Come scegliere le parole in una storia

Come scegliere le parole in una storia

Questo articolo mi è stato chiesto da Cristiana Tumedei di QuiCopy, discutendo sul mio post relativo al fantasy, sul problema delle descrizioni e della lunghezza delle storie in quel genere letterario.

Ho accolto con piacere la richiesta perché credo che le parole che usiamo per comunicare svelino molto sia di noi sia sul messaggio che uno scrittore vuole lanciare al lettore. Non solo, le parole restano, fanno presa su chi legge, possono inquietare, divertire, scioccare, comunque si imprimono nella mente.

Ne consegue che scegliere le parole quando si scrive una storia sia uno dei compiti più difficili e anche delicati dello scrittore. È da quelle parole che possiamo essere apprezzati o meno. È da quelle parole che la nostra storia può essere ricordata, perché ci ha lasciato qualcosa. Non è solo questione di trama, che è pur sempre importante, ma anche delle parole, che sono un po’ come le cellule della storia.

Efficacia delle parole

Le parole devono fare effetto. Quando ho letto alcuni autori, come per esempio Wilbur Smith o Dan Brown, molto graditi al pubblico, non ho avuto alcuna sensazione né emozione. Le pagine scorrevano, sì, ma senza lasciare nulla, come acqua che scivoli sul corpo.

Non ho più letto nulla di quei due autori, se non un unico romanzo. Quelle letture non mi hanno trasmesso niente, non mi hanno colpito le frasi e i periodi, che erano soltanto un insieme atono di parole, una dietro l’altra senza forza, senza vita quasi.

Ma le parole da usare nelle nostre storie devono riuscire a farsi ricordare dal lettore. Devono colpirlo dove è più debole. Devono abbattere un muro. Ricordo ancora le parole usate da autori che leggo ogni volta volentieri, come Cormac McCarthy, George Martin, Bernard Cornwell, Riccardo Coltri, Len Deighton, Emilio Salgari. Questi autori sono riusciti a smuovere qualcosa dentro di me, a lasciare un segno del loro passaggio.

Musicalità delle parole

Ho letto autori, anche fra gli emergenti, che scrivono senza dare un tono armonioso alle parole. Ecco che cosa intendo per musicalità: la qualità delle parole di creare una sorta di melodia scritta. Si tratta di scegliere sapientemente gli accostamenti dei termini, la disposizione di soggetti, verbi, predicati, l’uso di preposizioni e tutti gli elementi della lingua che permettono di modellare frasi e periodi.

Non dobbiamo fermarci a considerare un romanzo come un mero testo scritto, perché quel romanzo sarà letto dal lettore e io, non so voi, leggo mentalmente ad alta voce. Sento le parole che leggo e se ciò che sento non è musicale alle mie orecchie interne, allora non è gradito alla mente.

Coerenza delle parole

Tempo fa avevo pubblicato un post su cui avvertivo di fare attenzione alle parole che si usano. Quando scriviamo tendiamo a usare il nostro linguaggio, mentre secondo me il linguaggio va adattato al periodo storico di cui scriviamo. Non possiamo usare termini moderni se la nostra storia è del Medioevo.

Le nostre parole devono essere coerenti, non solo all’interno della storia, nel contesto storico-geografico, ma anche nei personaggi. Un contadino o un delinquente che proviene dalla suburra o un bambino non potranno mai parlare come un laureato.

Stile

Lo stile è forse la caratteristica evidente di uno scrittore di saper scegliere le parole in modo che risultino efficaci, musicali, coerenti. Tutto ciò, questa scelta dell’insieme delle parole, crea lo stile di un autore, riconoscibile ai lettori perché chiaro segno distintivo dell’autore stesso.

La ricerca dello stile è uno degli obiettivi dello scrittore, perché rappresenta una sorta di carta d’identità, di marchio che lo rende distinto rispetto agli altri scrittori.

Linguaggio

Ogni scrittore ha un proprio linguaggio. Non parlo solo di come fa parlare i suoi personaggi, ma anche del linguaggio narrativo. A me non piace usare parole volgari nelle mie storie, per esempio, anche se fanno parte della realtà. E non amo leggerne.

