L’uomo che venne dal passato

Un racconto dell’insolito
L'uomo che venne dal passato

Il paziente

Il poliziotto che bussò alla porta della clinica neurologica, quel pomeriggio, era zuppo fradicio per la pioggia che dalla mattina cadeva a secchiate senza sosta. Buttò uno sguardo sulla cartellina che gli aveva consegnato l’ospedale e lesse ancora il nome scritto a pennarello: SACKS. Tutto ok, era proprio qui che doveva portare il matto.

Nel vialetto antistante l’entrata l’auto attendeva a motore acceso, i fari che spandevano una scialba luminosità penetrando a fatica il muro d’acqua. Alla guida, l’altro poliziotto tamburellava spazientito con le dita sul volante e il passeggero che sedeva dietro sembrava invece guardare nel vuoto davanti a lui.

La porta della clinica si aprì e un’infermiera comparve sull’uscio, sollevando le sopracciglia alla vista dell’agente.

«Il dottor Sacks», disse l’uomo porgendo la cartellina tutta bagnata. La scritta che riportava il nome del medico si stava allungando sotto l’effetto dell’acqua, come plastica che si squaglia al calore. «Ho un paziente per lui.»

L’infermiera lo fece accomodare, poi andò a chiamare il medico, che arrivò dopo un paio di minuti, salutò l’uomo e aprì la cartellina coi documenti che gli aveva dato l’infermiera.

«Incapace, demente, confuso e disorientato», lesse Sacks. «Dov’è il paziente?»

«È fuori in macchina», rispose il poliziotto.

«Che diamine, lo porti dentro, allora», lo esortò il dottore. «Signorina Parker, prepari una stanza.»

Il poliziotto uscì e tornò subito dopo conducendo l’uomo per un braccio. Sacks lo guardò, gli sorrise e lo accolse con un allegro buonasera.

«Da quando se ne occupa la polizia di trasferimenti di pazienti?», chiese poi all’agente.

«L’ospedale non ha voluto occuparsene. È pazzo, ha dato segni di squilibrio e…»

«Ha un qualche disturbo funzionale, agente, che non significa pazzia», lo interruppe Sacks. «Lo lasci a me, adesso è compito nostro. La ringrazio.»

L’agente salutò e uscì dalla clinica, ben felice di abbandonare quel posto pieno di svitati.

«George», disse il dottore, «ora le mostro la sua stanza. Fra poco sarà servita la cena e domani mattina, quando sarà riposato, la visiterò.»

«Io…», disse l’uomo. «Che posto è questo?»

«È la mia clinica, George», rispose Sacks. «E io sono il dottor Oliver Sacks, un neurologo. Lei è stato ricoverato qui perché ha avuto un problema.»

«Io stavo… stavo solo andando al cinema, ricordo. Poi ho incontrato quella donna e…»

«Non si affatichi, ora. Mi racconterà tutto domani mattina.»

Il cinema scomparso

Quando uscì dal locale, pioveva a dirotto. Si tirò su il bavero della giacca e s’incamminò sulla sedicesima verso la 3° Avenue. La strada era deserta e i pochi lampioni non riuscivano a vincere l’oscurità della sera invernale e la pioggia che veniva giù. George non aveva voglia di tornare a casa subito. Da quando era finita la guerra, la sua vita gli era apparsa diversa. Si sentiva cambiato, qualcosa era accaduto dentro di lui, qualcosa cui non sapeva dare un nome. In quei pochi mesi dalla fine degli orrori non si era mai sentito veramente a casa. Forse, pensò mentre camminava lungo il marciapiedi, la mia casa erano i bombardamenti e gli assalti contro il nemico, il fango dei terreni pieni di caduti, le rovine delle città distrutte, il sangue e il dolore.

Continuò a camminare, cercando di vincere quello sconforto in cui era precipitato, pensando a un modo per distrarsi, per alleggerire la mente dal malessere esistenziale che l’aveva preso.

Si ricordò che al Bellmore Cinema davano Fallen Angel, così accelerò il passo per ritrovarsi presto al riparo e al caldo. Un film lo avrebbe disteso, avrebbe alleviato quel suo disagio postbellico, lo avrebbe allontanato dalla quotidianità che non riusciva ad accettare.

