Come deanglicizzare la lingua italiana

Come deanglicizzare la lingua italiana

Il fenomeno – o forse è meglio definirlo piaga – degli anglicismi è ormai giunto a livelli altissimi, tanto che diviene sempre più difficile comprendere cosa dicano e scrivano i nostri connazionali.

Non esagero: spesso, vedendo il telegiornale, mi ritrovo a dire a voce alta “Che ha detto?”. Giornalisti, politici, imprenditori, personaggi dello spettacolo parlano ormai una lingua che di italiano ha sempre meno e di inglese sempre più.

Entrando in Twitter e LinkedIn mi succede la stessa cosa: specialmente su LinkedIn la percentuale di anglicismi è elevata e anche lì mi ritrovo a non capire di che stiano parlando alcuni.

Si avverte oggi la necessità, e anche l’urgenza, di deanglicizzare la lingua italiana.

Dai francesismi agli anglicismi

Un tempo si diceva démodé per esprimere qualcosa fuori moda, adesso si preferisce out; di contro non abbiamo più l’espressione “alla moda”, sostituita da trendy. Lo stesso rétro è stato soppiantato da vintage.

Sia chiaro: non ho mai amato neanche i francesismi. Come ho appena dimostrato, abbiamo parole italiane per esprimere quei concetti. Ma preferisco i francesismi agli anglicismi, se non altro per la vicinanza etimologica dei termini, essendo entrambe le lingue – italiana e francese – neolatine.

Curioso, poi, che molti termini inglesi che sostituiscono i nostrani siano anch’essi di origine latina. Vintage proviene dal latino vindemia.

Addio al suono dell’italiano

Ha ragione il blog «Diciamolo in italiano» a parlare di sfaldamento del suono della lingua italiana.

Una lingua è fatta di fonemi, oltre che di grafemi: è suono quando viene parlata. L’ascoltatore si ritrova a sentire suoni estranei alla sua lingua. Lo stesso vale per i grafemi: gli anglicismi minano la riconoscibilità stessa della lingua italiana.

Ogni lingua è caratterizzata non solo dai suoni, ma anche da un ritmo, e suoni e ritmo definiscono la personalità, l’originalità anche, la peculiarità delle lingue.

Quando la percentuale di forestierismi – nel nostro caso anglicismi – è alta, la lingua inizia a perdere personalità, originalità, peculiarità, trasformandosi in una lingua ibrida, che non può più esser parte dell’identità nazionale né delle proprie radici culturali.

Come deanglicizzare la lingua italiana?

Chiediamoci prima: è possibile deanglicizzarla?

L’abuso di termini inglesi è una (brutta) abitudine, diventata poi una tendenza che ha sempre più preso piede, fino a trasformarsi, per molti, in una vera dipendenza: come se oggi non fosse più possibile esprimere alcuni concetti in italiano e si debba necessariamente ricorrere all’inglese.

Dall’anglomania siamo passati a una reale anglopatia. Gli anglicismi sono divenuti oggi un fenomeno inarrestabile e in futuro non si intravede alcuna azione per riappropriarci della nostra bella lingua e lasciare l’inglese alle popolazioni anglofone.

Invertire il fenomeno per me è possibile: dalle cattive abitudini si può benissimo passare a quelle buone. Il discorso riguarda specialmente le nuove generazioni, che non hanno conosciuto un’Italia povera di anglicismi, dunque non hanno modelli cui fare riferimento.

Disabituare parlanti e scriventi all’uso smodato di parole inglesi non è sicuramente un percorso facile. Le teste di rapa che popolano la politica, il giornalismo e tutti i mezzi di comunicazione di massa non comprendono il problema, pensano anzi che non ci sia alcun problema nella nostra lingua.

Una delle ultime chicche che ho letto in politica è il question time: davvero non è un concetto esprimibile in italiano? Per la cronaca: non so cosa sia. Ecco i danni che l’abuso di inglese arreca alla comunicazione.

Deanglicizzare la lingua italiana è un dovere civico, un impegno serio e urgente, e che soprattutto riguarda tutti noi.

Uso consapevole di parole italiane

Iniziare a usare parole, frasi e concetti italiani che abbiamo sempre usato è il primo passo verso la deanglicizzazione dell’italiano.

