Il Sanatorio delle Coincidenze Esagerate

Un racconto fantastico

Il Sanatorio delle Coincidenze Esagerate

Questo racconto è molto lungo, supera i 49.000 caratteri. Puoi leggerlo qui o scaricarlo dalla pagina degli ebook.

Lettere da Birmingham

Birmingham, 30-VI-1892

Caro Maestro,

qui piovono rane. Come immaginerete, il fatto ha causato un certo scalpore, ma voi non ne resterete meravigliato. Quando è accaduto l’evento, mi trovavo a passeggiare a Mosley, una periferia della città. La mattina era soleggiata e il cielo pressoché libero da nubi, ma a un certo punto ecco che centinaia di rane hanno iniziato a piovere dal cielo, sfracellandosi sulla strada.

Che spettacolo!

Non tutte sono morte e alcune hanno cominciato a saltellare qui e là, spaventando le signore e causando l’ilarità dei bambini. Ne ho raccolta una e ora l’ho qui con me, in un barattolo con dell’acqua. Non è ferita, sta bene e la osservo per capire da dove venga, ma finora nessuna risposta.

Vi terrò al corrente.

Vostro,

C.H.F.

***

Birmingham, 12-VII-1892

Caro Maestro,

ho ricevuto la vostra lettera e sono davvero felice di sapere che verrete a trovarmi. Qui le giornate sono abbastanza monotone, il falansterio è una struttura cupa, inquietante, gli altri internati non sono la migliore compagnia per una conversazione. Discorrere con voi dei misteri dell’umanità e del mondo sarà un diversivo che accoglierò con entusiasmo.

La rana è ancora viva, anche se un’inserviente mi ha ordinato più volte di gettarla nello stagno. È una donna che odia tutti gli animali all’infuori del suo antipatico gatto. Prima di liberare la rana voglio riuscire a capire cosa nasconde nel suo mutismo.

«Una rana non può parlare, Charles», mi ha detto uno dell’Areopago, il signor Miller.

«È solo perché noi non conosciamo il suo linguaggio», ho risposto io. Ma non credo che avesse capito, dallo sguardo che ha fatto.

Vostro,

C.H.F.

Il Conservatorio dell’Improbabile

«Chi siete, Maestro?»

In un mattino del luglio 1892, sotto lo sguardo del falansterio, i due passeggiavano nella campagna antistante l’austera costruzione. Attorno, gli internati – come venivano chiamati da Charles, cioè i membri del consorzio di produzione – andavano e venivano per le varie mansioni.

«Sono solo uno studioso, Charles.»

«Vorrei diventare come voi.»

«Vuoi diventare un alchimista?»

«Perché no?»

Giunsero allo stagno. L’acqua era scura, dai riflessi verde muschio. Charles si accovacciò a riva e aprì il barattolo, rovesciandolo. La rana, perplessa, se ne stette ferma per qualche minuto.

«Non vuole uscire», disse il ragazzo.

«È di fronte a un dilemma, Charles.»

«Un dilemma?»

«Devi capire il suo modo di ragionare, che non è come il nostro. Le rane, come gli altri animali, hanno un linguaggio composto dal gruppo parole-sensazioni, con tre combinazioni diverse: pericolo, sicurezza, nutrimento. In questo caso la rana ha vissuto una breve esperienza di prigionia nel tuo barattolo, esprimibile con il concetto iniziale di barattolo-pericolo, cambiato poi in barattolo-sicurezza e infine in barattolo-nutrimento. Ora vede lo stagno e il suo processo mentale ricomincia da zero. È stagno-pericolo, poiché per lei è una sensazione nuova dopo giorni di monotonia nel barattolo.»

«Capisco.»

La rana si mosse, avanzò sulla superficie di vetro e uscì. Saltellò e si tuffò infine con un guizzo nello stagno. Un colpo delle zampette e scomparve nel fondo.

«Ho cercato di studiare il suo linguaggio, nei giorni passati, ma non sono giunto alle vostre conclusioni. Né i consiglieri mi sono stati d’aiuto.»

«Pensavi il contrario?»

«No», rispose Charles. «Perfino quando parlai loro della neve nera non mi diedero risposte soddisfacenti.»

«La neve nera. Ti riferisci a quel triste episodio di Omsk?»

«Sì, Maestro.»

Calotipia d’inverno

Karl Florenskij tornava a casa. La sera era rigida, il vento siberiano ululava come i lupi dannati della steppa e il freddo penetrava nel cappotto del ragazzo come aghi di ghiaccio scagliati dagli spiriti della notte. Lungo il trakt c’era solo silenzio a quell’ora. Silenzio e ghiaccio. Il fiume Irtyš era una sbavatura gelata che non avrebbe ripreso vita per molto tempo ancora. Karl osservava il mondo attorno a lui come nel negativo di una fotografia: la notte bianca e la striscia nera del fiume, i tronchi secchi degli alberi candidi e il suolo innevato nero.

«Non credo che la malattia degenererà in cecità», aveva detto l’oculista a Karl.

«Guarirò?»

«Intendi sapere se un giorno potrai vedere come una persona normale e non al negativo?»

«Sì.»

«No, credo proprio di no. Mi dispiace.»

Karl divenne triste e malinconico. Cadde presto in una depressione senza scampo, i suoi voti a scuola peggiorarono e i rapporti coi genitori si fecero insostenibili.

Devo partire, pensava ogni mattina quando si svegliava nella sua camera a Omsk.

Si fermò lungo la sponda del fiume. Sedette su una roccia e rimase a osservare la lamina di ghiaccio che copriva l’acqua. Immaginò la vita che scorreva al di sotto.

«Il ghiaccio è la chiusura che impedisce ai due mondi, quello terrestre e quello subacqueo, di venire in contatto», disse a voce alta.

Qualcosa cadde davanti a lui. Karl alzò lo sguardo al cielo color pece. Nubi cariche di neve, pensò. Puntini bianchi apparvero sulla volta celeste, scivolando nell’aria fredda come soffioni, atterrando poi ovunque attorno a lui. Karl strinse gli occhi e si concentrò su ciò che stava accadendo.

Puntini bianchi.

Fiocchi di neve che cadevano dal cielo.

Fiocchi bianchi, li vedeva chiaramente, bianchi contro il nero del cielo.

Macchiarono di bianco il fiume gelato.

Neve nera.

Karl si alzò. Era abituato a ragionare al negativo quando vedeva qualcosa. Il cielo catrame era bianco di nubi. Il nastro nero del fiume era il ghiaccio. Il suolo nero era bianco di neve. I tronchi bianchi erano la corteccia scura. E ora quei fiocchi bianchi erano neve nera.

La nevicata aumentò d’intensità. Karl si guardò attorno, ma non vide nessuno. Omsk sembrava caduta in un insolito letargo. Non c’erano carrozze, né cavalli. Il trakt era deserto. Karl era solo.

Avanzò sulla sponda dell’Irtyš. Il ghiaccio sembrava resistente. La neve nera stava coprendo di bianco la superficie. Il ragazzo avanzò ancora e si portò fino al centro del fiume. Guardò su, al cielo, e fiocchi bianchi gli colpirono il viso. Avvertì una sensazione di gelido calore.

Un rumore, sotto i suoi piedi.