Due isolati dopo raggiunse l’angolo con la 3° Avenue. Passando accanto al cinema notò un manifesto giallo che mostrava alcuni prodotti alimentari. George si chiese cosa significasse. Avrebbe dovuto vedere le locandine dei film e non una pubblicità di cibi. Alzò gli occhi e, al posto della pensilina del cinema, vide un tendone verde – altro particolare che lo inquietò – su cui in bianco campeggiava la scritta Health Food Store.

Ho sbagliato strada, si disse.

Si guardò intorno, cercando di orientarsi, ma riconobbe, sull’altro lato della via, i vecchi palazzi scuri che conosceva fin troppo bene. No, quello era l’angolo fra la sedicesima e la 3° Avenue, impossibile sbagliarsi.

Che fine ha fatto allora il Bellmore?, si chiese sempre più sorpreso. E come hanno potuto tirar su un negozio di generi alimentari in un giorno?

Era impossibile, George ne era certo. Quando era passato per quella strada, la mattina, il cinema c’era, ricordava le locandine di Fallen Angel, la pensilina, perfino parte dell’interno. Quello era il cinema in cui era andato il mese scorso, quando assieme a Bob Sterman aveva visto The Story of G.I. Joe con Robert Mitchum e Burgess Meredith. Quanti ricordi erano riaffiorati nella mente dei due camerati con quel film! Bob era stato in guerra con lui, assegnati alla stessa divisione in Nord Africa. Era stato bello riscoprirsi ancora vivi in patria.

Ma adesso il cinema non c’era più. Sostituito da un negozio di cibi biologici. George non capì cosa significasse quel termine. Tutto il cibo era biologico, no? Che bisogno c’era di spiegarlo in una reclame?

Si avvicinò alla vetrina che dava sulla 3° Avenue. Le luci illuminavano gli scaffali e gli espositori. Tutto gli apparve anacronistico. Ricordò il negozio di alimentari vicino casa sua – quando c’era stato? Due giorni fa? Tre? – e questo che aveva sostituito il cinema era completamente differente. L’arredamento, i colori, la disposizione dei prodotti, le confezioni dei cibi… tutto gli apparve inconsueto.

Un sospetto lo assalì. Si guardò intorno, scandagliando con lo sguardo le strade, le auto, i pochi passanti che a quell’ora si attardavano ancora in giro.

No, si disse, questa non è la città che conosco.

Non è la New York del ’45.

Una sconosciuta in casa mia

Confuso da quell’inspiegabile scoperta, George proseguì verso casa. Dopo circa mezz’ora raggiunse la 7° Avenue e salì al suo appartamento. Si sarebbe messo subito a letto, sì, era la cosa migliore, una bella dormita e avrebbe dimenticato quello strano episodio cui aveva assistito. L’indomani, con calma, magari sarebbe tornato alla 3° Avenue e avrebbe controllato meglio. Sullo stradario, anche, per vedere se riportasse ancora il Bellmore Cinema.

Aprì la porta, entrò e si bloccò.

Davanti a lui vide una donna.

Restò a guardarla senza sapere cosa fare. Nella sua mente si ingolfarono pensieri su pensieri senza arrivare a capo di tutte le stranezze di quella serata fuori dal mondo. Lei gli sorrise. Era una donna di mezza età, bionda, di bell’aspetto. L’uomo cercò di ricordare se avesse assunto una cameriera, ma non aveva certo soldi da spendere inutilmente. No, lui viveva solo, era tornato dal fronte da alcuni mesi e aveva ripreso il suo lavoro in ufficio.

«Chi è lei?», chiese, alterato. «Che ci fa in casa mia?»

«George…», rispose la donna, avvicinandosi. «Ma che dici?»

«Io… come fa a sapere il mio nome?» L’uomo, sempre più smarrito, si guardò intorno. Forse ho sbagliato casa, si disse, ma no, come avrei potuto aprire la porta? E poi mi ha chiamato per nome… mi conosce, quindi.

No, quella era casa sua, questo era chiaro. Era casa sua come quella di prima era la 3° Avenue, anche se al posto del cinema c’era adesso un negozio. E allora, se quello era il suo appartamento, chi diavolo era quella donna che lo guardava come se fosse un pazzo?