  • Meeting significa riunione o anche incontro.
  • Start-up è un’impresa emergente.
  • CEO è l’AD (Amministratore Delegato).
  • AI è IA (Intelligenza Artificiale).
  • Sequel è il seguito. Proviene dal latino sequela (seguito), dal verbo sequor, seguire.
  • Prequel non ha un corrispettivo? Siamo sicuri? A parte che, come al solito, proviene da “pre-”, prima, basato su sequel, ma esiste l’italiano antefatto, che esprime proprio ciò che è il prequel.

Tanto per fare alcuni esempi. Ma è impossibile nominare tutti gli anglicismi presenti nella lingua italiana, perché purtroppo sono migliaia. E continuano ad aumentare.

Promuovere l’uso di parole italiane equivalenti a quelle inglesi comunemente usate è un’azione che possiamo compiere tutti, ogni giorno, magari affiggendo un foglietto con su scritto “Ricordati di non usare gli anglicismi”.

Io per primo inizierò una “pulizia linguistica” nel mio blog, intervenendo là dove gli anglicismi sono perfettamente inutili, come self-publishing, che altro non è che l’autopubblicazione.

Sensibilizzare le persone sull’importanza di preservare la propria lingua

La lingua è in continua evoluzione. Con questa frase si giustificano e autorizzano gli anglicismi.

Raggiungere e conservare la purezza di una lingua è impossibile, altrimenti dovremmo eliminare dall’italiano anche i termini latini che usiamo da anni, come humus, bis, curriculum, ad hoc, gratis, fac simile, habitat, lapsus, ecc.

Preservare la lingua italiana significa evitare di inquinarla con termini stranieri inutili, come accade con il 99% degli anglicismi.

Favorire la formazione di neologismi italiani

Se qualcuno pensa che un termine inglese entrato nella nostra lingua sia un neologismo, sbaglia di grosso. Quel termine è e resta un forestierismo, un anglicismo. Niente di più.

Occorre favorire la creazione di neologismi italiani: soltanto così la nostra lingua diverrà davvero più ricca. Gli anglicismi impoveriscono la lingua italiana, non l’arricchiscono. L’italianità della lingua sarà sempre più diluita, fino a ridursi irriconoscibile.

Un neologismo – usando il latino, il greco antico, lo stesso italiano – incrementa e potenzia la lingua italiana.

Incentivare l’uso della lingua italiana nelle comunicazioni ufficiali

E questo deve avvenire sia a livello governativo sia aziendale. Le istituzioni per prime hanno il dovere di comunicare in un perfetto italiano.

Purtroppo si sono già verificati, a livello comunale e forse anche regionale, storpiamenti della lingua italiana, grazie alle follie della scrittura inclusiva che calpesta l’ortografia delle parole.

Senza contare i tantissimi casi in cui le comunicazioni istituzionali contengono anglicismi di varia natura, fra cui stalking, task force, background, governance, green, ecc.

La deanglicizzazione della lingua italiana è possibile

Basta volerlo.

31 Commenti

  1. Andrea Perin
    giovedì, 23 Marzo 2023 alle 7:48 Rispondi

    Che dire… mi occupo di “thriller”, e va beh, questo ci può stare; come tradurlo? Brivido?
    Ma quando leggo ”intriso di suspence” sorrido… e l’ho visto scritto persino da alcuni autori di importanti C.E.
    In questo caso, quasi paradossalmente, una parola ”nostra”: suspense, da sospensione, poi francese, ecc. ecc. viene spesso anglicizzata in ”suspence”.
    Facendo delle ricerche per parole chiave pubblicitarie (keys words for ads :-) ) ho visto che è presente! Quindi spesso usata. Combattiamo, nel nostro piccolo.
    Ciao!

    • Daniele Imperi
      giovedì, 23 Marzo 2023 alle 14:11 Rispondi

      Thriller, secondo me, è un sottogenere del poliziesco. Suspense si scrive così, con la S. Viene dal latino.

      • Andrea Perin
        venerdì, 24 Marzo 2023 alle 7:45 Rispondi

        No, non è detto. Il thriller è caratterizzato dalla suspense, può essere un poliziesco ma anche un giallo, ecc. In teoria, si potrebbe ideare anche senza un omicidio, esempio: una bomba su un aereo che non si riesce a trovare, meglio ancora se noi sappiamo dov’è e quando esploderà… ma si fa complicata. Questo ovviamente è il mio punto di vista. Ola!

