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Nel mio articolo su cosa pubblicare e cosa no è intervenuta nei commenti una piccola casa editrice, che ha lamentato lo scarso livello di molti manoscritti che riceve. In generale chiedeva un maggior impegno da parte degli autori, che aumenterebbe le possibilità di “imbattersi in un buon libro”.
È stata proprio quella definizione, “buon libro”, che mi ha spinto a chiedermi cosa sia davvero un buon libro, un concetto che rischia di essere non solo generico, ma soprattutto soggettivo.
Ma è davvero così?
Nel commento di risposta ho dato ragione a quella casa editrice, perché spesso mi sono imbattuto nei manoscrittari, a cui ho dedicato un articolo lo scorso marzo.
- Se un autore non capisce a una prima occhiata che il mio sito non è quello di un editore, mi domando che razza di libri possa scrivere.
- Se ricevo email da sedicenti scrittori pieni di roba come “pò” o peggio, non voglio poi sentir parlare che gli editori non rispondono, perché io al loro posto non risponderei.
Come scrivere un buon libro?
Ma arriviamo al dunque. Dobbiamo capire come scrivere un buon libro, come scrivere un testo che non venga cestinato dopo poche pagine, che non ci mandi in prigione senza passare dal “Via”.
Dobbiamo capirlo in modo oggettivo, soprattutto. Il commento della casa editrice ci dà qualche aiuto.
Partire da un buon livello di scrittura
Per scrivere un buon libro bisogna avere una buona scrittura. Ma come si raggiunge un buon livello di scrittura?
La mia sensazione è che la maggior parte degli scrittori che invia manoscritti alle case editrici non abbia mai avuto un minimo riscontro sui propri testi. Di questo, anzi, sono convinto al 100% (cfr. l’articolo sul popolo dei manoscrittari).
Fino a parecchi anni fa, ora neanche ricordo più quanti, se avessi spedito qualche racconto a un editore, sarebbe stato cestinato all’istante. Ho riletto quei racconti: sono pessimi, a livello di storia e a livello di scrittura.
A me servivano riscontri e infatti ho pubblicato racconti su 2 forum letterari e poi anche qui nel blog. Ma è stato anche importante trovare dei lettori beta.
C’è un errore grossolano che commettono molti autori, oggi: pensano che l’editoria non sia cambiata da 2 secoli a questa parte. Adesso sono in moltissimi a scrivere e voler pubblicare, c’è tantissima concorrenza e di conseguenza c’è anche tantissima selezione.
Partire con un buon livello di scrittura ci permette di essere selezionati, anziché scartati.
Contenuti apprezzabili dai lettori
Possiamo conoscere i gusti dei nostri futuri lettori? No. Che cosa si intende con contenuti apprezzabili dai lettori?
contenuto che non sia solo la storia della famiglia dell’autore, ma che sia condivisibile dal popolo di lettori.
Mi sono ricordato di un libro che avrei voluto scrivere dopo essermi congedato dall’Esercito: Diario di guerra 1992-1994. Parlare, insomma, della mia breve esperienza militare. Per fortuna il progetto non è mai partito.
Avessi partecipato alla missione in Somalia, che c’era a quei tempi, sarebbe stato diverso. Avrebbe potuto trovare l’interesse di editori e lettori. Ma nel mio caso sarebbe stato, forse, interessante per la mia famiglia.
Ecco che cosa significa contenuti condivisibili dal popolo dei lettori: storie che riescano a emozionare, specialmente se autobiografiche, storie che incontrino l’interesse degli sconosciuti, non solo quello dei nostri familiari e amici.
La soluzione? Leggere decine di libri ogni anno.
Commerciabilità del libro
Questo concetto è il risultato della buona scrittura aggiunta ai contenuti apprezzabili dai lettori. Una semplice operazione aritmetica. Ma di certo non basta.
- La storia deve avere mercato: deve cioè potersi piazzare in una nicchia più ampia possibile di lettori.
