battaglia
Daniele Imperi Scrittura creativa 9 Maggio 2024 4 Commenti 290 letture
Allora, ti ho copincollato il bannerino che appare in cima ad ogni post, se clicchi su Daniele Imperi, esce quel ABOUT.
Daniele Imperi
Se ti fossi spiegato subito, avrei capito. Mi sembra chiaro che sia qualcosa che appartiene al tema grafico del blog, non l’ho scritto io. E finora non me n’ero accorto. Ora vedo di scoprire come cambiarlo.
Orsa
Ufficializzano e legittimano, vero, tuttavia per me è sempre colpa del “basso”. La televisione chi la guarda, i quotidiani chi li legge, la politica figuriamoci se è seguita dai giovani. E sull’uso del vocabolario mi è scappata una risata. Che apocalisse! L’inglese è qui per restare. Un giorno faranno plogging raccogliendo quel che resta dell’italiano tra i rifiuti.
Forse dallo schermo del cellulare è facile confondere AUTORE con ABOUT. Sapessi le sviste che prendo io!
Daniele Imperi
Siamo in pochi a non guardare la televisione e i quotidiani, forse più su internet, vengono letti. Idem per il resto. Tutti insieme, questi “organi”, fanno numero.
Luciano Cupioli
Gli anglicismi vengono ufficializzati da tutti coloro che non pretendono che gli si parli in italiano in ogni contesto, ma subiscono l’aggressione verbale infarcita degli stessi, standosene in silenzio, spesso provando un senso di inferiorità. Fino a che penseremo che sia fico arricchire in simile modo il nostro vocabolario e ci impegneremo a imparare sempre più anglicismi, la lingua italiana sarà in serio pericolo. Almeno la scuola e i vocabolari dovrebbero difendere la nostra cultura, non piegarsi a una moda che se non fermata compromettera’ irrimediabilmente la nostra cultura.
Luciano Cupioli
Se non sono rimasto indietro, l’alfabeto italiano è ancora composto da 21 lettere: j, k, x, w, y non sono comprese.
Daniele Imperi
L’alfabeto italiano per me è ancora composto da 21 lettere: j, k, x, w, y sono lettere proprie di parole di altre lingue.
Davide
Personalmente di solito non ho nulla contro le cosiddette “lettere straniere”, visto che ci erano arrivate attraverso il greco e il latino (ad eccezione di W che forse viene dal tedesco, non ricordo), tuttavia come la mettiamo quando gli italiani di oggi per indicare la “i lunga” (J) la chiamano esclusivamente in inglese (cioè “gei”) ? Come se nella loro testa esista solo la pronuncia inglese come “ufficiale”, dando un calcio alla nostra storia grammaticale.
Daniele Imperi
Infatti si è sempre chiamata “i lunga”, ma da anni sento chiamarla “gei”.
Daniele Imperi
Il problema è questo: sono davvero convinti che l’inglese arricchisca la lingua italiana, quando invece la sta impoverendo.
antonio zoppetti
Aggiungerei anche lo strapotere delle piattaforme digitali, che introducono l’itanglese senza alcun rispetto per le risorse linguistiche locali, proponendo parole inglesi invece che italiane (download, e-mail, home, timeline, follower…) che non solo urlano nelle interfacce visibili ai lettori, ma impiegano anche nei codici con il risultato che spuntano anglicismi ineliminabili anche durante la personalizzazione (limitata) degli strumenti a disposizione: ecco perché spunta un “about” che non si può togliere… Io per esempio ho cercato di sostituire nel mio sito “Home” con pagina iniziale, ma poi spunta un “home” di sistema durante la navigazione, così come nei commenti compare “Type/to hoose a block” e mille altre espressioni inglesi che di fatto prendono il sopravvento. In informatica l’ufficializzazione dell’inglese passa proprio da queste (non) scelte.
Daniele Imperi
Vero, anche le piattaforme digitali. Ricordo però che all’inizio su Instagram c’era scritto Seguaci e non Follower.
Sono riuscito a togliere “about”, ma nel mio caso era una voce del tema grafico, e i temi per WordPress sono tutti in inglese. Non sempre è facile e veloce tradurre le varie voci.