George si appoggiò al muro. Le immagini attorno a lui presero la forma di un delirio visuale e confusionario. Da lontano, oltre i muri dell’appartamento, giunse il boato di un’esplosione. Alcune raffiche di mitra, ordini urlati al vento, grida di dolore.

Poi tutto divenne fumo e il silenzio un suono assordante di follia.

Dove sono?

George?

Una voce dal nulla.

George? Può sentirmi, dottore?

Sì, credo di sì.

Si riprenderà?

Ha avuto un mancamento, signora Horwitz. Ma non sappiamo ancora a cosa sia dovuto. Stiamo facendo degli esami.

George?

Ancora quella voce. Lontana, sconosciuta.

 

«Perché mi trovo qui?»

L’infermiera gli prelevò il sangue e sorrise. «È stato male, ma vedrà che guarirà presto.»

«Che fine ha fatto il Bellmore?»

«Cosa?»

«Il Bellmore, dannazione. Il cinema sulla terza Avenue.»

«Non lo so, signore, non conosco quella zona», rispose l’infermiera. «Ora le chiamo il dottore.»

Arrivò dopo qualche minuto. Era un uomo sui cinquanta, calvo, con un paio di baffi neri. Accanto a lui c’era la stessa donna che George aveva trovato in casa sua.

«Buonasera, signor Horwitz, sono il dottor Myers. Come si sente?»

«Frastornato», rispose George. Poi guardò la donna. «Questa è la donna che stava in casa mia. Perché è qui?»

I due si scambiarono un’occhiata e la donna scoppiò a piangere.

«Davvero lei non riconosce questa donna?»

«Certo, non l’ho mai vista in vita mia.»

La donna pianse più forte, nascondendo il volto nel fazzoletto. Disse anche qualcosa, ma né il medico né George capirono le sue parole.

«Si chiama Clara Horwitz. Le dice nulla questo nome?»

«No, nulla, a parte che ha il mio stesso cognome. Posso sapere chi è?»

Il medico si sfregò il viso con una mano e assunse un’aria grave. «È sua moglie, signor Horwitz.»

George strabuzzò gli occhi e rise, ma la sua fu quasi una risata isterica. «Cosa? Sta scherzando, vero? Io non sono sposato, sono tornato dalla guerra solo da alcuni mesi e non ho ancora avuto modo di conoscere ragazze né di frequentarle.»

Il dottor Myers si voltò verso la donna e le chiese di uscire. Quando tornò a rivolgersi a George, sul suo viso si leggeva una profonda preoccupazione.

«Signor Horwitz», disse, «in che anno siamo?»

«Cos…? Ma che razza di domanda è?»

«Se ne ricorda?»

«Ma certo che me ne ricordo!», urlò George. «Siamo nel 1945. Gliel’ho detto che sono tornato dalla guerra da pochi mesi. Sa quand’è finita la Seconda Guerra Mondiale, dottore?»

«Capisco», rispose il dottore. Poi inspirò, assunse un’espressione ancor più grave e guardò George dritto negli occhi. «Signor Horwitz», disse, «adesso è il 1978 e lei è sposato con Clara Horwitz. La guerra è finita da oltre trent’anni.»

 

«Sta dormendo?»

«Sì, abbiamo dovuto sedarlo», rispose il dottor Myers. «Ha cercato di andarsene, ma nelle sue condizioni sarebbe stato disastroso. Ho provato a fermarlo, ma mi ha sopraffatto e…», il dottore si portò una mano al sopracciglio, dove il pugno di George l’aveva colpito e dove, adesso, un grosso cerotto copriva il taglio, «il resto lo ha potuto vedere coi suoi occhi. Ci sono voluti tre infermieri per bloccarlo.»

«Ma che cosa gli è accaduto?»

«Una perdita di memoria, questo è più che sicuro. Ma soltanto un neurologo potrà rispondere a tutte le sue domande. C’è una clinica, fuori città, gestita dal dottor Sacks. Lo faccio trasferire lì, se lei è d’accordo. Ma non ci sono altre alternative.»

«Va bene, dottore», disse la donna, «io… ho paura.»

«Vedrà che andrà tutto bene», la confortò Myers. «Non ho ambulanze disponibili e dopo quanto è accaduto non so se i miei infermieri se la sentono di accompagnare suo marito alla clinica. Chiamo il distretto di polizia, conosco il capitano e manderà un’auto.»