Osservò le scarpe e le sottili linee che si ramificavano partendo dal suo baricentro.

Crack.

Karl sorrise. La neve nera continuava a cadere, silente.

La ragnatela di linee si fece più marcata. Lo strato di ghiaccio si fratturò, aprendosi in crepe profonde. Sotto di lui, Karl poteva sentire l’acqua scorrere, la vita scivolare, i due mondi incontrarsi, unirsi.

Crack.

Sotto la neve color ossidiana Karl svanì, inghiottito nell’Irtyš e ora parte dell’altro mondo, fluido e inconsistente, eppur vivo.

Sotto la luce delle lune blu

Quando giunse a Quercia Nera, nell’ora del desinare, Karlag delle Pianure salutò Fulgan, del Clan dei Maghi. Veniva al Mercato nel giorno della luna, portando con sé utensili e armi da vendere, solo, senza carro né bestie.

«C’è del pane, della birra e alcune uova di dronte. Serviti», lo invitò Fulgan.

«Ti ringrazio.»

Karlag sedette e si servì del cibo. «Come sta andando al Mercato?»

«Non male», rispose il Mago. «È venuta gente perfino dalle Montagne. Quelli delle Colline hanno barattato come al solito e è finita come al solito.»

«Morti?»

«Quattro di loro.»

«Non impareranno mai la lezione.»

«Sono delle Colline. Presto ne resterà soltanto uno e allora, forse, capirà come barattare.»

«Sei ottimista, Mago», rise Karlag.

«Che cosa porti con te?», chiese dopo un po’ Fulgan.

«Utensili e armi.»

«Ho bisogno di pestelli e mortai.»

«Ne ho. In pietra nera.»

«Bene. Ne prendo due, in cambio avrai un mantello di lupo.»

«Fatto da una delle tue mogli?»

«Certamente.»

«Sta bene.»

Karlag finì di mangiare, poi tirò fuori dalla sacca i pestelli e i mortai e li diede a Fulgan. Il Mago prese uno dei mantelli di pelliccia e lo consegnò all’altro. Insieme si avviarono poi al Mercato.

L’uomo delle Pianure riuscì a vendere tutta la mercanzia e riempì la sacca con carne e pesci essiccati, brocche, frutti, aghi e stoffe. Al tramonto tornò assieme al Mago e sedettero in terra a fumare.

«Oggi vedrai qualcosa che non hai mai visto e di cui si parlerà in futuro», disse Fulgan.

«Un prodigio?»

«In realtà no, ma i nostri successori lo giudicheranno tale.»

«Che cosa è?»

«Vedrai. Dopo che sarà scesa la notte.»

Quando l’oscurità della sera giunse, Karlag e Fulgan sedevano ancora in terra, in attesa. Layna, una delle mogli del Mago, aveva portato loro della birra e i due la sorseggiavano in silenzio.

«Ecco, disse Fulgan.»

Karlag si guardò intorno senza capire e Fulgan rise, divertito.

«Guarda la luna, Karlag delle Pianure.»

E Karlag guardò.

In cielo, nel mezzo della volta scura, stavano due lune blu, luminose e vivide.

«Dei innominabili!», esclamò Karlag. «Come… come hai fatto?»

«Non sono stato io, che vai dicendo?», disse Fulgan sempre più divertito.

«Quelle sono due lune, Fulgan, e non sono bianche, ma blu!»

«Se osservi bene, se ti concentri su una delle due, l’altra svanirà. Dunque è sempre una. Il colore blu è dovuto a qualcosa nell’aria, forse alle ceneri del Kranawoha.»

«Tu non la conti giusta, Fulgan.»

«È come dico, invece, fratello.»

Karlag provò a concentrarsi su una delle due lune, la osservò con attenzione e pian piano, come aveva detto il Mago, l’altra svanì. C’era una sola luna nel cielo, anche se ancora blu.

«Perché erano due?», chiese poi.

«Un fenomeno dell’aria, degli strati alti.»

«E dici che succederà ancora?»

«Sì, più o meno ogni tre anni, secondo i miei calcoli.»

«Tu ne hai sempre una, Fulgan.»

«Sono pur sempre del Clan dei Maghi, Karlag.»

Risero. Sotto la luminosità delle lune blu finirono di bere la birra, fantasticando sulle genti che sarebbero apparse dopo di loro, negli anni a venire.

Il Salone degli Artisti Celesti

«Avete mai visto una luna blu, Maestro?»

Stavano passeggiando lungo le sponde dello stagno, il falansterio che diveniva un’entità spaventosa con la sera imminente. Gli internati erano rientrati, in attesa della cena.

«Le lune blu sono un fenomeno tutt’altro che raro, Charles», rispose l’uomo. «Fin dalla preistoria si sono osservate nei cieli del mondo, eventi straordinari che sicuramente hanno infuso in quelle primeve menti timori reverenziali e anche terrore. In realtà, come qualcuno anche nei tempi antichi ha saputo considerare, si trattava di strabilianti effetti dell’atmosfera, di rifrazioni ottiche, di miraggi nella stratosfera, di polveri e ceneri dovute al vulcanismo.»

«Chissà se riuscirò a vederne qualcuna anch’io?»

Erano giunti alla fine dello stagno quando videro uno degli inservienti del falansterio avvicinarsi loro.

«Vi fermate a cena, signor Fulcanelli?»

«No, vi ringrazio», rispose l’uomo. «Devo partire.»

«Pensavo vi fermaste di più, Maestro.»

«Tornerò, promesso.»

I due si incamminarono verso l’edificio. Davanti all’entrata Fulcanelli salutò Charles, una stretta di mano che diede calore al ragazzo.

«A presto, allora.»

«A presto, Charles.»

Lungo la strada che portava in città, Charles osservò il Maestro divenire sempre più piccolo, fino a ridursi a un oggetto confuso con la campagna intorno e le ombre della sera.

Sole verde sull’Oceano Indiano

Quando si verificano certi fenomeni, quando l’ignoranza dei popoli è tale che ogni cosa incompresa è interpretata come una magia, l’uomo di lettere può fare ben poco se non accondiscendere al comune pensiero, porsi al livello che non gli compete.

Ero un capitano di mare che amava leggere e studiare. Imbarcato sulla Sea Meteor, un clipper che batteva bandiera inglese e faceva rotta verso l’isola di Rakata, stavo scrivendo sul giornale di bordo quando sentii un boato assordante e fui scosso da quella che sembrò un’esplosione micidiale.

Caddi a terra, i fogli e l’inchiostro sparsi ovunque, il mio gomito che incontrava duramente il pavimento. Mi rialzai a fatica e chiamai a gran voce il mio secondo, il signor Calbhach Murray, un irlandese determinato e affidabile. Non rispose nessuno, ma udii voci che urlavano e una gran confusione provenire dal ponte.

Uscii dalla mia cabina barcollando – il mare doveva essersi ingrossato parecchio – e salii sul ponte. Non scorderò mai ciò che vidi.

Eravamo nell’Oceano Indiano, in vista dell’isola Rakata e del vulcano Krakatau, quando ero sceso in cabina per mettermi a scrivere. Adesso potevo vedere bene ciò che aveva causato l’esplosione.