Ho appena visto “Home” nel tuo sito: quella viene chiamata “breadcrumb”, ossia il percorso di navigazione. Prova a vedere se riesci a trovare come tradurlo, ma forse sì.
Tu usi un tema gratuito per WP, ma forse potrai tradurre tutto.
Licia Corbolante
Intervengo anche sul commento di Antonio Zoppetti sullo “strapotere delle piattaforme digitali, che introducono l’itanglese senza alcun rispetto per le risorse linguistiche locali, proponendo parole inglesi invece che italiane”. Purtroppo dimostra di non conoscere affatto le dinamiche della localizzazione (traduzione e adattamento di prodotti digitali in altre lingue).
In breve, quando si introduce un NUOVO CONCETTO che ha un NUOVO NOME, nella localizzazione si cerca sempre di ricorrere a una SOLUZIONE ITALIANA. Se però il concetto è già noto con il nome inglese, non ha alcun senso proporre alternative che non verrebbero comunque usate dagli utenti, già abituati a chiamarle con il nome inglese, e che potrebbero generare confusione.
Due esempi a simili a Seguaci > Follower di Instagram: un tempo nelle versioni italiane dei prodotti Apple “file” si chiamava “archivio”, ma poi era stato sostituito con “file” per adeguarsi alla terminologia prevalente in Italia. Nell’ex Twitter, il termine “etichetta”, scelto inizialmente per denominare gli “hashtag”, era stato sistematicamente ignorato dagli utenti e aveva costretto alla modifica della documentazione a favore dell’anglicismo. Questi cambiamenti sono operazioni costose che si cerca di evitare ricorrendo fin dall’inizio a scelte terminologiche che rispettino le aspettative degli utenti.
Nel mondo della localizzazione NON c’è alcun tipo di manipolazione linguistica, come sembra insinuare Zoppetti: banalmente, come per tutti i prodotti commerciali, prevalgono le preferenze e le esigenze del mercato (e considerazioni economiche!).
Daniele Imperi
Secondo me è vero in parte. Se si fosse tradotto fin dall’inizio “follower” con “seguace”, il problema non si sarebbe posto. “Seguace” è una parola comune in italiano. E così per il resto della terminologia.
Credo ci sia stata una pigrizia dagli inizi di Internet: anziché sforzarsi di tradurre le varie voce, si è preferito lasciarle in inglese.
Licia Corbolante
Queste considerazioni però partono dalla convinzione, illustrata all’inizio del post, che «la lingua italiana non sta evolvendo dal basso, ma subisce continue modifiche da un “alto” che esercita un forte potere sull’informazione e sulla diffusione delle parole». che però non vale tutti gli ambiti.
È sicuramente il caso degli anglicismi usati in ambito istituzionale e dalla politica: concordo in pieno che andrebbero privilegiate sempre scelte denominative italiane: se il concetto è recente e non si è ancora affermato, andrebbe sempre privilegiata una soluzione in italiano, altrimenti si promuove il messaggio che la nostra lingua non ha risorse lessicali adeguate. In ambito istituzionale non c’è alcuna giustificazione di mercato o economica, e le istituzioni non devono temere alcuna concorrenza terminologica perché hanno il “monopolio” dei concetti istituzionali. La situazione è invece completamente diversa nell’ambito della localizzazione.
Come ho già indicato, quando si introduce un nuovo concetto che ha un nuovo nome si privilegia una soluzione italiana, ovviamente coerente con la terminologia già esistente. Nel decidere il termine però non si possono ignorare i canali e le modalità cui si diffondono e vengono popolarizzati i concetti informatici, ad es. inizialmente sui forum e ora sui social, e il ruolo dei cosiddetti early adopter e influencer.
È inopportuno cercare di imporre “dall’alto” un nome se nel frattempo se ne è già diffuso “dal basso” un altro (a meno che non si abbia la necessità di differenziarsi dal resto del mercato). A Instagram e Twitter non è bastato usare “seguaci” e “etichetta” perché venissero adottati anche dagli utenti, e infatti poi hanno dovuto sostituirli.