Un viaggio nel futuro

Aprì gli occhi e il bianco del soffitto accolse il suo risveglio. La testa era un fuoco di visioni e martellamenti continui. Gli pareva dovesse esplodere da un momento all’altro, come una granata lanciata dal nemico.

Che è successo?, si disse. Che diavolo di posto è questo?

Si alzò, si vestì e uscì dalla stanza. Un’infermiera lo vide e gli andò incontro, sorridendo.

«Signor Horwitz», disse, «adesso le chiamo il dottor Sacks.»

«Chi?»

«Mi attenda qui, la prego.»

George vide la donna sparire lungo il corridoio e tornare qualche minuto dopo con un medico.

«Buongiorno, George», lo salutò, «ha dormito bene?»

«Sì, la ringrazio.» Si guardò attorno. «Dove mi trovo?»

«Vogliamo fare due passi?», propose Sacks. «Fuori è una bella giornata, oggi, e mentre le spiego la situazione potrò mostrarle il nostro giardino.»

«Ma sì, diamine, usciamo.»

Fuori, la pioggia caduta il giorno prima sembrava un ricordo lontano nel passato. L’erba emanava bagliori quando la luce del sole ne sfiorava la superficie umida. Mentre camminavano lungo i viali del giardino, nessuno li disturbò, anche se incontrarono infermieri e altri pazienti.

«Lei sa perché è qui, George?», chiese Sacks. «E, soprattutto, sa chi sono io?»

«No, a entrambe le domande.»

«Lo immaginavo. Vede, George, io sono il dottor Oliver Sacks, ci siamo conosciuti ieri sera quando lei è stato accompagnato qui dall’ospedale. Ha avuto un mancamento e è apparso subito molto confuso e disorientato. Ho letto la sua cartella clinica.»

«Il suo nome, dottore, mi è del tutto sconosciuto, gliel’assicuro. E non ricordo di esser stato ricoverato in ospedale. Io ieri sera stavo andando al cinema e… a proposito, sa che il Bellmore ha chiuso?»

«Il Bellmore?»

«Sì, il cinema sulla terza Avenue, angolo sedicesima.»

«Non ricordo un cinema con quel nome, qui in città.»

«Io proprio qualche settimana fa ci ho visto The Story of G.I. Joe

«Quello con Robert Mitchum?»

«Sì, proprio quello.»

«Ma è un film del ’45.»

«Beh, certo», rispose George, guardando l’altro come se vaneggiasse.

«Il medico che l’ha visitata», disse Sacks, «ha cercato di spiegarglielo o, meglio, le ha semplicemente servito la verità senza mezzi termini. Ma non è un neurologo come me. Io nel frattempo, in base alla sua cartella clinica e a una telefonata che ho fatto ieri sera, ho un’idea di cosa le sia accaduto e non è certo facile spiegarlo a un paziente.»

«Ci provi, dottore.»

Sacks sorrise. «Lei dove abita, George?»

«Sulla settima Avenue.»

«E vive da solo?»

«Sì, da solo.»

«Non è sposato?»

«No, dottore, sono tornato dalla guerra da pochi mesi e non ho ancora avuto l’occasione, diciamo.»

«In che anno siamo, George?»

«In che anno? Ma nel ’45, è appena uscito Fallen Angel con Dana Andrews e Linda Darnell. L’ha già visto?»

Il dottore ebbe la tentazione di dire che sì, l’aveva visto in videocassetta almeno un paio di volte, ma si trattenne per tempo. Guardò George con un’espressione seria ma sempre gioviale.

«Vogliamo rientrare? Ci sono alcune cose di cui vorrei parlarle nel mio studio.»

Quando furono dentro, il dottore fece accomodare George. Poi aprì le tende della finestra e la luce del mattino entrò a inondare la stanza. Sacks sedette, si rilassò e guardò l’uomo.

«Come si sente, ora?»

«Come mi sento? Mah, come al solito. Diciamo né bene né male.»

«Sa perché si trova qui, George?»

«No, sinceramente», rispose l’uomo. «Anzi, volevo chiederglielo.»

«E immagino non si ricordi di me.»

«Mmh, no. Dovrei?»

«George, lei è qui perché soffre di vuoti di memoria. Ha avuto sintomi di questo genere in passato?»