Un’eruzione mai vista. Il Krakatau sembrava diventato la bocca dell’inferno. La Sea Meteor beccheggiava tremendamente, i miei uomini erano a terra e alcuni erano feriti. Il cielo stava diventando color catrame e, seppur da lontano, potevo distinguere il rosso della lava e le nubi di ceneri che si alzavano in una gigantesca colonna nera.

Poi la nave si rovesciò e io finii in acqua. Da quel momento è tutto confuso e tale rimase fino a quando non mi ritrovai, alcuni giorni più tardi, nella casa di un pescatore, nei pressi di Padang, a Sumatra.

Ricordo però che qualche ora dopo, mentre mi tenevo a galla e urlavo ordini ai marinai scampati al rovesciamento della nave, sentii qualcuno gridare qualcosa in mandailing – alcuni dell’equipaggio provenivano da Sumatra – e riconobbi le parole.

Sole verde.

In quel momento non capii a cosa si riferisse, ma poi vidi gli uomini osservare terrificati il cielo che andava rabbuiandosi di polveri e ceneri vulcaniche.

Sopra di noi una palla color giada illuminava di una strana luce l’oceano. Era il sole, il sole che prima era stato giallo e adesso era verde. Restò così per tutta la durata del giorno, finché uno strano tramonto rosso sangue non apparve a inghiottire quello strano fenomeno.

Ci salvammo quasi tutti, raccolti da alcuni pescatori e portati fino a Padang. Ebbi modo di parlare coi miei marinai, che attribuirono il mistero del sole verde a un’ira degli dei, piuttosto che a un effetto ottico dovuto alle ceneri vulcaniche. Non tentai di spiegar loro che cosa era effettivamente accaduto, non avrebbero capito o forse non l’avrebbero accettato. La mente umana, specialmente se incolta, preferisce propendere per interpretazioni più semplicistiche, veloci, piuttosto che piegarsi a spiegazioni razionali e scientifiche.

Dopo quel giorno non ho più ripreso il mare. Con la fine della Sea Meteor era morta anche la mia voglia di navigare. Feci ritorno a Londra, dove acquistai una piccola casa in campagna nei pressi della città e mi dedicai allo studio e alla lettura.

La storia del sole verde finì presto per essere dimenticata. Nessuno le diede più importanza, a quanto m’è dato sapere.

Quel che dicono le meteoriti

«Charles, dobbiamo parlare.»

Il signor Miller si era avvicinato al ragazzo, una mattina dei primi di agosto, fuori dal falansterio, dove la campagna assolata pullulava di membri della comunità intenti a svolgere le proprie mansioni.

Charles poggiò a terra il secchio che stava portando.

«L’Areopago non è soddisfatto del tuo lavoro, Charles», disse Miller. «Ti vediamo spesso assente e non così impegnato come gli altri. Sovente ti isoli a scrivere e non permetti a nessuno di avvicinarti.»

«Scrivo le mie riflessioni, appunto notizie interessanti che leggo dai giornali o dalla biblioteca», disse quasi sulla difensiva il ragazzo.

Miller sospirò. «È proprio di questo che volevo parlarti. Di quel che scrivi.» Fece un gesto a Charles, indicando una roccia che spuntava dal terreno poco più avanti. «Sediamoci.»

Sedettero. Intorno la comunità fremeva per i lavori mattutini. L’aria squillava di voci e l’umore era alto, nonostante il caldo.

«Tutte quelle annotazioni, Charles», l’uomo fece una pausa, decidendo come continuare. «Che cosa sono? Speculazioni, fantasie.»

«Notizie.»

«Non so, Charles. Ne ho letto qualcuna: lune blu, soli verdi. L’ultima era sulle meteoriti e su ciò che… com’è che hai scritto? Su ciò che ci si può leggere.»

Charles lasciò andare i pensieri, liberando la mente e tentando di trovare le parole giuste per spiegare all’uomo i misteri delle meteoriti.

«Si tratta di tracce, signor Miller.»

«Tracce?»

«Sì, tracce. Il dottor Hahn disse di aver trovato dei fossili in alcune meteoriti. Coralli, spugne, conchiglie e crinoidi. Fossili microscopici, che ha fotografato.»

«Fossili nelle meteoriti?» Miller era perplesso. Scosse il capo, si guardò intorno come a cercare suggerimenti dai suoi colleghi, ma gli altri erano impegnati con la comunità e nessuno faceva caso ai due seduti sulla roccia. «Fossili nelle meteoriti», ripeté. «E da dove provengono quelle meteoriti, Charles?»

«Da altri mondi, naturalmente.»

«Altri mondi», assentì l’uomo. «E in altri mondi ci sarebbero dunque, secondo la teoria di questo Hahn, coralli, spugne e conchiglie?»

«E crinoidi, anche.»

«Crinoidi, giusto. Gli stessi organismi presenti sulla Terra. Esiste un doppione del nostro pianeta secondo te, Charles?»

«No», rispose il ragazzo. «È la vita come la conosciamo che si è sviluppata altrove e poi è arrivata qui. Quelle meteoriti ce lo ricordano.»

«Capisco.» Miller restò in silenzio per qualche minuto, osservando gli altri ragazzi lavorare nei campi, al recinto, fare avanti e indietro per il falansterio. Quando tornò a guardare Charles, sul volto aveva un sorriso forzato. «Riferirò all’Areopago questa nostra discussione, Charles, e ti farò sapere le nostre decisioni sul tuo caso.»

«Va bene.»

«Puoi tornare al lavoro, ora.»

Charles salutò Miller, si alzò e andò a riprendere il secchio, quindi si avviò verso uno degli orti della comunità. Miller restò a guardarlo finché non si confuse con gli altri, poi rientrò nell’edificio.

L’Ufficio degli Oggetti Caduti

Era un pomeriggio di fine agosto quando Charles bussò all’ufficio del signor Miller. Uno degli inservienti gli aveva comunicato che era atteso dal consigliere. Il ragazzo sapeva già cosa aspettarsi, ma non se ne curò molto.

«Ognuno deve seguire la propria via», gli aveva detto Fulcanelli, un giorno.

Dalla stanza giunse la voce di Miller che l’invitava a entrare. Charles aprì la porta. L’interno era ben ammobiliato, disordinato anche, con scaffali e librerie ricolmi di volumi, una scrivania piena di carte, tavole geografiche alle pareti.

«Charles», lo salutò l’uomo. «Accomodati», disse indicando una poltrona.

Il ragazzo lo vide mettere da parte alcuni fogli, poi alzare lo sguardo su di lui.

«Charles», cominciò, «l’Areopago ha discusso la tua situazione e alcune cose, diciamo così, non collimano con la filosofia del consorzio. Abbiamo sentito alcuni lavoranti riferirsi al falansterio con nomi fantasiosi e anche ridicoli, a dire il vero.»

«Nomi fantasiosi?»

«Sì, Charles», rispose Miller. «Secondo loro sei stato tu a chiamare il falansterio in quei modi: il sanatorio delle coincidenze esagerate, il conservatorio dell’improbabile, il salone degli artisti celesti e altri che ora nemmeno ricordo.»

«Va contro alcune regole tutto questo?»

«No, assolutamente, Charles. Ma qui siamo in un consorzio di produzione. È così che va chiamato, capisci? Perché quei nomi?»