        • Daniele Imperi
          venerdì, 24 Marzo 2023 alle 8:07 Rispondi

          Vero, il thriller potrebbe non richiedere un omicidio, ma alla fine sempre un poliziesco è: cioè, sia nel giallo sia nel thriller c’è un reato di mezzo.

  2. Fabio Amadei
    giovedì, 23 Marzo 2023 alle 10:56 Rispondi

    Caro Daniele, condivido in pieno il tuo grido di dolore. Purtroppo la battaglia l’abbiamo già persa nello sport. Parole come cross, dribbling, corner, penalty ecc. sono la consuetudine.
    A dicembre, quando giravo ancora come rappresentante, un anziano, rivolto al titolare del bar di un paesino, disse: «Li hai visti ieri sera gli highlights?».
    Mass media sono parole di origine latina però vengono pronunciate all’inglese. Forse si fa confusione quando si usa parola social, social media. Dimostra che l’inglese ha il potere di cannibalizzare le lingue.
    Tempo fa un giornalista disse plas invece di plus. Come leggerà non plus ultra? Non plas altra?

    • Daniele Imperi
      giovedì, 23 Marzo 2023 alle 14:14 Rispondi

      Ciao Fabio, nello sport c’è parecchio inglese, è vero, non l’avevo considerato. Vorrei sapere perché il semplice calcio d’angolo debbano chiamarlo corner.
      Un anziano ha detto highlights?
      Il giornalista ha pronunciato plus all’inglese, perché è stata importata dal latino.

    • Gregorio
      domenica, 2 Aprile 2023 alle 15:19 Rispondi

      Nello sport c’è la parola…”Sport” dall’inglese “Disport” che a sua volta deriva dal francese “Desport” e dal latino “Deportare”.
      In italiano si dice “Diporto” ma ormai è riferito ad alcuni tipi di imbarcazioni.
      Gli spagnoli hanno mantenuto “Deporte” e gli italiani hanno preferito l’anglicismo.
      Non esiste un singolo settore che non abbia contaminazioni.
      Politica, sanità, scienze, arte, cucina, DIPORTO, letteratura, informatica, istruzione, lavoro, etc etc.
      La situazione è gravissima.

      • Daniele Imperi
        domenica, 2 Aprile 2023 alle 15:51 Rispondi

        Ciao Gregorio, benvenuto nel blog.
        Non conoscevo l’etimologia di sport. Insomma è la solita storia: gli inglesi creano una parola a partire dal latino e noi la importiamo da loro.
        Le contaminazioni ormai hanno raggiunto qualsiasi settore, purtroppo.

  3. Corrado S. Magro
    giovedì, 23 Marzo 2023 alle 11:37 Rispondi

    Ho accanto a me l’opuscoletto “Grmmatica dell’italiano adulto” di Vittorio Coletti, docente e accademico della Crusca e dove l’autore presta attenzione ai forestierismi. Daniele, sono d’accordo con i suoi punti di vista che in gran parte concordano con i tuoi. Aggiungo qualcosa che ho già avuto modo di scrivere su questo blog:
    – Barbarismi, forestierismi, neologismi, eccetera sono un aspetto socio-economico e quindi politico.
    – Vanagloria, fatuità, ignoranza o necessità di essere accetti/compresi, sono componenti della nostra personalità. Ignorare poi che il mercato, in senso molto lato, di domani sarà composto da esseri formati all’ombra di app, hipp e opp, sarebbe, per certi ceti, perdere il contatto con il substrato politico e sociale.
    – Chi domina fa legge! E oggi quale idioma domina? Vi rappresentate una conferenza all’ONU o altra istituzione internazionale in Italiano? Chi siamo noi? Il solo compito che ci rimane o che impegna chi ancora può, è custodire il nostro patrimonio culturale per non lasciarlo cadere nel dimendicatoio.
    Il fenomeno poi non riguarda solo l’italiano ma ha una dimensione “globale” e mettendo sul tappeto questo termine penso avere definito gli aspetti che lo rendono predominante.