- La storia non deve rientrare in un filone che non riscontra più interesse, perché ormai saturo.
Purtroppo non sono pochi gli autori che non considerano la commerciabilità del proprio libro. Ma una casa editrice vuole sapere quanti lettori potrebbero acquistare e leggere quel libro.
I libri si vendono, quindi devono essere commerciabili.
La commerciabilità del libro non toglie nulla al lato artistico del testo. Ma l’arte che non vende resta nella scatola dei sogni infranti dell’autore.
Avete mai scritto un buon libro?
Buon livello di scrittura, contenuti apprezzabili e commerciabilità: siete d’accordo che un manoscritto debba avere questi 3 requisiti per riuscire a essere pubblicato da una casa editrice (o anche in self-publishing)?
MikiMoz
Ovviamente d’accordissimo con te sui tre requisiti, mi pare il minimo.
Guarda, il tuo Diario di guerra poteva anche essere spendibile, eh.
Sostanzialmente potevi farlo passare come un racconto sulla naja, per dire… Insomma, aggiunto un quarto requisito: originalità/paraculaggine/vendersi bene
Moz-
Daniele Imperi
Di naja ho fatto 5 mesi, come allievo ufficiale, poi sono passato dall’altra parte, ma a parte lo stipendio non è cambiato molto. Forse è questo che mi aveva spinto a scrivere quel diario. Ma avrei dovuto fare nomi e cognomi e sai le denunce?
Vendersi bene è senz’altro un requisito, ma poi devi fare i conti con quello che pubblichi.
MikiMoz
Che ne so, potevi usare pseudonimi al posto di nomi reali… tranne il tuo!
Oppure da Daniele Imperi a Davide “Sandokan” Reami
Moz-
Daniele Imperi
In realtà avevo pensato di usare solo le iniziali. Per me invece niente pseudonimi
Orsa
Diario di guerra 1992-1994:
c’è qualche remota possibilità che un lettore di nicchia (amante di un buon livello di scrittura e di filoni non saturi), lo possa un giorno avere tra le zampe?
Una debole speranza, una Luce -quella dell’Istituto- a cui aggrapparsi?
Non per me, chiedo per un’amica eh! 😂
Daniele Imperi
La possibilità che io scriva quel diario è talmente remota che è trapassata. Una prece
Secondo me certi libri vanno scritti subito, freschi d’esperienza, altrimenti ti passa la voglia e anche i ricordi sfumano.
Orsa
🇮🇹 Bandiera a mezz’asta e minuto di silenzio per Diario di guerra 1992-1994
Grazia Gironella
Sono convinta di avere scritto dei buoni libri. Quanto buoni, non lo so e non sta a a me dirlo. Lo stesso non ho avuto buone esperienze con l’editoria, e ho scelto la pubblicazione indipendente. Questo per dire che sapere scrivere in italiano corretto una storia piacevole è soltanto un punto di partenza, che però non può mancare.
Daniele Imperi
Quanto buoni si vede dall’apprezzamento dei lettori (vendite e recensioni).
Da quei numeri puoi anche scoprire quale storia è stata più apprezzata.
Corrado S. Magro
Siete d’accordo che “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa (tanto per dirne uno) sia un buon anzi un ottimo libro?
Eppure gli editori lo cestinarono. L’autore “si vide” pubblicato solo post mortem.
Sono d’accordo che il libro debba essere scritto bene, privo di strafalcioni anche se vanno di moda e la storia deve prendere ma di là a incontrare un buon EDITORE interessato anche se piccolo, è giocare al lotto.
Daniele Imperi
A me “Il gattopardo” è piaciuto. Gli editori di un tempo hanno snobbato e cestinato molti autori oggi divenuti classici.
Il discorso su come arrivare a un buon editore è un altro e di sicuro più difficile che scrivere un buon libro.
blade
@Corrado, tocchi un nervo scoperto. Si parlava proprio di questo col gentile Daniele.