«Non lo so. Mi sono venuti in mente dopo le mie letture in biblioteca.»

«Abbiamo discusso anche di queste letture, Charles. Secondo l’Areopago ti distraggono dalle attività che devi svolgere nella comunità. Qui siamo quasi duemila persone, capisci? Che succederebbe se ognuno di noi passasse il tempo a leggere di mitologia e racconti popolari e reinventasse la realtà? Si creerebbe il caos, Charles, la produzione rallenterebbe e l’intera economia del falansterio crollerebbe.

«Leggo nelle ore libere.»

«Certo, ne sono consapevole. Ma quelle letture ti hanno reso svogliato. Hai riempito la tua stanza di annotazioni di ogni tipo, alcune perfino incomprensibili, consentimelo. Le attività del tempo libero dovranno essere quindi riconsiderate, Charles.»

«Riconsiderate?»

«Sì. Stiamo studiando un programma di riabilitazione lavorativa. Appena sarà pronto ti informeremo. Dovrai attenerti a quel programma, Charles, per il bene tuo e dell’intera comunità.»

«Va bene, signor Miller.»

«Perfetto.» L’uomo sorrise, soddisfatto. «Ora ti lascio, la cena sarà servita a breve.»

«Buonasera.»

«Buonasera, Charles.»

Caravelle sui cieli di Roma

Ombrellini e parasole, lungo la via. Passeggiatori spensierati che andavano e venivano, li vedeva da una delle vetrine del Caffè della Pace, seduto davanti a un giornale e a una tazzina di espresso che neanche aveva toccato. Il caffè si sarebbe raffreddato e allora l’uomo sarebbe uscito, lasciandosi trascinare dalla gente fino a Piazza Navona.

C’era un tempo in cui veniva allagata, divertimenti andati di vent’anni prima. Suo padre lo ricordava, quando saliva in carrozza e spruzzava acqua gareggiando con gli altri vetturini. Concavità sparite, nuove convessità che preludevano altri passatempi e oziosità dell’epoca moderna. Roma capitale prevedeva un ruolo pertinente anche per il gioco, lo svago, le distrazioni.

L’uomo entrò nella piazza, godendosi quella piacevole mattinata estiva, e andò a sedersi davanti alla fontana dei Quattro Fiumi. Giocolieri intrattenevano turisti e curiosi romani. Venditori ambulanti, ritrattisti, cantastorie, burattinai: a chi la prossima mossa? Riuscivano a sbarcare il lunario?, si chiese Carlo Forti.

La gente passeggiava e sorrideva, chiacchierava senza pensieri – o ne aveva? E com’erano? – mentre lui era fermo, serio, annoiato. Stasi forzata. Forse quel periodo storico non gli era congeniale, forse neanche gli apparteneva. Prevedeva tempi bui per Roma, per l’Italia. Per se stesso. Altre guerre, altre morti. Distruzione e ricostruzione, come sempre. Un cerchio collaudato.

Piazza Navona era paragonabile a una campagna, nella mente riflessiva e critica dell’uomo, e i passeggianti a un gregge eterogeneo di pecore, ma senza pastore, o forse il pastore era la stessa piazza, l’ozio, il bisogno di vagare senza un fine, per puro piacimento.

E lui chi era?

La pecora nera, quella senza gregge, senza disciplina, la scontenta, malinconica, quella che tutte le altre evitavano.

Ed era così anche nella realtà. Si accorgeva che la gente, avvicinandosi a lui, se ne distanziava subito dopo, come se avesse paura di sconfinare o di esser morsa, o persino contaminata.

Il rischio di contaminazione non c’era. La massa segue la massa, non il singolo. Si stupì nel chiedersi, nell’immaginare anzi, se un singolo, uno solo, potesse smuovere le masse. Un’idea da seguire e perseguire per riformare, nel bene e nel male, la Roma e l’Italia dell’oggi. Potrebbe accadere, ma le conseguenze?

Con la mente quasi sprofondata in quei pensieri che riteneva senza senso, non s’accorse dell’immensa ombra che oscurò la piazza per alcuni istanti. Davanti a lui vide la gente alzare gli occhi al cielo, ma qualcuno riuscì a captare ciò che passò sui cieli romani quella mattina? Una donna anziana urlò e svenne. Prontamente un signore di passaggio la prese in braccio, l’adagiò su una panchina e cercò di rianimarla. Si formò un capannello di curiosi e così nessuno più fece caso a ciò che produsse quella strana e gigantesca ombra.

Carlo Forti si alzò e si diresse verso il punto in cui aveva visto svanire l’oggetto misterioso, verso l’isola Tiberina. Si ritrovò quasi a correre, urtando i passanti e biascicando frettolose scuse. E poi…

Si fermò.

Stava attraversando via dei Giubbonari quando, alzando di nuovo lo sguardo alla volta celeste, vide ciò che non avrebbe dovuto vedere. Ciò che avrebbe cambiato la sua vita da quel preciso momento. Ciò che l’avrebbe portato al suicidio dodici anni più tardi, in una muta e inevitabile resa di fronte all’incomprensione della società.

Caravelle sorvolavano i cieli di Roma.

Caravelle di viaggiatori celesti.

Simboli indecifrabili, sconosciuti erano dipinti sulle vele.

Carlo Forti si chiese chi manovrasse quelle navi e come avanzassero nell’aria.

Da dove venivano? Chi erano quei misteriosi giramondo astrali? Qualcun altro aveva visto quelle navi oltre a lui? Illusione ottica? Sogno a occhi aperti? Oppure un’inaspettata frattura fra due mondi aveva permesso a lui di vedere quei pionieri cosmici? E che ci facevano lì? Perché avevano deciso di sorvolare Roma?

Figure indistinte si muovevano sui ponti delle caravelle. Umani, o almeno esseri simili. L’uomo non riuscì a dare un volto e una forma precisa ai naviganti del cielo. Si ritrovò a salutarli nel momento in cui svanivano oltre i tetti degli edifici.

Ed era ancora lì, fermo sul marciapiede della via, a salutare con la mano le caravelle che non eran più, gli occhi puntati al cielo luminoso, ignaro e incurante degli sguardi dei passanti e dei sorrisi degli increduli.

Chi è sepolto a Edimburgo?

Al tramonto Bhradain Macrae decise di smettere di rimuginare su ciò che aveva scoperto fra le rocce di Pentland Hills e imboccò il sentiero che portava alla fattoria di Godraidh. Il freddo, con la discesa della sera, gli mordeva la pelle nuda sotto il kilt, ma l’uomo voleva assolutamente parlare con l’amico prima di tornarsene a casa, al caldo e alla cena che l’attendeva.

La fattoria spuntò oltre gli alberi di Kips Wood, con una colonna di fumo che si sollevava bianca dal tetto per andare a perdersi nel cielo quasi buio. Bhradain immaginò un piatto di haggis cucinato da Morna e un vuoto allo stomaco gli fece allungare il passo. Raggiunta la costruzione aprì la porta ed entrò.

«Ma chi…?»

Morna sedeva sulle gambe dell’amico, il seno quasi fuori dal vestito. Bhradain notò il kilt di Godraidh sollevato. Non è stato un momento opportuno, pensò, sorridendo sotto la barba incolta.