Autori come Camilleri e Lansdale le usano. Non mi dà fastidio leggerle, perché sono usate con parsimonia e in precisi contesti, come se i due scrittori sapessero come usarle e dosarle. Credo che nel linguaggio ci voglia una certa eleganza, una certa signorilità, affinché i nostri testi non risultino un parto della peggiore nicchia di reietti, ma un’opera letteraria.

Conclusione

Fare attenzione alla scelta delle parole quando scriviamo una storia farà di noi dei veri scrittori. In fondo, chi si reputa scrittore non deve solo saper creare una storia, ma anche saperla raccontare.

E la storia si racconta con le parole.

22 Commenti

  1. PaGiuse
    venerdì, 6 Settembre 2013 alle 9:33 Rispondi

    Buon giorno Daniele :)
    Su Dan Brown mi trovi pienamente d’accordo, anche se non ho tutte le carte in regola per poter sostenere la tua tesi, semplicemente perché non l’ho letto.
    A meglio, lessi solo l’incipit del Codice Da Vinci, che sbirciai dal libro di una mia amica. Si parlava tanto di questo Capolavoro del secolo ed ero molto curioso. Leggendo le prime pagine però, il mio entusiasmo per l’acquisto del libro si arresto bruscamente.
    E’ un’opinione strettamente personale, dettata più dal pregiudizio che dalla “scientificità”; quindi va presa come tale, poiché non è attendibile :)
    Mentre leggevo il tuo post pensavo ad una cosa: la “maturità” del lettore.
    Sono perfettamente d’accordo su tutta la linea espressa dal post: le parole devono essere ponderate, calibrate, insomma usate ad arte. Questo definisce uno stile e permette ad una storia di essere unica nel suo genere: usando le parole giuste un ricettario può diventare un capolavoro (mi viene in mente un ricettario delle tecniche pittoriche, rinascimentale!).
    Però stile e originalità contano poco se il lettore non è pronto: personalmente ho lasciato in sospeso dei “signori libri” tra cui “lo straniero” di Camus (neanche tanto lungo). Camus usa le parole giuste, altroché!
    Ma mi son dovuto fermare, nonostante Camus sposi una filosofia a me molto cara, perché non sono maturo per assimilare quel testo.
    Come al solito ho divagato, uscendo dalla tematica che hai lanciato nel post, spero mi scuserai per questo!
    A presto :D

    • Daniele Imperi
      venerdì, 6 Settembre 2013 alle 10:29 Rispondi

      Sì, posso concordare sulla maturità del lettore vista in quel senso. Mi ricordo quando al ginnasio, all’età di 14 anni, si doveva leggere l’Adelchi del Manzoni. Ecco, a te sembra una lettura per ragazzetti di 14 anni?

      Io non ci capii nulla e ancora non affronto una lettura del genere.

      Quindi penso che tu abbia ragione sull’essere maturi in quel senso per alcuni scrittori. Bisogna assimilare prima alcune letture, poi affrontarne altre.

      Credo che uno scrittore come Eco non sia semplice. Io ho letto solo Il nome della rosa, ma ancora non inizio Il cimitero di Praga.

      Immagino tu intendessi qualcosa del genere. Non hai divagato, in fondo io ho parlato di scelta delle parole e della loro combinazione, proprio come hanno fatto Camus, Manzoni e Eco.

      • PaGiuse
        venerdì, 6 Settembre 2013 alle 11:16 Rispondi

        Sì intendevo dire proprio questo.
        Poi hai toccato un altro nervo scoperto che è quello della scelta (inesistente, credo) dei testi di narrativa nelle scuole.
        Sai cosa mi infastidiva all’epoca (scolastica) ?
        Non so se oggi funzioni ancora così, ma sono sempre stato riluttante all’idea del testo unico per tutti.
        Sullo studio dell’Antologia è ovvio che bisogna avere una linea comune. Lo studio della Letteratura deve essere qualcosa di disciplinato.
        Ma la Narrativa…
        Fino agli ultimi anni di superiori, mai nessun docente mi aveva spiegato il senso (non il significato, attenzione) della narrativa.
        La Narrativa per me è scelta.
        Ricordo che il prof degli ultimi anni di superiori, ci mise a disposizione un ventaglio di libri da leggere ed in base alle indicazioni che forniva, noi potevamo scegliere.
        Scelta che poi dovevamo giustificare, in base al tipo di lettura e al tipo di riflessioni emerse.
        Ognuno con le sue scelte, ognuno con le sue riflessioni: in questo modo emerge un altro concetto stupendo che è quello della diversità, in un ambiente come quello della scuola che tende ad omologare (non sempre, per fortuna).
        Ecco, personalmente sono di questa idea: lo studio dell’antologia (come di qualsiasi altra cosa del resto) serve a disciplinare, poiché mette a dura prova il nostro impegno.
        La narrativa invece serve ad assumere consapevolezza delle proprie scelte, diciamo che aiuta a far emergere il carattere, delinea e definisce (in parte) la nostra persona.
        Come sempre è un’opinione strettamente personale e quindi non condivisibile :)
        Come sempre ho divagato! :D