    • Daniele Imperi
      giovedì, 23 Marzo 2023 alle 14:17 Rispondi

      Forse l’abuso di anglicismi è dovuto anche alla necessità di essere accettati e compresi. Il mercato è pieno di questi termini, ma va bene finché la tua comunicazione è rivolta al mondo, non quando è fra connazionali.

  4. Corrado S. Magro
    giovedì, 23 Marzo 2023 alle 13:10 Rispondi

    perdonate il “dimendicatoio”.

  5. Antonio Zoppetti
    giovedì, 23 Marzo 2023 alle 14:09 Rispondi

    La battaglia per la de-anglicizzazione si deve svolgere sul terreno della connotazione: è importante diffondere e usare le alternative italiane, quando ci sono, per non farle regredire, e per affermare la loro portata, altrimenti finisce che ogni cosa che suona inglese ci appare più precisa o evocativa finisce per produrre “prestiti sterminatori” che fanno morire l’italiano, come è accaduto a “calcolatore” che è stato soppiantato da computer negli anni ’90 e che ha prodotto un fenomeno tipicamente italiota: calcolatore evoca i vecchi e ingombrati dispositivi di una volta, computer quelli nuovi; un cambiamento che non è presente né in inglese (dove erano computer i vecchi “mainframe” così come i più moderni portatili), né in francese, spagnolo, portoghese… dove erano e sono ordinateur, computador, computadora…
    E quando le alternative non ci sono è sempre possibile coniare neologismi (apericena/happy hour), adattare (drone, pronunciato all’italiana e al plurale droni) o allargare i significati di vecchie parole (singolo divenuto sinonimo di single).

    Ma come può avvenire tutto ciò? Chi lo può fare?
    Se come aveva capito Pasolini prima di tanti linguisti che non lo hanno compreso nemmeno oggi, il modello dell’italiano letterario basato sul toscano è servito da canone sino all’Ottocento, l’italiano della seconda metà del Novecento è stato plasmato dai centri industriali del nord, dai mezzi di informazione, e oggi anche dalla Rete. Sono questi i nuovi “centri di irradiazione della lingua”, e se un tempo hanno portato all’unificazione dell’italiano e al suo divenire patrimonio nazionale al posto dei dialetti, oggi lo stanno trasformando in itanglese. Dunque la deanglicizzazione non può avvenire solo dal basso. L’insopportabile e retorico mito dell’uso che farebbe la lingua, invocato dai linguisti quando fa loro comodo, è un aspetto molto parziale, in realtà l’italiano si è unificato e forgiato nei secoli perché era prescritto e orientato dai grammatici, dai puristi, dai dizionari, dai programmi scolastici e dal linguaggio istituzionale, visto che nell’uso ognuno ha sempre parlato nel proprio dialetto, persino Manzoni che dichiarava di parlare in milanese nei contesti privati (e con difficoltà l’italiano che usava nei raporti interregionali) o il francese nei contesti internazionali.

    E allora per deanglicizzare servirebbe una politica anche dall’alto, e cioè una campagna di promozione della nostra lingua che ribadisca senza vergogna provinciale (frutto di un complesso di inferiorità) la bellezza del nostro lessico, che all’estero gode tra l’altro di una nomea che poche lingue possono vantare. Senza questo passo siamo fritti. Come aveva capito Gramsci, la lingua del popolo è orientata da quella di una classe dirigente, che diviene un modello di riferimento e viene ripetuta. E come aveva capito Leopardi, solo l’abitudine e l’uso rendono una parola bella, brutta o conveniente/sconveniente. Dunque, ricollegandomi a qualche commento che leggo, è chiaro che se il mercato propone solo “thriller” poi “brivido” diventa inutilizzabile, o una scelta personale e non codificata.
    Il problema è che l’attuale classe dirigente ha la testa solo sull’inglese e sui modelli d’oltreoceano che già sono il risultato dell’inarrestabile espansione delle multinazionali statunitensi che impongono la loro lingua con le merci, le pubblicità, le interfacce informatiche, l’intrattenimento… E infatti lo tsunami anglicus è fenomeno mondiale, verissimo, ma altrettanto vero è che l’Italia è messa enormemente peggio di Francia, Spagna e la maggior parte dei Paesi, perché non abbiamo punti di riferimento ufficiali e organi normativi forti. Perciò la mancanza di resistenze interne, unita all’inglese che viene spacciato per lingua franca internazionale, è una combinazione micidiale, e si agevola l’inglese anche dall’interno (vedi lockdowm green pass, smartworking… su questo dalbasso non si può fare granché).