«Maledetto bastardo», urlò Godraidh, ricomponendosi, «non usi bussare?» Sua moglie si alzò ridendo, senza arrossire neanche un po’.

«E tu non usi consumare certi pasti in camera da letto? L’haggis rischia di raffreddarsi.»

«Beh, intanto s’è raffreddato qualcos’altro.»

«Problemi tuoi, Godraidh Mackendrick», lo prese in giro l’amico.

«Che vuoi?»

«Volevo parlarti di una cosa.»

«E non potevi aspettare domattina? Cos’è? Ursell t’ha cacciato?»

«Ursell neanche sa che sono qui.»

Morna portò in tavola una pentola fumante. «Siediti, Bhradain», disse. «Ne vuoi un po’?»

Bhradain guardò la pentola con uno sguardo che mal celava l’appetito che aveva. «No… ti ringrazio Morna, fra poco torno a casa.»

«E dagliene un piatto, non vedi che mangerebbe anche un uro?», disse Godraidh. «Tanto a casa poi cenerà di nuovo, il bastardo.»

La donna riempì tre piatti. Poi portò altrettanti boccali di birra pieni in tavola e sedette. Scoccò un’occhiata a Bhradain e sorrise al ricordo di quanto accaduto poco prima.

Godraidh cominciò a mangiare. «Di che diavolo volevi parlarmi?», chiese col boccone pieno. Senza inghiottire bevve un lungo sorso di birra, che gli colò giù per la barba. Ruttò rumorosamente e tornò ad attaccare la carne.

«Delle bare che ho trovato, giù a Grant Rocks.»

Godraidh smise di abbuffarsi. Anche Morna attese che l’amico continuasse, ma Bhradain non aggiunse altro.

«Bare?», chiese Godraidh. «Di che bare vai parlando, Macrae?»

«Di quelle che ho trovato a Grant Rocks.»

«Sì, questo l’avevo capito», disse irritato l’altro. «Non c’è sepolto nessuno qua attorno. I morti stanno tutti a Edimburgo.»

«Lo so. Eppure quelle sono bare. E piccole anche.»

«Bambini?», chiese la donna, scurendosi in volto.

«Non so, Morna», rispose Bhradain. «Le casse sono… ecco, non sembrano di queste parti, per capirci.»

Godraidh batté un pugno sul tavolo. «E io invece non c’ho capito niente, bastardo d’un Macrae. Che diavolo significa che le bare non sono di queste parti?»

«Hanno una forma diversa», rispose Bhradain. «E poi tutti quei segni, io non li avevo mai visti prima. Volevo parlartene domani, a dire la verità, sono stato tutto il pomeriggio a pensarci su e alla fine mi sono detto no, è meglio che lo racconto subito a Godraidh, ché magari mi sa dire qualcosa.»

«Ma certo che ti dico qualcosa, Bhradain», urlò l’altro. «Ti dico di bussare la prossima volta.»

Morna rise in silenzio e Godraidh le lanciò un’occhiataccia.

«Che facciamo allora?», chiese Bhradain.

«Adesso proprio niente», rispose l’amico. «Adesso io finisco di mangiare e poi me ne vado a letto. Domani mattina ti raggiungo a casa e poi andiamo a Grant Rocks.»

«Sta bene», disse Macrae.

Finì di mangiare, quindi si alzò e ringraziò la coppia.

«A domani allora.»

«A domani, Macrae.»

 

Da un cielo nuvoloso e grigio spuntò un’alba livida, fredda. Bhradain s’era buttato un mantello sulle spalle e attendeva l’amico sulla soglia di casa. La figura dell’uomo apparve dopo alcuni minuti, bestemmiando e borbottando qualcosa contro il maltempo e le bare. I due si salutarono con un cenno del capo.

S’incamminarono per il sentiero che attraversava Pentland Hills, oltrepassarono alcuni campi deserti e raggiunsero il luogo conosciuto come Grant Rocks, una zona rocciosa, brulla, dove non cresceva niente all’infuori di erbaccia e spine.

«Laggiù», disse Bhradain, indicando un punto davanti a loro.

Godraidh guardò. A ridosso di una sporgenza rocciosa del terreno vide un piccolo avvallamento, una conca piena di terra smossa, e qui e là disseminate alcune piccole bare dalla geometria insolita. Erano allungate, ma sagomate come non se ne vedevano in giro. Avevano bordi arrotondati e presentavano la stessa larghezza ovunque. Sul coperchio l’uomo vide incisi dei segni sconosciuti, come un linguaggio di un popolo lontano.

«Come le hai trovate?»

«Beh, ci sono quasi finito sopra», rispose l’amico. «Ero andato a lavorare alle fattorie vicine, quando per poco non sono inciampato su qualcosa che spuntava dal terreno. E non era una roccia. Mi sono avvicinato e ho visto che era una piccola bara di legno. Così l’ho tirata fuori. La pioggia deve averla dissepolta. Con una pietra mi sono messo a scavare, perché si vedeva che quella era una fossa comune, e ne ho trovate altre. Sono sette in tutto, ma magari qualcun’altra è rimasta ancora sottoterra.»

«Ne hai aperta qualcuna?»

«No, aspettavo te.»

Godraidh volse uno sguardo di rabbioso rimprovero verso Bhradain e si avvicinò alla bara. «Dai, dammi una mano ad aprirla.» Tirò fuori dal fodero il coltello e ne infilò la lama sotto il coperchio. Bhradain fece lo stesso e in breve tempo sentirono un crack.

«Non vedo chiodi», disse Godraidh.

«Infatti non ce ne sono», confermò l’amico.

«E come le hanno chiuse?»

Bhradain non rispose e fece leva sotto al coperchio con il coltello, finché riuscì a separarlo dalla cassa. Quando i due uomini guardarono dentro, si fecero d’istinto indietro, spaventati.

«Merda», urlò Godraidh, «e quello che diavolo è?»

«Io… io non ne ho idea.»

Dentro la cassa videro un corpo. Non era un bambino, non aveva forme riconoscibili. Non sembrava neanche umano ai due uomini. Lo osservarono meglio, ma non capirono la funzione di alcune appendici né delle varie aperture su quella che doveva essere una testa. Il corpo era ben conservato, sembrava anzi mummificato. Appariva di colore scuro, ambrato.

«Che cosa è quel… quella cosa, Bhradain?»

«Non certo un bambino.»

«Lo vedo anch’io che non è un bambino, maledizione. Che bestia è?»

«Io non ho mai visto animali del genere», rispose Bhadrain. «Ne dobbiamo parlare con Duncan. Avvertire il clan. Scoprire se ce ne sono delle altre e»

«Cosa?», lo interruppe l’altro. «Parlare col capo clan? Io dico di no, Bhadrain. Non voglio sapere cosa potrebbe uscire fuori da tutta questa storia. Se qualcuno… qualcosa ha sepolto qui questa roba, significa che qui deve stare e non sarò certo io a cambiare l’ordine delle cose.»

«Vuoi coprire tutto, allora?»

«Sì, è proprio quello che intendo fare. E dico anche che non avresti mai dovuto tirarle fuori dalla terra.»

«Che potevo saperne? Avresti fatto lo stesso anche tu.»

Godraidh ci pensò su, grattandosi la barba. «Sì, hai ragione», disse infine. «Beh, diamoci da fare, allora, rimettiamole a posto.»