«Ecco, lo immaginavo, sa? Sì, li ho avuti e in realtà non solo quelli. Da quando sono tornato dal fronte mi sento fuori posto, ma credo sia normale, non crede? Lei dove ha combattuto?»

«Da nessuna parte, a dire il vero. Ero troppo piccolo quando è scoppiata la guerra per parteciparvi.»

«Troppo piccolo?» George rise di gusto. «Vuole scherzare?»

«No, George», rispose Sacks. «Come le dicevo, lei soffre di amnesie. Siamo nel 1978, ora, la guerra è finita da parecchio e lei ha cinquantotto anni.»

L’uomo lo guardò, accigliandosi. Si tenne alla sedia e la fronte si inumidì di sudore. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo. Intorno a lui la stanza iniziò a ruotare in un vortice di nebbia, a poco a poco le immagini si sfocarono e il volto dell’uomo che aveva davanti si distorse. Sentì che il suo corpo cominciava a tremare in una sequenza di convulsioni fuori controllo.

Poi urlò e precipitò nel nulla.

Riemerse dal limbo senza nome e sentì una voce parlargli all’orecchio, ma non ne capì le parole. Poi pian piano tutto tornò a fuoco e i suoni si fecero nitidi.

«Che è successo?», disse.

«Non è nulla, George, si calmi. Ha avuto un mancamento, ma ora si è ripreso.»

«Chi è lei?», chiese George. «Sembra un medico. È un dottore, vero?»

 

I due uomini sedevano in silenzio da alcuni minuti. George, lo sguardo a terra, gli occhi accigliati, era caduto in una profonda costernazione. Le rivelazioni del dottor Sacks – il medico aveva dovuto spiegare tutto dall’inizio, questa volta con più particolari – lo avevano scosso. Da parte sua, Sacks osservava l’uomo con empatica partecipazione. Capiva cosa stava provando e voleva farsi carico di quella sofferenza interiore che stava sicuramente dilaniando la mente dell’uomo che aveva di fronte.

«Mi ero accorto che qualcosa non andava», disse finalmente George, interrompendo il silenzio. «Ma non pensavo fossi così grave.» Sorrise, scuotendo la testa. «Una moglie», aggiunse, «ho una moglie e me ne sono dimenticato.»

«Vede, George», disse Sacks, «è come se lei fosse rimasto al 1945. Probabilmente in quel periodo – e non stento certo a crederlo – è accaduto qualcosa che le ha lasciato il segno. Qualcosa che l’ha congelata in quell’epoca. Lei ha continuato a vivere, spostandosi nello spazio, ma non attraverso la linea del tempo. Quella è ferma. Il suo disturbo è quasi sicuramente legato ai suoi problemi di alcolismo, ne ho letto nella sua cartella.»

«E suppongo non possa guarire da questo disturbo, anche se con l’alcol ho chiuso.»

Sacks alzò le spalle. «Continuerò a visitarla, George. Le farò fare dei test di intelligenza, che sono convinto supererà, ma mi servono per convalidare la mia teoria. Lei ha una perdita della memoria recente, capisce? Ogni evento, ogni accadimento viene registrato per poi sparire nel giro di pochi secondi. Questa nostra conversazione per lei non è mai avvenuta, purtroppo.»

La scatola del tempo

La donna che entrò nella clinica neurologica, due giorni dopo, aveva un velo di malinconia che le oscurava il viso. Sacks la fece accomodare nel suo studio e la donna sedette tenendosi quasi sul bordo della sedia, come se si sentisse fuori posto, se stesse vivendo una realtà che non le apparteneva.

«La ringrazio per essere venuta, signora Horwitz», disse Sacks.

«Come sta mio marito?»

«È difficile dirlo, davvero», rispose il dottore. «Suo marito soffre di un disturbo che gli provoca continue perdite di memoria, dimentica cioè qualunque cosa gli accada intorno e vive ogni giorno della sua vita come se fosse il 1945. È chiamato sindrome di Korsakov. George ha ovviamente ricordi frammentari degli eventi successivi – prima l’aveva sempre riconosciuta, per esempio – ma il problema si è intensificato.»

«Oh, mio Dio», disse la donna, portandosi una mano al volto. «Che cosa potrà fare per lui, dottore? Potrà guarire?»