    La verità è che dall’alto non si vuole fare nulla. E si interviene invece per cambiare l’uso a gamba tesa in altri questioni, invece che deprecare l’iglese, dunque i linguisti che si proclamano non normativi in nome della retorica dell’usom lo sono solo nel caso dell’inglese, perché in altri casi non si fanno alcun problema a cambiare l’uso storico della nostra lingua cancellando la norma in uso per cui “se stesso” si scrive senza accento, sopprimendo gli articoli davanti ai nomi femminili (“la Meloni” è vietato), sancendo che forme come sindaca e ministra sono più corrette del maschile generico, mettendo al bando le parole politicamente scorrette e proclamandole razziste (negro mongoloide…). Naturalmente non contesto questi aspetti, che hanno un loro perché, ma per coerenza o si regolamenta e modernizza la lingua compresi gli anglicismi, o la si lascia in balia di un falso mito dell’uso e dell’anarchia linguistica spacciata per liberalismo linguistico dove ognuno fa un po’ il c**** che vuole: ma ciò è falsissimo e infatti gli usi errati sono condannati (l’uso di piuttosto che alla milanese, le forme disfavo invece di disfacevo…). Quello che trovo insopportabile sono due pesi e due misure: lasciamo gli anglicismi senza regolamentazione e regoliamo il resto. Questo è un atteggiamento di cui linguisti giornalisti, politici, scienziati, imprenditori e via dicendo sono responsabili. (Chiedo scusa per la prolissità).

    • Daniele Imperi
      giovedì, 23 Marzo 2023 alle 14:28 Rispondi

      Computer si poteva tradurre con computatore (che esiste), visto che ha la stessa etimologia latina di computer: computator.

      “Chi lo può fare?”, chiedi: tutti, ma per primi politica e giornalismo, che hanno una portata stratosferica e impongono mode linguistiche. Quindi dall’alto, non dal basso, perché il basso si adegua, come sempre. L’anglicizzazione dell’Italiano è stata causata dall’alto.

      Io continuo a parlare e scrivere come ho sempre fatto, quindi scrivo “se stesso”, “la Meloni” e aborro “sindaca e ministra”.

      Verissimo, poi, che gli anglicismi sono senza alcuna regolamentazione, ma questo avviene perché manca un’istituzione preposta al rispetto e alla salvaguardia della nostra lingua.
      Ancora non riescono a inserirla in Costituzione.

  6. Orsa
    giovedì, 23 Marzo 2023 alle 14:35 Rispondi

    È un bel problema perché non sembra essere una cosa passeggera come il tipico linguaggio gergale dei giovani. Penso a parole della mia epoca come “pomiciare” “togo” “figo”, che pur NON essendo ortodossi almeno non erano mutuati dall’inglese. Quello che mi preoccupa è la massiccia importazione di termini inglesi nel campo della sanità, stamattina sono stata in ospedale e per parlare col dottore mi hanno detto di attendere la fine del medical round. Ci ho messo un po’ per capire che dovevo aspettare che i dottori terminassero il giro di visite in corsia! Il guaio è che prima o poi scatta la familiarità, vedi anglicismi ormai entrati nell’uso comune come screening, day hospital, bypass o quello che hai citato tu qualche tempo fa follow-up (che non è altro che un invito a farsi delle visite di controllo). Gli italiani sono i primi a riempirsi la bocca di eh ma la nostra dieta mediterranea… eh ma i nostri artisti rinascimentali… eh ma la nostra moda… eh ma noi c’abbiamo Dante. È o non è questo un triste accattonaggio agli occhi degli altri paesi se vantiamo le eccellenze italiche ma ne schifiamo la lingua? Siamo messi male.
    Ogni tanto ascolto quella canzoncina del 1934 del geniale (e futurista) Rodolfo De Angelis Va fuori d’Italia o prodotto stranier… :P

    • Daniele Imperi
      giovedì, 23 Marzo 2023 alle 14:42 Rispondi

      No, non è assolutamente una cosa passeggera, visto che gli anglicismi aumentano sempre più.
      Il “medical round” mi mancava…
      Non ha infatti senso vantarsi dei nostri personaggi illustri e delle bellezze che abbiamo, se poi parliamo itanglese e non italiano.
      La canzone di Rodolfo De Angelis non la conosco, ma me la vado a sentire :D