A proposito di “Credo ci sia stata una pigrizia dagli inizi di Internet: anziché sforzarsi di tradurre le varie voce, si è preferito lasciarle in inglese”, temo riveli una percezione distorta della terminologia italiana delle interfacce utente: la maggior parte della terminologia che risale a quel periodo è in italiano! Lo affermo con conoscenza diretta: in quegli anni ero la terminologa italiana di Microsoft, che a tutti gli effetti fino al primo decennio di questo secolo ha determinato gli standard terminologi del mercato, e dubito ci sia alcuno in Italia più esperto di me sulle scelte terminologiche di quel periodo e come siano state motivate. Un esempio proprio degli “inizi di Internet”: ai tempi in Windows avevamo usato “senza fili” per “wireless”, ma le innumerevoli critiche dei media, degli informatici e le proteste dirette degli utenti ci avevano costretto a cambiarlo.
Daniele Imperi
A quanto pare l’unico ambito in cui non vale è quello informatico.
Mi sembra difficile credere che parole come early adopter e influencer siano partite dal basso. Secondo me, invece, sono partite dai professionisti del web – un “alto” di cui ho parlato.
Licia Corbolante
Vedo che è stato citato un mio tweet e credo sia utile specificare che rimanda a un articolo del Portale Treccani, «“Se lo dice il dizionario…” L’utente tra i dizionari dell’uso e le nuove risorse digitali», che analizza alcune percezioni errate sul ruolo del dizionari. In sintesi: “I dizionari dell’uso non hanno un approccio normativo o prescrittivo: non determinano cosa si può e non si può dire, e non convalidano l’uso dei neologismi lemmatizzandoli. Si scontrano quindi con le aspettative di parte del pubblico, che li immagina come arbitri che mantengono alti gli standard linguistici” (dettagli ed esempi nell’articolo). Nel tweet successivo avevo anche citato le finalità del Vocabolario Zingarelli, dalla sezione Presentazione: contengono una nota sull’inclusione delle parole straniere, che qui sopra però non è stata riportata.
Aggiungo un altro suggerimento di lettura: “Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione”, un breve libro (due soli capitoli) del linguista Edoardo Lombardi Vallauri. È uscito recentemente ed è rivolto a chi ha passione per la lingua italiana e si preoccupa per il suo futuro ma forse giunge a conclusioni improprie perché non ha conoscenze approfondite dei meccanismi linguistici che la regolano. Il capitolo “La battaglia con l’inglese” li illustra per rispondere a queste domande: “L’italiano è «snaturato» dall’inglese? Le parole inglesi che usiamo tutti i giorni sono in massima parte inutili? La nostra lingua rischia di non venire più parlata in un prossimo futuro? Il fatto che in molti ambienti (ad esempio economici e scientifico-tecnologici) si parli sempre più spesso inglese rovina l’italiano parlato anche privatamente da chi vive a lavora in quegli ambienti? Occorre mobilitarsi e combattere perché tutto questo non avvenga?”.
Daniele Imperi
Buongiorno Licia e benvenuta nel blog. Ho letto quell’altro suo tweet sulle finalità del Vocabolario Zingarelli, ma non mi convince affatto. “Plogging” non è una parola di origine straniera entrata nell’uso. Inoltre non mi sembra rispettoso, né per la nostra lingua né per quella inglese, che si usino certi termini “con significati altamente specializzati e diversi da quelli della lingua di origine”.
Ho creato il link all’articolo nel suo commento.
Grazie per il suggerimento di lettura, leggerò a breve quel libro.
Licia
In italiano però si trovano moltissimi esempi d’uso di “plogging” in articoli e articoletti vari (a partire dal 2018, anno in cui aveva avuto una certa visibilità perché incluso in elenchi di parole dell’anno inglesi). È un forestierismo che presumo avrà vita breve, come la maggior parte degli anglicismi, ma per ora resiste, e nel caso qualcuno ne cercasse il significato, dove deve cercare una definizione se non in un dizionario? Lo ha incluso anche il Devoto-Oli, l’altro vocabolario che ogni anno pubblica una versione aggiornata.
Non capisco perché i dizionari non dovrebbero evidenziare i casi in cui le parole di origine straniera acquisiscono un significato diverso da quello dell’originale e diventano pseudoforestierismi. I dizionari “fotografano” l’uso della lingua, non sono in alcun modo responsabili di usi impropri.