«Quando avrà le sue crisi, lo faremo ricoverare qui. Ma c’è una cosa che può fare lei e che allevierà i tormenti di George.»

«Mi dica, dottore, qualsiasi cosa.»

«Ecco», disse Sacks, «io stavo pensando di creare una scatola del tempo

«Una scatola del tempo?»

«Sì», rispose il medico. «Vede, suo marito, quando è a casa, è nel suo ambiente, lo riconosce, poiché è antecedente la sua amnesia. Ha sempre abitato lì, come mi ha detto lei al telefono l’altro giorno, mentre lei, signora, è arrivata solo in seguito in quella casa.»

«Sì, ci siamo conosciuti qualche anno dopo la fine della guerra e siamo andati ad abitare lì dopo il matrimonio.»

Sacks annuì, poi si abbandonò sulla sedia e se ne rimase zitto a riflettere. La donna lo osservò senza fiatare, quasi avesse timore di rompere l’incanto che sembrava aleggiare in quel posto così insolito, popolato da gente strana, sì, strana proprio come lo era diventato adesso suo marito.

Poi Sacks si destò e poggiò le braccia sulla scrivania. «Mi rendo conto di ciò che sto per chiederle, signora», disse, «e so che non è un rimedio contro il disturbo di cui soffre George, ma quanto meno suo marito potrà vivere alcuni momenti in tranquillità.» Sacks prese un profondo respiro e guardò la donna dritto negli occhi. «Non cambi nulla in casa vostra», disse infine. «Arredamento, tende, tappeti, quadri, non compri né sposti nulla se non è George a farlo. Congeli casa sua, signora. Costruisca per suo marito una scatola del tempo.»

Quando la donna uscì, le immagini attorno le parvero stranamente insolite. Camminava lungo le strade della New York del 1978, sapendo che la prossima volta che fosse uscita con suo marito, per quelle stesse strade, sarebbero stati in realtà una coppia divisa dalla barriera del tempo. Lei, una donna del presente, e al suo fianco un uomo che veniva dal passato.

Un passato ibernato per sempre e senza possibilità di trasformarsi in futuro.

Nota

Questo è un racconto di fantasia, ma è stato ispirato da uno dei casi illustrati nello splendido libro di Oliver Sacks L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Si tratta di storie cliniche prese dalla sua attività di neurologo: mondi che mai avremmo potuto immaginare, ma che esistono, con tutta la follia che si portano dietro e la sofferenza continua e senza scampo di chi li vive.

Il protagonista della mia storia è un personaggio inventato, anche se al medico che lo aveva in cura ho dato lo stesso nome del dottor Sacks. La sindrome di Korsakov fossilizza queste persone nel passato, congelando loro il tempo e rendendo le scene attuali insostenibili, un incubo da vivere.

Se abbiamo un male incurabile, anche se non mortale, possiamo trovare la forza di volontà per conviverci. Ma come si può convivere con qualcosa che apprendiamo ora e fra cinque minuti abbiamo già dimenticato?

Per George, usando le stesse parole di Sacks, la ferita del tempo è sempre aperta, e il suo tormento non cesserà mai.

30 Commenti

  1. franco battaglia
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 9:16 Rispondi

    Una domanda: come sapeva George di aver chiuso con l’alcool, se era rimasto “congelato” al ’45?

    • Daniele Imperi
      giovedì, 27 Marzo 2014 alle 9:27 Rispondi

      Bella domanda. Alcune cose vengono ricordate e di sicuro uno sa che non si ubriaca più.

  2. Fabrizio Urdis
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 10:10 Rispondi

    Ciao Daniele,

    Bel racconto, molto interessante e… Sorprendente.
    Mi hai spiazzato perché mi aspettavo che finisse in tutt’altra maniera ( grosso modo che il protagonista venisse davvero dal passato)
    Mi hanno parlato in molti del libro del dott. Sacks e mi sa che è arrivato il momento di inserirlo nella lista dei libri da leggere :-)

    • Daniele Imperi
      giovedì, 27 Marzo 2014 alle 12:07 Rispondi

      Grazie, Fabrizio, in realtà speravo si capisse proprio quello, proprio per avere la sorpresa finale :D

      Leggilo senz’altro, che merita e si legge poi velocemente.