Giocare al lotto, ti assicuro, riserva migliori aspettative: pensa tu se avessi a disposizione la bellezza di quattromila probabilità peri centuplicare la posta in palio. Invece, se spedissi a un editore il tuo buon lavoro ultimato, leccato e infiocchettato come Dio comanda, avresti una probabilità di successo, compresa, secondo il vento che tira quell’anno, fra le 1/seicentomila e 1/ ottocentomila, che, diviso grossomodo per quelle dieci case editoriali che possono decidere sul territorio nazionale chi è scrittore e chi no, significa che fai prima a giocarti almeno una quaterna secca per tutta la vita e vantare migliori probabilità di successo.
A ruota fissa, mi raccomando
Daniele Imperi
Hai ragione, purtroppo. Mi preoccupa proprio questo: quanti manoscritti arrivano a un grande editore? Come scelgono quale leggere?
Corrado S. Magro
Considerazioni preziose, sebbene amare, Blade!
Però, se sei in qualche modo influencer (da influenza?🤪🤪🤪) la propagazione del virus gli editori la garantiscono. Non tutti naturalmente, evitiamo di generalizzare.
blade
@Daniele. presto detto qual è il loro criterio: nessuno che possa chiamarsi tale! Navigano a vista per quanto concerne un investimento a rischio e puntano tutto sull’investimento garantito (dalla tua occupazione, dalle tue relazioni e cosucce di questo tipo). In questo campo vale soprattutto il noto ‘paradosso del minatore’. Rispetto ai veri criteri selettivi bisognerebbe aprire un discorso impegnativo che loro non amano e per il quale, via mail , mi hai già fornito la tua risposta. Che poi è quella che più fa comodo al sistema. Il problema dei criteri, è roba per gente tosta, ci si inerpica per questioni scientifiche, biologia della percezione, educazione, comunicazione, e poi religione, costume e filosofia. O si hanno i ferri a posto o è meglio lasciar perdere.
@Corrado. Non generalizzerei proprio perché porto il peso di un’esperienza sul groppone, uno scambio piuttosto intenso con un grosso editore, del quale serbo insegnamenti importanti, roba che non passa pubblicamente e che ti apre gli occhi una volta per tutte. Come bagaglio da condividere con voi posso dire che i tre fattori elencati in questo post non sono sufficienti a garantirti una pubblicazione stretta stretta. Poi c’è il discorso di quanto l’editore voglia rischiare sul tuo impegno in termini di promozione, ma questa è un’altra e più avvincente storia. Non sono tempi buoni per il libero mercato.
Daniele Imperi
Infatti non ho detto che garantiscano la pubblicazione. Sono però una base. Nulla può garantirti la pubblicazione.
blade
Nulla può garantirla ai figli di nessuno. Se sei un dirigente Rai, un professore universitario (studenti al seguito),o sei un giornalista di ‘quelle’ testati lì, con piuma di struzzo e vaso da notte sulla testa, se hai buone relazioni, una tessera di partito e di loggia e magari un pretesto efficace per tenere qualcuno per le palle, qualche porta sicura ti si apre. anzi, ti si spalanca a risucchio. Son tuttavia d’accordo con te, in linea di massima, cioè in mancanza d’altro, da questi tre criteri così ben esposti, non si può prescindere
Daniele Imperi
Sì, ovvio. Se sei un personaggio famoso, ti pubblicano, perché sanno in partenza che quel libro venderà e tanto. È un investimento sicuro.
blade
No, no. Io intendevo proprio se sei un esordiente. Sto rispondendo alla tua giusta domanda iniziale:
‘quali sono i criteri delle case editrici’? Al primo approccio, si intende.