«D’accordo.»

Lavorarono per quasi l’intera mattinata e quando finirono venne giù la prima pioggia. Continuò a piovere a dirotto anche quando i due amici presero la strada del ritorno e tutta quell’acqua li inzuppò senza tregua finché non giunsero a casa di Bhradain. Seduti davanti a un boccale di birra, discussero sulla scoperta di Grant Rocks, sperando che la pioggia non disseppellisse nuovamente le piccole bare venute da chissà dove.

Nei mesi successivi tornarono, a turno, a controllare la conca che custodiva gli esseri misteriosi, ma nessuna pioggia scavò più così tanto la terra da far riaffiorare il segreto che celava.

Non ne parlarono mai con nessuno. Alle rispettive mogli raccontarono una bugia credibile e le donne non fecero mai domande. Poi Bhradain e Godraidh invecchiarono e ciò che videro a Grant Rocks, in quella mattina uggiosa di tanto tempo prima, sbiadì come se una nebbia avesse velato quei ricordi. Infine i due uomini morirono, credendo al sicuro il segreto delle bare degli esseri venuti da altrove.

La Biblioteca degli Altri Mondi

Fra i vari avvisi esposti in bacheca Charles notò una comunicazione dell’Areopago. Riguardava le attività da svolgere durante le ore libere. Il consorzio di produzione non poteva più permettere, per il bene della comunità, svaghi che potessero minarne la missione stessa e l’economia.

Pertanto la biblioteca resterà a disposizione dei membri del falansterio previa autorizzazione scritta dell’Areopago, ma la lettura di determinati quotidiani, riviste, pubblicazioni, documenti e libri non sarà comunque consentita.

Charles rilesse l’avviso più volte, incredulo di fronte a quelle assurde limitazioni. Le sue letture erano tutto ciò che lo tenevano vivo là dentro, in una comunità di cui mai s’era sentito parte. Tornò nella sua stanza e osservò le annotazioni. Centinaia e centinaia, collezionate in quasi tre anni di permanenza nel falansterio.

Ne prese una caso.

Era un avvistamento di caravelle volanti a Roma, nel 1891, a opera di un certo Carlo Forti. Charles sorrise. Carlo Forti. Il nome era simile, molto simile al suo, Charles Fort.

Ne prese una seconda.

Bare di piccoli esseri venuti da altrove, scoperte fra le rocce di Edimburgo. Non c’era nessun nome collegato a quel fatto, avvenuto nel XVIII secolo.

Il ragazzo sospirò. Almeno gli avevano lasciato quella sua piccola collezione personale, una sorta di biblioteca di altri mondi, come amava definirla, misteri, avvenimenti, fenomeni dimenticati, mai approfonditamente studiati, ma solo divulgati e poi lasciati stare, senza la dovuta attenzione.

Forse, pensò Charles, tutte queste annotazioni non servivano a nulla, forse era stata tutta una perdita di tempo. O forse valeva ancora la pena dedicarsi allo studio di quella criptoletteratura, tenerla in vita, continuare a lavorare a essa. Continuare a collezionare fatti, avvistamenti, notizie. Ma non nel falansterio.

Altrove.

Prese carta e penna e cominciò a scrivere una lettera al Maestro.

Ci osservano dall’alto

Dopo un’ora a girovagare per le strade di Christiania, io, Peder e Turid raggiungemmo l’Egeberg e ci sedemmo in terra a riposare. Sotto di noi la città si estendeva limpida in quella mattina di maggio. Un carro pieno di fieno avanzava lentamente verso Opsloe Kirke, una coppia portava a spasso un bambino, un anziano arrancava sorreggendosi al bastone.

«È tutta qui la nostra vita, Pål?», mi domandò Peder.

Quel giorno non avevo voglia di discussioni filosofiche e non risposi. Ma Peder tornò subito all’attacco.

«C’è qualcosa che può scuotere i nostri animi? Talvolta ho l’impressione di essere un relitto che si lascia trasportare dalla corrente del tempo.»

«Non c’è nulla di male a lasciarsi trasportare», disse Turid.

«Tu sei una donna, non puoi capire», scherzò l’amico.

«Perché non ti godi il panorama, Peder?» Alla fine scelsi di dire qualcosa, volevo decisamente cambiare argomento.

«Il panorama è sempre lo stesso. La città è una fotografia a tre dimensioni scattata dal tempo e fissata nello spazio.»

«E il tempo sembra che peggiori», disse Turid. «Guardate quelle nuvole.»

«Da norvegese dovresti sapere che non esiste il brutto tempo, ma solo abiti non adatti.»

«Oggi ti senti un filosofo, vero Peder?»

«Lo sono sempre, mio caro Pål.»

Le nubi avanzarono da ovest, oscurando il cielo che diventò una macchia di piombo che turbinava. Il vento aumentò e noi ci alzammo per spostarci verso un punto più riparato. Le fronde degli alberi si piegavano e vennero giù le prime gocce di pioggia: minute come polvere liquida.

«Forse dovremmo rientrare», propose Turid.

Peder allungò una mano. «Non sta piovendo», disse.

«Ho visto alcune gocce», confermai.

«Beh, allora ha smesso subito.»

Fu allora che le cose cambiarono.

L’aria si riempì di un aroma indefinibile. Il vento spirò da una diversa direzione, come se ci fossero due correnti d’aria a contendersi il territorio. Istintivamente alzammo gli occhi al cielo per osservare quell’insolito mutamento climatico.

Erano sopra di noi.

Cadde altra polvere e allora seppi che non erano minuscole gocce di pioggia quelle che avevo visto, ma terriccio.

Eravamo ammutoliti. Persino Peder non riuscì ad aprire bocca.

Fluttuavano nel cielo come isole alla deriva, frammenti di terre lontane causati da ignote faglie.

Relitti di mondi vaganti.

Come iceberg siderali, si lasciavano trasportare dall’inerzia, forse a venti, trenta metri d’altezza, non più. Erano città quelle che vedevamo? Strutture aliene, geometrie e architetture così distanti dalla nostra concezione da non poter essere descritte. A casa, due ore dopo, tentai di fare uno schizzo di quelle meteore volanti, ma non ne fui capace.

«Ecco dunque la risposta», disse Peder spezzando il silenzio.

Non compresi in quel momento che cosa intendesse. Forse, se avessi intuito il messaggio nascosto in quella frase, avrei potuto evitare ciò che accadde successivamente. Ma sarebbe stata la decisione giusta?

Notai dei movimenti sui relitti, sia negli edifici sia a terra. Figure umane – perché non c’erano dubbi su questo, erano persone come noi, anche se indossavano strani abiti – che ci indicavano.

Peder si staccò da noi e avanzò fino al limite della sporgenza rocciosa dell’Egeberg. Cominciò a gesticolare verso le isole celesti, come a voler attirare l’attenzione dei loro abitanti. E allora uno dei relitti si abbassò, compì una virata verso Peder fino a porsi proprio sotto la prominenza di roccia.

Adesso era sotto di noi.

E allora Peder saltò giù.

Io e Turid restammo alcuni secondi a guardare a occhi sbarrati, increduli, incapaci di agire. Poi corremmo verso il bordo della sporgenza.