  3. Diego Ricci
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 10:20 Rispondi

    Ciao Daniele.
    Durante la lettura del tuo racconto, mi sono voltato spesso verso quella donna che vive ammutolita ed in silenzio il dramma di quell’uomo che ama e da cui vorrebbe sentirsi amata ancora. Mi hai fatto sentire il suo dramma proprio perchè l’hai tratteggiata, non gli hai dato spazio. Presenza discreta che però non molla. E’ li, accanto al suo uomo e lo aiuterà, nonostante tutto.O almeno a me piace pensarla così.

    Voglio condividere con te una mia esperienza. Andavo a trovare una mia parente affetta da Alzheimer. Nel centro che la ospitava c’era un uomo che accudiva sua moglie da 20 anni. La donna era affetta da una malattia che la rendeva violenta, imprecava sempre e lo picchiava.

    Lui, amorevolmente, la accudiva nonostante tutto.

    Una volta gli chiesi: “Ma come fa a sopportare tutto questo?” e lui mi rispose con un sorriso: “Mia moglie non mi riconosce più ormai ma io so perfettamente chi è lei”.

    • Daniele Imperi
      giovedì, 27 Marzo 2014 alle 12:09 Rispondi

      Ciao Diego, mi fa piacere che ti abbia colpito. E la storia che hai condiviso calza proprio a pennello con il racconto. Ci vogliono tanto coraggio e anche attaccamento alla persona per far quello che ha fatto quell’uomo.

  4. Attilio Nania
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 12:04 Rispondi

    Questo racconto mi ricorda un po’ “50 volte il primo bacio”, con la differenza che si vede che tu hai studiato un po’ l’argomento prima di scriverne.

    • Daniele Imperi
      giovedì, 27 Marzo 2014 alle 12:09 Rispondi

      Oddio, che razza di storia è quella? :D

      • Attilio Nania
        giovedì, 27 Marzo 2014 alle 14:03 Rispondi

        Se non sbaglio e’ un film di Ben Stiller… che pero’ trasmette molto meno di questo racconto.
        Devo dire che hai scritto in maniera molto emotiva, caro Daniele, senza accorgertene ti sei un po’allontanato dai tuoi soliti tono distaccati. Forse questo argomento ti ha preso particolarmente?

        • Daniele Imperi
          giovedì, 27 Marzo 2014 alle 14:13 Rispondi

          Grazie :)

          Sì, la storia mi aveva preso perché mi aveva colpito quella reale da cui è ispirata, ma non mi sono accorto di essermi allontanato dai soliti toni…

  5. Monia Papa
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 12:37 Rispondi

    “È un uomo senza passato (e senza futuro), bloccato in un attimo sempre diverso e privo di senso”

    Ho queste parole, prese proprio da quel bel libro che ti ha ispirato questo bel racconto, scritte su un documento nel pc e anche (anzi, soprattutto) scritte nella memoria.

    Ecco, la memoria.

    Questo tuo scritto fa riflettere proprio sul senso più profondo della memoria.

    Se la vita di ognuno di noi è un po’ come un libro malattie così strappano pagine intere. Ci si ritrova a perdere interi capitoli e, per quanto ci si sforzi di acciuffare almeno qualche carattere del racconto della propria storia, non ci si riesce.

    E allora quando ci si accorge che il treno della memoria ha ormai deragliato di fronte all’impossibilità di salvare i ricordi e salvarsi ci si trova costretti a capitolare.

    • Daniele Imperi
      giovedì, 27 Marzo 2014 alle 12:41 Rispondi

      Grazie Monia :)
      Mi ricordo anch’io di quelle parole, quella storia è fra le più belle.

      E la metafora delle pagine strappate dà proprio significato a chi vive quella malattia.

  6. helenia
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 15:31 Rispondi

    Veramente molto bello complimenti Daniele! :)

  7. Laura Tentolini
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 20:12 Rispondi

    Bel racconto Daniele, umano e profondo.
    Forse ciascuno di noi ha un passato che vorrebbe rivivere per sempre.

    • Daniele Imperi
      giovedì, 27 Marzo 2014 alle 20:21 Rispondi

      Grazie, Laura.
      Io vorrei rivivere forse la mia infanzia :)

  8. Laura Tentolini
    giovedì, 27 Marzo 2014 alle 20:46 Rispondi

    Un uomo con un’infanzia felice è come un albero con buone radici.