        L’Adelchi di Manzoni , a 14 anni! Se dovessi arrivare ai 90, lo stesso credo di non essere pronto per una lettura simile :D

        Buona giornata! :D

        • Daniele Imperi
          venerdì, 6 Settembre 2013 alle 11:46 Rispondi

          Mi hai dato l’idea per un post, invece, che se vuoi potremmo fare in gemellaggio, come ho già fatto con Neri e Cristiana tempo fa. Decidiamo un giorno e pubblichiamo lo stesso post, con riflessioni personali sulla scelta della narrativa anche in riferimento alle scuole.

          Che ne dici?

          • PaGiuse
            venerdì, 6 Settembre 2013 alle 13:25 Rispondi

            Ciao Daniele :D
            Scusa se ti rispondo solo ora!
            Certo che mi va!!!
            Attendo tutte le tue istruzioni! Non vedo l’ora!
            Grande! :D

  2. Attilio Nania
    venerdì, 6 Settembre 2013 alle 10:30 Rispondi

    Pienamente d’accordo con questo post, non saper scegliere le parole giuste e’ il mio peggior difetto. In realta’, credo sia il peggior difetto di tutti i principianti, salvo quelli che non sanno nemmeno scrivere in italiano.

    • Daniele Imperi
      venerdì, 6 Settembre 2013 alle 10:32 Rispondi

      Sì, è un difetto soprattutto per i principianti, credo dovuto a mancanza di esperienza. Le prime volte è normale che sia così.

      A me è però capitato di leggere alcuni brani di autori autoprodotti e sai che ho visto? Zero emozione in quelle scritture. Più di 2-3 paragrafi non sono riuscito a leggere, non nasceva una comunicazione fra me e lo scrittore e fra me e la sua scrittura. Spero di essermi spiegato.

      • Attilio Nania
        venerdì, 6 Settembre 2013 alle 10:39 Rispondi

        Ti sei spiegato benissimo. Questa e’ una cosa che, se mi reputassi uno scrittore, non vorrei mai sentirmi dire, perche’ significa fallimento.

        • Daniele Imperi
          venerdì, 6 Settembre 2013 alle 10:40 Rispondi

          Ahah, beh, neanche io vorrei sentirmela dire .D

    • MikiMoz
      venerdì, 6 Settembre 2013 alle 13:17 Rispondi

      KINGO! Ma chi fine hai fatto?? :)

      Moz-

  3. Giuliana
    venerdì, 6 Settembre 2013 alle 15:53 Rispondi

    Quanto condivido, Daniele! (… anche per quanto riguarda l’aridità di Dan Brown e Wilbur Smith).

    La musicalità del linguaggio è forse uno degli elementi cui presto maggiore attenzione quando scrivo, nella perenna ricerca di una parziale perfezione stilistica personale.
    Le parole sono importanti. Sono importanti le emozioni che comunicano, le sfumature che conferiscono al testo, il modo in cui legano tra loro, la melodia che vanno a comporre alle orecchie di chi legge.

    Già, perché a volte ci si dimentica che c’è chi legge.

    E fa risuonare nelle propria testa il suono che l’autore ha prodotto, ne fa scaturire una precisa immagine, lo colora a partire dalle sensazioni che quell’insieme di lettere ha prodotto in lui.
    L’autore non ha solo il compito – e piacere – di raccontare qualcosa. Ha anche quello di raccontarla bene, con le parole giuste; di plasmare la materia che ha tra le mani al fine di accompagnare le varie fasi che la storia attraversa.
    Così che in un momento di delicata tenerezza il lettore si senta davvero sciogliere il cuore, o che nel corso di una della battaglia sperimenti in prima persona l’ardore e il trasporto vissuto da chi combatte; affinché possa non solo leggere la storia, ma viverla con tutto sé stesso. E tenerne traccia dentro nel tempo.