Il relitto vagante aveva ripreso a salire. Da quale arcano meccanismo era mosso? Quale forza lo spostava? Non ricordo quanti quesiti formulò la mia mente nei pochi secondi impiegati dall’isola fluttuante a risalire e raggiungere le altre. Io e Turid non riuscimmo a dire nulla. Una cosa, però, risollevò il nostro animo.

Peder.

Per la prima volta in vita mia vidi il mio amico veramente felice. Lo sguardo non mentiva. Peder se ne stava lassù, assieme a quegli sconosciuti venuti da chissà dove, pienamente soddisfatto, come se avesse finalmente trovato la sua strada.

Lo vidi parlarci, urlando qualcosa che non poté giungere fino a noi, ma riconobbi le parole dalle sue labbra.

Non è tutta qui la nostra vita.

Questo disse.

E da quel momento seppi che aveva ragione.

I relitti di quei mondi che appartenevano ad altri spazi cosmici volarono via e con loro se ne andò anche il segreto più grande che l’uomo abbia mai potuto sfiorare. Soltanto il mio amico Peder lo conobbe, ma non tornò mai indietro a svelarlo.

Putrefazione cosmica

Ripulì il pugnale sui pantaloni e lo rimise nel fodero. Lasciò i corpi dei due viandanti sventrati in terra, semisvestiti e riversi in un lago di sangue. Con una mano soppesò il bottino: due sacchetti di monete d’oro e d’argento. La giornata è cominciata bene, pensò Dragan Marović.

Si ficcò in tasca il denaro e montò in sella, spronando il cavallo verso Sasleben. Sulla pianura la pioggia cadeva come se il cielo volesse liquefarsi e lasciare aperto il confine fra terra e cosmo. All’uomo la pioggia sembrò quasi densa, uno stillicidio lento, costante sull’erba di marzo. La città di Redera, dietro di lui, divenne un’ombra confusa, velata dall’acqua e dalla nebbia.

Mentre attraversava il distretto rurale di Calauischer, ripensò all’appuntamento con Jožko e alla rapina al ricco notabile di Sasleben. Quella notte, se il loro piano avrebbe funzionato, per Dragan sarebbe iniziata una nuova vita.

Superò qualche fattoria isolata e, quando la pioggia aumentò, trovò riparo sotto un capanno abbandonato. Nell’attesa mangiò un pezzo di formaggio e del pane, mentre osservava l’acqua inzuppare la terra e non dare tregua al mondo.

Quando una palla di fuoco squarciò il cielo, lasciandosi dietro una scia di fumo e scintille, il cavallo scartò e s’impennò. Dragan faticò per calmarlo e restare in sella, bestemmiando e imprecando. Seguì un boato che spaventò ancor più l’animale e l’uomo decise di saltare giù e legarlo. Poi azzardò uno sguardo fuori.

Lontano, una colonna di fumo si alzava dal terreno. Dragan si chiese cosa fosse accaduto e guardò in alto, nel timore di scorgere altre palle infuocate precipitare dalla volta celeste. Ma dal cielo veniva giù solo acqua. Slegò il cavallo, gli bisbigliò qualcosa all’orecchio e rimontò in sella. Poi uscì dal capanno e si diresse verso il fumo.

Scorse la depressione pochi minuti dopo. Una roccia nera fumava proprio nel mezzo e il cavallo nitrì, terrorizzato. Dragan lo incitò a muoversi e controvoglia l’animale avanzò al trotto.

Quando fu proprio davanti all’affossamento, l’uomo avvertì un forte odore di sandracca. Si avvicinò alla roccia. Fumava ancora, come se fosse uscita dal centro della terra, mentre era venuta giù dal cielo. Dragan la osservò meglio: della materia viscosa, bruna come terriccio, copriva parte della superficie. Allungò una mano a toccarla e urlò, chiedendosi cosa diavolo fosse quella roba che bruciava attaccata alla roccia.

Il cavallo era ancora spaventato e l’uomo penò per tenerlo a bada. Poi l’animale nitrì dal dolore, come impazzito, sfuggendo alla presa e galoppando via.

E allora anche Dragan urlò.

Qualcosa lo colpì alla spalla. Qualcosa che bruciava come la sostanza che aveva provato a toccare sulla roccia.

Voltò la testa e vide il mantello fumare. La stessa materia viscosa stava adesso sul suo corpo, consumando stoffa, pelle e carne. Dragan si tolse il mantello e tentò di tamponare la bruciatura. Poi avvertì ancora quel dolore, adesso su un braccio. E infine sulla testa. Alzò gli occhi al cielo e ciò che scoprì lo pietrificò dall’orrore.

Dense gocce di sostanza viscosa e marrone cadevano giù come una pioggia demoniaca. Lentamente, come se l’universo intero si stesse sciogliendo. Una volta, da bambino, Dragan aveva visto un cadavere putrefatto disciogliersi come ghiaccio sotto il sole. La puzza l’aveva fatto star male per tutto il giorno. La sensazione fu la stessa.

Le gocce viscose continuarono a cadere, con più intensità ora, colpendo il corpo di Dragan, che iniziò a correre per raggiungere il capanno. Era ustionato in varie parti del corpo. Non aveva modo di evitare la pioggia. Si avvolse il mantello sulla testa per proteggerla meglio che poteva, ma la materia liquida bruciava la stoffa con rapidità e Dragan poteva sentire il calore sfiorargli la cute.

Lontano, davanti a lui, mentre correva urlando dalla sofferenza e dalla paura, scorse il capanno. Era in fiamme. Là non avrebbe trovato rifugio. Forse in una fattoria, si disse, accelerando il passo. Ma dov’erano? Ne aveva passate alcune, prima di trovare quel capanno, ma a cavallo, mentre adesso era a piedi e quella maledetta pioggia lo stava bruciando vivo.

Cadde. La sostanza viscosa lo colpì alle gambe, alle braccia, sulla schiena. Urlò rigirandosi istintivamente per spegnere il bruciore e le gocce lo raggiunsero al petto, all’inguine, sul viso.

Tentò di rialzarsi. Il mantello scivolò via dalla testa e nuove gocce si abbatterono sul capo. Dragan fu invaso dal delirio e dalla follia. La sostanza ormai l’aveva ricoperto, penetrando nella carne e negli organi interni e divorando tutto come un fuoco vivo.

Dopo alcuni minuti la pioggia viscosa cessò. La roccia caduta dal cielo si raffreddò e così la materia sconosciuta.

Nessuno trovò mai il corpo di Dragan Marović.

Il rogo della Cattedrale di Sant’Altrove

Dalla roccia su cui circa un mese prima era seduto assieme a Charles, Fulcanelli osservava le fiamme estendersi per tutto il falansterio, consumare muri, stanze, divampare come una massa di fuoco che si nutrisse da sé.

Forse è davvero così, pensò il Maestro.

Dentro, in fondo, c’era l’animo infuocato del ragazzo, tutta la sua collezione, ciò che lo teneva lontano da una malinconia crescente che dilaniava la sua stabilità emotiva.

Fulcanelli prese l’ultima lettera speditagli dal suo discepolo e la rilesse un’altra volta.