  9. Emma
    venerdì, 28 Marzo 2014 alle 14:48 Rispondi

    Ciao Daniele!
    Questa storia mi ha terrorizzata e mi ha fatto ripercorrere tanti momenti della mia vita. Del cambiamento che ho dovuto intraprendere per arrivare a te, a Monia, a Andrea e a tutte le persone che sto incontrando, come ho già scritto anche a Monia. Non sono stata in una clinica neurologica, ma ho avuto un incidente che mi ha costretta in ospedale con un grave ematoma al cervello (dicono senza conseguenze) e tante ossa rotte. Come mi sentivo io già da prima di averlo. Questo racconto è splendido, di uno splendore rosso cupo. Come un drappeggio pesante che copre la luce senza tuttavia nasconderla a chi desidera davvero vederla.

    Un piccolo refuso: Quando la donna uscì, le immagini attorno a lei gli parvero stranamente insolite.
    È donna il soggetto quindi “le parvero”.

    Grazie Daniele!

    P.S. Ho appena aperto un blog, se ti va passa: http://emmafrignani.wordpress.com/

    • Daniele Imperi
      venerdì, 28 Marzo 2014 alle 15:12 Rispondi

      Ciao Emma, grazie mille per i complimenti :)
      Mi dispiace per l’incidente, ma l’importante è che sia passato.

      Refuso corretto… grazie ;)
      Ora passo dal tuo blog.

  10. Come scegliete un libro da leggere?
    sabato, 29 Marzo 2014 alle 5:01 Rispondi

    […] In realtà non è vero quello che ho scritto, perché poi ne ho lasciato un terzo. Ho finito di leggere lo splendido libro di Oliver Sacks L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello che mi ha ispirato un articolo sullo storytelling e il racconto pubblicato giovedì. […]

  11. Comprimari e comparse nel Fantastico
    domenica, 30 Marzo 2014 alle 10:23 Rispondi

    […] me è sempre piaciuto dare spessore ai comprimari, se poi ci riesco è un altro paio di maniche. In L’uomo che venne dal passato ho inserito alcune comparse, un poliziotto e due infermiere, gente di passaggio, e alcuni […]

  12. Giorgia
    mercoledì, 2 Aprile 2014 alle 16:22 Rispondi

    Complimenti bella storia. A me ricorda il libro Non ti addormentare, la protagonista non ha questa malattia, le è successo altro ma per buona parte del libro anche lei si scorda del marito e di cosa ha fatto il giorno prima. E infatti anche quel libro mi è piaciuto.

    • Daniele Imperi
      mercoledì, 2 Aprile 2014 alle 16:53 Rispondi

      Grazie, Giorgia :)

      Non conosco quel libro, ma le perdite di memoria sono dovute a varie cause.

  13. Il riposo dopo la fine della storia
    domenica, 8 Giugno 2014 alle 18:59 Rispondi

    […] la risposta: se per qualche giorno mi sono dedicato a un tizio con problemi neurologici che vive a New York, poi cambio ambiente e scrivo di un bambino italiano che si trasforma in […]

  14. uduvicio
    venerdì, 24 Aprile 2015 alle 19:40 Rispondi

    un po’ di sollievo, non trovo più blog di racconti, solo gente che parla di sè… belli complimenti

    • Daniele Imperi
      lunedì, 27 Aprile 2015 alle 7:27 Rispondi

      Ciao Filippo, grazie e benvenuto nel blog. :)

  15. Pietro 57
    sabato, 5 Novembre 2016 alle 9:11 Rispondi

    Un po’ con ritardo commento il tuo racconto, lo trovo molto interessante, riferendomi alla parte che riguarda “l’inventiva” della storia. Il resto non lo commento. Comunque complimenti. A risentirci.

    • Daniele Imperi
      sabato, 5 Novembre 2016 alle 9:36 Rispondi

      Grazie. Intendi la nota finale?

  16. Ilario
    martedì, 13 Giugno 2017 alle 11:35 Rispondi

    Mi è piaciuto molto. Fila via che è un amore e tiene in botta fino alla fine. Complimenti:)

    • Daniele Imperi
      martedì, 13 Giugno 2017 alle 12:05 Rispondi

      Grazie mille :)

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