    Per trovare la “mia melodia” quello che faccio è rileggere a voce bassa tra me e me ciò che scrivo. Deve filare liscio, musicale, senza intoppi. Se percepisco una parola intrusa, la sotituisco con un sinonimo più in sintonia. Se la musicalità si inceppa, provo a scambiare di posto alcune parole. Se suona ridondante, taglio a dovere. La frase deve essere – nel suo piccolo – perfetta, e deve essere perfetta anche per il paragrafo e per il contesto in cui si trova.
    Come un puzzle, in cui ogni pezzo va messo al posto giusto, altrimenti l’immagine non compare.

    Io sono forse un po’ eccessiva in questo. E mi dispiaccio quando vedo che molti dei libri contemporanei che decido di leggere sono per così dire “buttati lì”. Fatti di un linguaggio banale, sciapo, privo di mordente. Non curati, né appassionati. Sono scritti di parole solo perché era l’unico modo per raccontarli, ma si percepisce che l’attenzione è tutta diretta allo svolgere della trama e che non c’è un minimo di amore e coinvolgimento dell’autore per l’uso della scrittura in sé.

    Una volta era diverso. Si anelava alla bellezza stilistica, si cercava di coglierla e porgerla al lettore affinché potesse goderne. Contenuto e forma erano sullo stesso piano, talvolta con prevalenza di quest’ultima. Ecco, io non dico di tornare ad allora. Ma una giusta via di mezzo e un po’ di delicata attenzione, quello sì.

    Scusa la lungaggine, è un argomento che mi appassiona e tocca molto ;P

    • Daniele Imperi
      venerdì, 6 Settembre 2013 alle 16:22 Rispondi

      Hai ragione, anche a me capita di rileggere i periodi che scrivo per scovare parole fuori posto o rime involontarie o inceppamenti per parole che stanno male accostate.

      Pensavo di essere il solo a non aver gradito Brown e Smith. Secondo me ci sono lettori che si accontenano, leggono solo come passatempo. Magari per chi ama scrivere la questione è diversa, tende a cogliere altro, quello che gli potrà servire per la sua scrittura, in fondo.

      • Giuliana
        venerdì, 6 Settembre 2013 alle 16:42 Rispondi

        È vero, hai ragione… Non ci avevo pensato.
        Chi ama scrivere, chi ama la bellezza della scrittura e delle parole che la compongono, legge con altri occhi. Più attenti ed esigenti.

        Il fatto di leggere a voce alta è proprio per sentire materialmente il suono che le parole producono, messe assieme e in un determinato ordine. Se lo faccio tra me e me, non riesco ad avere un’idea precisa. Va beh che io sono una che parla da sola, quindi sono un caso a parte (disperato?) :D

  4. Cristiana Tumedei
    venerdì, 6 Settembre 2013 alle 17:25 Rispondi

    Salve Imperi,
    hai messo tanta carne al fuoco in questo post, eh! :D

    Assolutamente d’accordo con te quando parli di efficacia, musicalità e coerenza nella scelta delle parole. Anche sullo stile, nonostante sia convinta che questo sia dato da più elementi tra cui il ritmo, per esempio.

    Sul linguaggio, invece, avrei qualcosa da dire… vedi, tu scrivi che serve coerenza nella scelta delle parole in funzione del tempo e del soggetto che parla. Beh, a parer mio anche il linguaggio dovrebbe seguire la stessa logica.

    E sai perché trovi Lansdale piacevole? Proprio perché lo modula in funzione dei personaggi. Ti faccio un esempio.

    Ricordi “Cielo di sabbia”? Ecco, se ti soffermassi solo sul linguaggio usato dall’autore lo riterresti povero, poco elegante. Insomma tutto il contrario rispetto a come dici dovrebbe essere.

    In realtà, però, funziona. Ed è così perché il protagonista è un ragazzetto adolescente che si esprime in modo coerente con la sua età, l’estrazione sociale, il periodo storico e la collocazione geografica.