A proposito, nonostante l’aspetto anche “plogging” è uno pseudoanglicismo: è una parola macedonia svedese formata da “plocka” (raccogliere) e “jogging”.
Daniele Imperi
Gli articoli che parlano di “plogging” sono nient’altro che le consuete scopiazzate che da anni vanno di moda su internet: un sito parla di qualcosa di nuovo e via decine di siti a copiare quella novità e parlarne, come ho visto fare con “plogging”.
Spero vivamente che “plogging” avrà vita breve.
Nel caso qualcuno cercasse il significato di “plogging”, deve cercarne la definizione nel vocabolario di inglese, non in quello italiano.
Licia Corbolante
Se la pratica di raccogliere i rifiuti pratica lungo il percorso mentre si corre fosse stata inventata in Italia e fosse stata chiamata, che so, “corrumenta” (stesso concetto, diversa etichetta, poco trasparente* in entrambi i casi, per denominarlo), sarebbe stata accettabile la sua lemmattizzazione?
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Se la risposta è positiva, forse l’obiezione alla lemmatizzazione di “plogging” non è linguistica ma ideologica?
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* corrumenta: correre+rumenta
Daniele Imperi
Se quella pratica fosse stata inventata in Italia in questi tempi, di sicuro sarebbe stata chiamata in inglese, come avviene per manifestazioni, prodotti, espressioni, lavori, ecc. In passato invece sarebbe stata chiamata in italiano.
Non ci vedo niente di ideologico: è questione di non inquinare la nostra lingua con espressioni che non fanno parte della nostra cultura. Non abbiamo bisogno del plogging.
Licia Corbolante
Torniamo però al punto di partenza: i dizionari non determinano cosa si può e non si può dire, e non convalidano l’uso dei neologismi lemmatizzandoli, quindi non hanno alcun ruolo su un potenziale “inquinamento” della lingua. Riparliamone dopo la lettura del libro di Lobardi Vallauri.
Antonio Zoppetti
Licia Corbolante è nota per i suoi interventi in cui bolla come “errore” tutto ciò che non condivide, e di cui spesso fraintende i significati, con argomentazioni che tendono a delegittimare gli avversari più che con argomentazioni sensate. Dunque chi non è d’accordo diventa qualcuno che “non conosce le dinamiche della localizzazione”, le sue naturalmente, presentate in modo prescrittivo come fossero ineluttabili, quando sono sempre delle scelte… e infatti all’estero le traduzioni terminologiche (ma l’autrice è nota anche per la sua massima secondo la quale “i termini non si traducono”) seguono criteri ben diversi dall’importazione dell’inglese senza alcun rispetto per le risorse linguistiche locali da parte di chi è sul libro paga della Microsoft o degli altri colossi. Sostenere che la terminologia informatica segue le “preferenze e le esigenze del mercato” è la prova più evidente che le multinazionali spingono a fare ciò che a loro conviene, non sono certo rispettose delle realtà locali.
Basta vedere come sono localizzate le interfacce informatiche e contare gli anglicismi che qualcuno proclama “necessari” per giustificarli, per vedere qual è la realtà.
Il noto giurista Francesco Galgano, tanti anni fa, aveva analizzato per esempio come le multinazionali imponessero la terminologia in inglese nelle succursali all’estero (imponendo parole come franchising, leasing…) con l’intento di renderle intoccabili e di non localizzarle per precise disposizioni delle case madri statunitensi che impongono alle filiali la propria terminologia. Queste tassative raccomandazioni di non tradurre e adattare il meno possibile i concetti del proprio diritto in quelli delle lingue locali serve a mantenere la loro uniformità internazionale e le protegge da ogni possibile conflitto con gli ordinamenti giuridici dei singoli Paesi. (Francesco Galgano, “Le fonti del diritto nella società post-industriale”, in Sociologia del Diritto, Rivista quadrimestrale fondata da Renato Treves, 1990, p. 153). Questa volontà è in linea con quella più generale con cui gli Stati Uniti tentano in ogni modo di estendere la validità delle proprie leggi anche al di fuori dei propri confini nazionali in altri ambiti. E anche la lingua è funzionale a ciò. Passando al cinema, la strategia che dagli anni ’90 prevede di non tradurre più i titoli dei film (al massimo affiancati da una traduzione) va nella stessa direzione di esportare la propria lingua, esattamente come nel caso dei prodotti culturali (il Monopoli divenuto Monopoly, L’uomo ragno spiderman, guerre estellari star wars…). Corbolante farebbe meglio a riflettere sulle proprie competenze invece di screditare gli altri.