 

Birmingham, 9-IX-1892

Caro Maestro,

il tempo è concluso. Non v’è più motivo per cui debba proseguire la mia permanenza al falansterio. Altri ostacoli sono sopraggiunti e altre mete mi attendono. S’è appena compiuta una vecchia fase della mia vita e un’altra sta per avere il suo inizio.

Questo luogo non fa più per me. È limitante. Pesante. Mi sento come prigioniero di un involucro che mi soffoca e reprime i miei pensieri, le mie idee. Avrei voluto essere trasportato via dai relitti dei mondi erranti apparsi a Christiania, ma a quel tempo non ero ancora nato.

Mi tornano in mente ora le vostre parole.

 

“L’alchimia per l’uomo molto probabilmente non è altro che la ricerca ed il risveglio della Vita segretamente assopitasi sotto il pesante involucro dell’essere e la grezza scorza delle cose, ricerca e risveglio derivanti da un certo stato d’animo molto prossimo alla grazia reale ed efficace.”

 

Le ricordate?

La mia vita si stava assopendo nell’involucro-falansterio, una comunità di esseri grezzi e disinteressati. Ho bisogno di alchimia, Maestro. Di risvegliare la mia vita. Ho bisogno della ricerca. Sento che la mia anima si sta liquefacendo come le meteoriti della Lusazia. È per questo che ho deciso di incendiare il falansterio assieme alla mia Cattedrale di Sant’Altrove. Tutto quanto. Non importa ciò che perderò. Ci sono altre biblioteche nel mondo.

Non prendetemi per un assassino. Farò in modo che non sia presente nessuno. Proprio domani ci sarà una sorta di premiazione, che si svolgerà in aperta campagna, e il signor Miller vuole che assistano tutti. Nessuno vedrà uno dei membri allontanarsi e dirigersi verso l’edificio.

È tutto, Maestro. Vi scriverò ancora, quando avrò trovato un luogo capace di accogliere la mia anima affamata.

Vostro,

C.H.F.

 

Il Maestro ripiegò la lettera e la rimise in tasca. Alcuni membri della comunità stavano tentando di spegnere l’incendio riempiendo alcuni secchi allo stagno, ma ormai il falansterio era andato. L’uomo vide il signor Miller avvicinarsi.

«Non c’è traccia di Charles», disse. «Ma se è rimasto dentro…»

«Mi auguro di no», mentì Fulcanelli. «Manca qualcuno?»

«No, a parte il ragazzo», rispose Miller. «Per fortuna erano tutti alla premiazione.»

Il Maestro annuì. «Che farete, ora?»

Miller alzò le spalle. «Non ne ho idea, davvero», disse. «Ma ho dei contatti a Birmingham, che ho già attivato, e mi aiuteranno a sistemare tutti da qualche parte, in attesa di trovare un nuovo edificio per la comunità.»

Restarono a guardare le fiamme diventare sempre meno violente e i volontari arrendersi all’impossibilità di salvare l’edificio, finché a poco a poco l’intero falansterio si ridusse a una serie di monconi anneriti che spuntavano da una massa caotica di ceneri fumanti. Più tardi giunsero alcune vetture che prelevarono i membri e con una serie di viaggi li trasferirono in città.

Fulcanelli salutò Miller. Lo guardò salire in una delle ultime automobili e sparire nella polvere alzata dalle ruote.

Osservò ancora le rovine di quella cattedrale di disgraziati, asilo lenitivo delle sofferenze degli internati, che per uno, uno solo, non era stato di giovamento alcuno. La mente umana, pensò il Maestro, era un labirinto cabalistico e soltanto una potente alchimia poteva trovare modo di orientarsi nei suoi bizzarri e inestricabili percorsi. La Cattedrale di Sant’Altrove, come il ragazzo aveva ribattezzato il falansterio come contenitore della sua collezione, non era più pervasa da quella forza alchemica che investigava e trasformava ogni sostanza originale, ma era ridotta a una muta glorificazione dell’ermetico, nera carbonizzazione della sconfitta.

Da quelle ceneri non sarebbe mai rinata una fenice. Non lì, ma in altri luoghi, come aveva scritto Charles.

Altrove.

Nota

Il racconto è stato ispirato dalla lettura del meraviglioso saggio di Louis Pauwels, Il mattino dei maghi, e precisamente dal capitolo in cui parla di Charles Hoy Fort, personaggio realmente esistito, nato ad Albany il 6 agosto 1874 e morto a New York il 3 maggio 1932. Fort aveva raccolto migliaia di annotazioni di fatti ed eventi inspiegabili, che la scienza aveva rifiutato e che erano finiti nel dimenticatoio. Le aveva riunite in scatole di cartone che aveva chiamato il “sanatorio delle coincidenze esagerate”. Un giorno gettò tutte le scatole nel fuoco.

Nel mio racconto questo “sanatorio” è divenuto un edificio. Il Maestro che incontra Charles, Fulcanelli, è un misterioso alchimista vissuto nel XX secolo, di cui si ignora l’identità. Non credo abbia conosciuto Charles Fort.

Il brano citato da Charles nella sua ultima lettera a Fulcanelli è preso da Il Mistero delle Cattedrali, opera del Maestro, posteriore però ai fatti narrati nel racconto, essendo stata pubblicata nel 1922. Il finale del racconto è stato scritto giocando con alcune parole prese da quell’opera.

Anche se le storie contenute nel mio racconto provengono da quelle migliaia di annotazioni, ho lavorato quasi esclusivamente di fantasia. Nella storia c’è anche un po’ di Cloud Atlas.

10 Commenti

  1. Andrea
    domenica, 24 Marzo 2013 alle 11:23 Rispondi

    Grazie!

  2. Cristiana Tumedei
    martedì, 26 Marzo 2013 alle 11:05 Rispondi

    Mi è piaciuto molto questo racconto. Conoscevo già le vicende legate a Charles Hoy Fort, quindi il titolo mi aveva già incuriosita parecchio. Sei stato bravo, sul serio!
    Non è semplice scrivere un racconto in cui più storie vengono messe in relazione tra loro. Tu ci sei riuscito e il risultato mi ha soddisfatta. Infatti, nonostante la lunghezza del racconto, la lettura è stata piacevole e per un po’ mi ha permesso di starmene insieme ai tuoi personaggi.

    • Daniele Imperi
      martedì, 26 Marzo 2013 alle 11:12 Rispondi

      Grazie :)
      Se conoscevi già Fort allora hai capito meglio il racconto.

  3. Marcello
    giovedì, 4 Aprile 2013 alle 13:45 Rispondi

    Molto bello! Come al solito, appena ho un po’ più di tempo, lo recensisco sul mio blog.
    Mi piacciono i racconti a incastro e anch’io ho pensato a Cloud Atlas – anche se non l’ho ancora visto, né letto.
    invece sto scoprendo adesso la parola “falansterio” grazie al tuo racconto, nonché notizie su Charles Fort e Fulcanelli.

    Saludos!

  4. Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier
    venerdì, 7 Giugno 2013 alle 5:01 Rispondi

    […] Insegna a pensare e a trovare idee. È grazie a questo saggio che sono riuscito a scrivere Il Sanatorio delle Coincidenze Esagerate e Lo sconosciuto degli abissi. È grazie a questo libro che ho avuto altre idee per racconti e […]

  5. Come scrivere un racconto fantastico
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