    Insomma, se il linguaggio di scrittura fosse stato differente forse non avresti apprezzato così quel libro. Quindi sono d’accordo sull’idea dell’opera letteraria, ma non in funzione del linguaggio che può anche non essere elegante e signorile. Almeno secondo me ;)

    • Daniele Imperi
      venerdì, 6 Settembre 2013 alle 17:50 Rispondi

      Ho messo tutta la carne che avevi chiesto tu al mercato, l’altra volta :D

      Sullo stile concordo, non è solo parole, è vero.

      Sul linguaggio mi sono spiegato male. Ho scritto “Non mi dà fastidio leggerle (le parolacce), perché sono usate con parsimonia e in precisi contesti”.

      Ecco, intendevo appunto come fa Lansdale, che quando fa parlare un personaggio, gli mette in bocca il linguaggio a lui adatto. Ma non per questo diresti che Lansdale è volgare. Ho sbagliato a usare eleganza e signorilità, che hanno fuorviato, ma le intendevo non in senso stretto :)

      Come ho scritto nel paragrafo sulla coerenza.

  5. Cristiana Tumedei
    venerdì, 6 Settembre 2013 alle 17:31 Rispondi

    Ah, aspetta Imperi! Stavo dimenticando una cosa :D

    Io credo che la questione potrebbe essere risolta con un unico aggettivo.

    Quando scrivi devi scegliere le parole adatte. Sì, non le migliori, le più efficaci, musicali, eleganti, signorili, ecc.

    Semplicemente le più adatte. Perché esiste sempre un termine ad hoc per trasferire su carta quello che abbiamo in mente. E su questo potrei consigliare un sacco di esercizi divertenti che aiutano a stimolare la creatività e la capacità di chi scrive nel scegliere le parole.

    Ah, perché non ne proponi tu qualcuno? :)

    • Daniele Imperi
      venerdì, 6 Settembre 2013 alle 17:51 Rispondi

      E chi se move, Tumedei? :D

      Giusto, hai ragione, le parole adatte.

      Visto che hai suggerito TU gli esercizi, potresti pensare a un guest post, che ne pensi? ;)

      • Cristiana Tumedei
        venerdì, 6 Settembre 2013 alle 17:56 Rispondi

        Beh, i miei esercizi sono più adatti ai copywriter o a chi si occupa di comunicazione. Immagino che qui sarebbero un po’ off-topics. E mi pare che su Penna blu di argomenti fuori tema non se ne parli, giusto? :D

        Però tu potresti pensarne alcuni ad hoc per scrittori. Anche perché io ho proposto a TE di regalarli ai tuoi lettori ;)

        • Daniele Imperi
          venerdì, 6 Settembre 2013 alle 18:07 Rispondi

          Mmm… non so se riesco, non saprei proprio da dove cominciare. Forse dai personaggi stessi. Vediamo, va, ti farò sapere :)

  6. Le doti del blogger
    lunedì, 9 Settembre 2013 alle 5:02 Rispondi

    […] Bisogna saper scrivere e non tutti sono in grado di farlo. L’abilità consiste non solo nella conoscenza della lingua italiana e della grammatica, fondamentali per la scrittura, ma anche nella formulazione delle frasi, nella costruzione dei periodi, nella scelta delle parole. […]

  7. Mila Orlando
    lunedì, 9 Settembre 2013 alle 23:55 Rispondi

    Assolutamente d’accordo con le cose lette in questo post.
    Io credo che alcuni libri siano come i cinepanettoni oppure i grandi colossal americani. Ti raccontano una storia senza anima.
    Io credo per creare una melodia di parole, chi scrive debba sentire la storia dentro di se. Come quando un cantautore scrive con le mani sul pianoforte. Se sei dentro la storia allora c’è questo ingrediente. L’ho sempre pensato leggendo Hemingway e anche Lansdale, i suoi turpiloqui sono coerenti con il suo stile, come le sue frasi brevi e le sue descrizioni forti.

    • Daniele Imperi
      martedì, 10 Settembre 2013 alle 7:27 Rispondi

      Ciao Mila, benvenuta nel blog.

      Concordo: devi sentire la storia tua, che parte da te. Allora riuscirai a scrivere emozionando il lettore.

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