Quanto alla funzione pedagogica dei dizionari — ma vale anche per la terminologia delle interfacce informatiche, per gli articoli di giornale o per il linguaggio istituzionale — c’è una bella confusione tra l’approccio descrittivo e non normativo e il fatto che scegliere di annoverare parole come plogging (di dubbia stabilità, per l’appunto e di frequenza zero sino al 2019) ha delle conseguenze pratiche sullo “sdoganamento” e la diffusione di certe parole che arrivano appunto dall’alto.
Licia Corbolante
Anche a Zoppetti consiglio la lettura del libro di Lombardi Vallauri, un linguista le cui competenze non possono essere messe in dubbio (a meno che non si voglia scendere al livello degli antivaccinisti che pretendono di saperne di più degli immunologi).
Sul resto non credo proprio valga la pena polemizzare, però è preoccupante se davvero Zoppetti non riesce a capire il senso di i termini non si traducono (vanno invece cercate equivalenze tra lingua 1 e lingua 2) perché indicherebbe incapacità di comprendere nozioni terminologiche di base, oltretutto già chiarite più volte in vari scambi, cfr. ad es. commenti al tema del mese di maggio 2021 dell’Accademia della Crusca, “Perché è utile tradurre gli anglismi”.
antonio zoppetti
Le competenze dei linguisti e le loro valutazioni e opinioni sono due cose diverse, non sono io a confondere le due cose e a proclamare incompetente chi non è d’accordo con alcune posizioni di alcuni linguisti, che convivono con altre di parere opposto e altrettanto autorevoli. Non sono io a non comprendere che utilizzare le equivalenze tra due lingue significa tradurre (la traduzione non è certo solo la traduzione letterale, come tutti sanno). Sono invece d’accordo che non valga la pena di discutere con chi rivolta le frittate, sono intervenuto solo perché nella polemica sono stato tirato in causa.
Daniele Imperi
Ho letto quell’articolo sul “brainstorming”. Cercando su Google Libri non trovo quel termine in italiano “da decenni”. Credo sia di questo secolo, che importa a dismisura anglicismi. Una traduzione di “brainstorming” è “confronto di idee”. Di nuovo, per me manca la voglia di usare la lingua italiana.
Licia Corbolante
Il Vocabolario Zingarelli indica il 1959 come data di prima attestazione in italiano di “brainstorming”. Con Google (il motore di ricerca, non Google Ngram Viewer), selezionando la categoria Libri e specificando come intervallo di date 1/1/1960 – 1/1/1970 si trovano parecchi esempi di “brainstorming” che risalgono a una sessantina di anni fa.
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Da un punto di vista terminologico (lessico che identifica concetti specifici usati in ambiti specialistici, diverso quindi dal lessico comune), nel 2024 una soluzione come “confronto di idee” per “brainstorming” non potrebbe funzionare perché dopo decenni di uso è improbabile che possa essere scalzato un anglicismo monosemico che identifica il concetto in modo univoco (cfr. anche la consulenza dell’Accademia della Crusca).
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Anche nell’ipotesi che la sostituzione fosse ancora possibile, ignorando gli aspetti diacronici, “confronto di idee” è una descrizione troppo generica: chiunque può avere un “confronto di idee”, in qualsiasi momento, ad es. due persone che discutono di politica al bar. Il concetto rappresentato da “brainstorming” invece non è un semplice scambio di idee ma un’attività professionale che implica pianificazione e metodologie specifiche per la discussione, la raccolta e l’analisi delle idee.
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Va comunque considerato che “brainstorming” è un anglicismo così diffuso e riconoscibile che è entrato ormai anche nell’uso comune con un significato molto più generico: penso ad esempio a chi in un contesto informale dice “facciamo brainstorming” nel senso di “pensiamoci su, facciamoci venire qualche idea”. È un tipico esempio di determinologizzazione (l’acquisizione nel linguaggio comune di un termine specialistico che nel processo subisce però una diluizione di significato), e in questo caso effettivamente si tratta di un “confronto di idee”, locuzione che si distingue da “brainstorming” solo per le diverse connotazioni d’uso.