  7. Luciano
    venerdì, 24 Marzo 2023 alle 3:58 Rispondi

    Alcuni inglesismi sono espressioni che ormai fanno parte della nostra tradizione culturale e sarebbe persino innaturale provare a tradurli, ancorché possibile, con parole italiane dello stesso significato. Avanti, un film western con i cow-boys va lasciato così. Altra cosa è la crescente moda di volere adottare per forza terminologie inglesi, soprattutto in ambito lavorativo. Oggi chi si presenta a un colloquio di lavoro presso un azienda, fosse anche un laureato con il massimo dei voti, finisce per sentirsi inadeguato perché non capisce la metà dei termini che vengono utilizzati. Per me chi non usa la lingua italiana per esprimere un concetto, è un arrogante che non ha voglia di farsi capire, ma esige che gli altri si adeguino al proprio linguaggio infarcito di acronimi, sigle e termini estranei alla nostra lingua. Per restare in tema, lo trivo già una forma di mobbing… Personalmente mi sembrano tutti rincretiniti…

    • Daniele Imperi
      venerdì, 24 Marzo 2023 alle 8:04 Rispondi

      D’accordo per alcuni termini come western, anche se cowboy significa vaccaro, ma cowboy è più elegante. In ambito lavorativo sono anni che abusano dell’inglese, tanto che davvero è difficile capire certe posizioni ricercate.
      Non so se non vogliano farsi capire, ma forse neanche se ne accorgono che la loro parlata non è un vero italiano.

  8. LUCIANO
    venerdì, 24 Marzo 2023 alle 4:16 Rispondi

    A proposito, perché ti definisci “blogger” e non “autore di un diario elettronico in rete”?

    • Daniele Imperi
      venerdì, 24 Marzo 2023 alle 8:06 Rispondi

      Blogger è intraducibile, perché proviene da un gioco di parole: “web-log” = “we blog”, quindi blog.
      All’estero non traducono infatti pizza o altri termini nostrani. Tra l’altro “autore di un diario elettronico in rete” non sarebbe neanche propriamente corretta come traduzione.

  9. MikiMoz
    venerdì, 24 Marzo 2023 alle 15:46 Rispondi

    Su alcune cose sono d’accordo, su altre meno: perché la lingua inglese ha nella sua forza quella di avere dei termini che esprimono un concetto.
    E quindi l’immediatezza del concetto stesso; anticipazione non può essere prequel.
    Sequel non sempre è “seguito”. Non possiamo tradurlo così, perché prequel e sequel hanno proprio un significato diverso (una sfumatura diversa, magari, ma ben precisa).
    Vero che per alcune cose si esagera (ossia quando c’è un corrispettivo italiano altrettanto forte e immediato), ma è pur vero che certi anglicismi sono usati proprio come linguaggio specifico.
    Una riunione di condominio non la chiameremmo mai “meeting”, e nemmeno un incontro tra amici (se non in modo canzonatorio): meeting riporta immediatamente in testa un concetto di “incontro di lavoro” o comunque di una cosa più “seria” e strutturata.
    Noi siamo capacissimi di creare parole italiane che esprimano concetti (vedi “giallo”) e infatti non dovremmo di contro storcere il muso se qualcuno conia “apericena”.

    Moz-

    • Daniele Imperi
      venerdì, 24 Marzo 2023 alle 16:00 Rispondi

      Mi chiedo: ma se non fosse esistita la lingua inglese, in Italia nessuno avrebbe scritto dei “sequel” o dei “prequel”? Se sì, come si sarebbero chiamati?
      “Meeting” è appunto un “incontro di lavoro” o, meglio, una riunione di lavoro.

      • MikiMoz
        venerdì, 24 Marzo 2023 alle 17:30 Rispondi

        Non mi chiederei queste cose: se non fosse esistita la lingua italiana, nessuno all’estero avrebbe detto “pizza” “paparazzi” “gialli”… è lo stesso.
        Meeting è una riunione di lavoro, e infatti possiamo usare entrambe le cose, ma converrai con me che meeting è un’unica parola, molto più immediata, ed esprime un concetto fatto e finito.
        Funziona per questo.