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In sintesi: quando “brainstorming” è un termine che identifica un concetto specialistico, è ormai insostituibile; se invece è una parola del lessico comune, usata in senso esteso, sono sicuramente possibili varie alternative italiane.
Daniele Imperi
Ho trovato pochi esempi di “brainstorming”, in 3-4 libri, in quel periodo.
Mi sembra assurdo che degli italiani non capiscano se qualcuno dicesse loro “Mettiamo a confronto le nostre idee per un progetto”, anziché “Facciamo brainstorming per un progetto”.
Ma infatti “confronto di idee” si userebbe in ambito aziendale o professionale.
E comunque mi sembra ridicolo che, magari fra amici, si dica “facciamo brainstorming” invece di “pensiamoci su, facciamoci venire qualche idea”. Per fortuna non conosco gente del genere.
antonio zoppetti
Hai perfettamente ragione, Daniele, a dire che “manca la volontà” di usare l’italiano e hai colto il punto nascosto dietro tanti blablabla. Nonostante certi pseudoragionamenti camuffati dal ricorso a un lessico specialistico di chi ritiene di essere superiore a tutti gli altri (una superiorità autocertificata), il punto è che quando Osborn inventò questa pratica (dai riscontri discutibili e discussi) noi l’abbiamo ripetuta (come sempre) con il nome in inglese. Per la cronaca: nelle lingue sane è invece stata tradotta, in spagnolo è lluvia de ideas (pioggia di idee) e in Francia negli anni Sessanta, Louis Armand, membro dell’Académie française, ha coniato remue-méninges (spremimeningi) che non ha sostituito l’anglicismo in termini di frequenza, ma si è diffuso — nonostante la proposta tardiva — ed è oggi utilizzabile (la gente può scegliere) e comprensibile.
Da noi sono state proposte alternative che non hanno avuto successo come tempesta cerebrale, fondamentalmente perché siamo anglomani e perché non abbiamo istituzioni che proteggono la lingua che è lasciata nelle mani di certi terminologici da colonia che si appellano a un “uso” che sono loro stessi a certificare. Dunque, davanti a un nuovo concetto non lo si traduce, a meno che già non esista una parola italiana, ma se non c’è si giustifica “l’insostituibilità” dell’inglese — un’insostituiblità postulata — e ci si guarda bene di proporre soluzioni nuove come per esempio “parole in libertà”, che in italiano sarebbe perfetto. Dunque l’anglicismo, arrivato come al solito dall’alto, si propaga e si ripete fino a che non entra nell’uso (bella forza!) e a quel punto inizia il minuetto: ma come? è nell’uso… come se questo uso non fosse stato ben orientato da chi si scaglia — a priori — contro l’inadeguatezza di ogni alternativa (argomentazioni tipiche: non è proprio come l’inglese; l’equivalente italiano non è altrattento specifico, e via dicendo).
E così dalla terminolgia si passa alla lingua, l’espressione comincia a circolare nel linguaggio comune con significato lato, mentre parallelamente nelle aziende si proclama “brainstorming” ogni riunione creativa anche se tecnicamente non segue affatto i principi di Osborn.
Naturalmente il problema non è la parola “brainstorming”, ma la dinamica di entrata di miigliaia di parole inglesi che penetrano con analoghi meccanismi. E invece di comprendere che cosa comporta questo continuo stillicidio che fa regredire l’italiano, e di deprecarlo, lo si legittima.
Licia Corbolante
Se non si è mai fatta l’esperienza di partecipare a una reale sessione di brainstorming temo sia difficile dare un giudizio obiettivo su come viene denominata. Un “confronto di idee” non richiede alcun tipo di metodologia e di strumenti, né di assegnare ruoli e obiettivi ai partecipanti, che invece sono caratteristiche distintive del brainstorming (ad es. per fare brainstorming è necessaria la figura del moderatore).
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Il mio contributo dal punto di vista terminologico si ferma qui perché non avrò modo di leggere eventuali ulteriori interventi. Grazie in ogni caso per lo scambio: mi interessa molto capire quali sono le diverse percezioni sull’evoluzione della lingua italiana.