        Moz-

        • Daniele Imperi
          domenica, 26 Marzo 2023 alle 9:34 Rispondi

          Non possiamo sostituire tutte le espressioni italiane con quelle inglesi perché queste ultime hanno una sola parola… Prima che meeting entrasse da noi, si diceva riunione (di lavoro). Tra parentesi, perché nel contesto aziendale o comunque lavorativo è implicito che la riunione sia di lavoro.

          • Giovanni
            lunedì, 27 Marzo 2023 alle 15:24 Rispondi

            Infatti è una riunione di lavoro, ma il “meeting” è anche un evento dove c’è qualcuno che illustra dei concetti. “Sei stato all’evento/alla presentazione di Tizio Cazio?” Ha più senso di “Sei stato al meeting Tizio Caio?”.

            “Conference Call” o “Call Conference”? Molti usano la “Call Conference” che è un modo scorrettissimo anche in inglese. Quello giusto è “Conference Call”. Che dal dizionario su Cambridge: https://dictionary.cambridge.org/us/dictionary/english/conference-call

            dice:
            “a work phone call that involves three or more people”.

            Ovvero: “una chiamata telefonica che include tre o più persone”.

            Quindi perché non usare il temine telefonata? Si facevano anche prima dei computer. C’erano linee dedicate dove parlavano più persone, oppure una persona attivava una riunione chiamando un’altra da una stanza e mettendo in viva voce per gli altri colleghi. Sempre di una telefonata si tratta.

            Tra l’altro Italia e Regno Unito sono due nazioni completamente diverse e con abitudini diverse, non è usando dei termini che non ci appartengono che si lavora meglio, anzi, secondo me si dà una finta parvenza di fare meglio. A meno che non parli inglese in un contesto internazionale chiamando colleghi a Londra e a Los Angeles, ma in quel caso parli in inglese al 100% non ti metti a masticare termini un po’ in italiano e un po’ in inglese inventato anche in alcuni casi o sgrammaticato.

            Poi è chiaro, alla fine ognuno fa come gli pare e come gli viene detto di fare se vuole mantenere il lavoro.

            • Daniele Imperi
              lunedì, 27 Marzo 2023 alle 15:36 Rispondi

              Mi chiedo anche io perché non usare telefonata anziché call, visto che comunque usi il telefono o la rete telefonica.
              Il problema non è infatti usare termini che non ci appartengono, ma usarli spesso nel modo sbagliato.

  10. Giovanni
    lunedì, 27 Marzo 2023 alle 0:38 Rispondi

    Certo che è possibile. Purtroppo non si vuole. In ambito informatico la lingua italiana è stuprata ogni minuto della giornata. Si sono inventati dei termini da brividi. Credo che nemmeno nel Regno Unito le usino certe terminologie, ma in Italia se non usi quelle parole, in un certo senso, sei un grande ignorante della materia.
    È una cosa deplorevole. Si danno certi titoloni alle competenze solo per giustificare competenze che manco si hanno. Acronimi di ogni tipo. Sì, è veramente abominevole.
    Sottoscrivo. Non vogliono usare la lingua italiana perché spesso la ignorano. Altro che specialisti, sono ignoranti moderni.

    • Daniele Imperi
      lunedì, 27 Marzo 2023 alle 8:57 Rispondi

      Non si vuole, sono d’accordo. In informatica è pieno, lo immagino. Nel mondo del lavoro è da anni che si inventano nomi assurdi, tanto che spesso non capisco proprio che figura stiano cercando.
      E penso anch’io che siano dei grandi ignoranti: se non sai dire in italiano un’espressione o una parola che usi in inglese, allora non conosci la tua lingua madre.

  11. Daniel
    lunedì, 24 Luglio 2023 alle 19:19 Rispondi

    Sarebbe anche bello se i traducenti italiani dell’anglicismo “guardrail” come: “guardavia”, “sicurvia”, “guardastrada” e lo svizzerismo “guidovia” venissero divulgati maggiormente nell’uso comune!!! Che ne dite?😉

    • Daniele Imperi
      martedì, 25 Luglio 2023 alle 8:30 Rispondi

      È una buona idea. Più sono divulgati i termini italiani, invece di usare gli anglicismi, e più col tempo si tornerà a usare un buon e sano italiano.

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