Risposta: se sei un dirigente rai, un editorialista di una restata di primo livello, se hai tessere di partito e ti sei sottoposto a rituali iniziatici, parti bene. Questi criteri contano più di altri. Poi c’è Woody Allen che, fra una risata e l’altra, racconta (e denuncia) grandi verità e logiche meschine del mondo editoriale. Nonostante ciò, ci sono ancora quelli del ‘se sei bravo prima o poi arrivi’. Insomma, l’idea di capire quali criteri adopera l’editoria, fuori dai nostri discorsi, l’ha ben sviluppata una decina d’anni fa – in un bel tomo di una ventina di pagine – un certo Luca Pareschi. Non so se si trova ancora qualcosa in rete. Un documento istruttivo, nella sua incantata visione del mondo letterario. Il Pareschi ha lavorato su interviste ai direttori delle maggiori case editrici italiane, forse può servire in questo dibattito, non so. provo a cercarlo.
Daniele Imperi
Non cambia il discorso: nei casi che citi assicuri alla casa editrice vendite. Sulla tessera del partito no, questa mi pare una sciocchezza. Se sei un politico, allora sei famoso. Ma essere iscritto a un partito non garantisce nulla alla casa editrice.
blade
E’ un modo di dire per intendere una maniera di tenersi vicini i politici locali, quelli che possono aprirti certe porte. Ad ogni buon conto spesso la tessera viene richiesta all’indomani di un interessamento. Sovente non c’è nemmeno bisogno di farsi suggerire questa pratica. Un po’ come la tessera di loggia, prima di intraprendere certe relazioni meglio presentarsi come confratello. Insomma, tutto funziona così nel nostro mondo.Poi ci sono quelli del ‘ se sei bravo prima o poi arrivi’, che lascerei a trastullarsi nel loro incanto . In quanto alla presunta ‘mia’ soluzione (da mail), evinco da come hai formulato la frase che forse non hai colto (o condiviso) il mio pdv: il discorso sulle avanguardie artistiche, sull’individualismo, sull’importanza di uno sforzo comune e via dicendo. Riassumo: se c’è una soluzione valida al problema , questa non può che venir posta da un collettivo, non da singoli.
Daniele Imperi
A te hanno richiesto la tessera di un partito per pubblicare? Non ho mai sentito una storia del genere.
Se ti iscrivi a un partito, non è detto che arrivi a conoscerne il segretario e quindi i parlamentari.
Sul collettivo continuo a non capire che intendi o, meglio, che potrebbe fare questo collettivo per risolvere una qualsiasi situazione.
Blade
sì, per arrivare a un grosso editore, ho cercato persone con tessere di partito e molto altro. A me non è stata richiesta, naturalmente. L’arrivare a un grosso editore non significa pubblicare per forza, eh. Come ho già detto io ne ho tratto indicazioni e suggerimenti estremamente preziosi, non l’ho persuaso ad avventurarsi in un’operazione a rischio.
Se sei vicino all’attività politica di certi personaggi, o lo è qualche tuo amico , puoi chiedere favori. C’è chi chiede un’occupazione, chi una licenza, chi chiede i contatti con un editore. Per coloro che cercano raccomandazioni () fra le altre cose, consiglierei di munirsi anche una tessera di partito o di loggia (lo ripeto). Sorprende che la trovi una cosa tanto strana.
Daniele Imperi
No, non intendo chiedere favori a nessuno, tanto meno a gente della politica, e non sono vicino ad attività politiche di alcun tipo.
Sì, continua a suonarmi molto strana questa storia della tessera del partito. Anche perché devi per forza trovare editori vicini alle idee del partito a cui ti sei iscritto.
Rebecca Eriksson
Se riuscissi a scrivere qualcosa di buono, rispettando i primi due punti, sicuramente il terzo mi penalizzerebbe. Non ingabbio la mia creatività solo per leggi di mercato, non trasformerei mai la mia storia di pirati in una storia di alieni solo perchè ora i lettori vogliono comprare alieni.
Daniele Imperi
Il terzo punto penalizza anche il romanzo che sto scrivendo
Sono pienamente d’accordo con te.
Blade
Anzitutto uno scrittore esordiente entro un collettivo di suoi pari, potrebbe cominciare a capire , senza quel calcio in c*** che lo proietti nelle grazie di un grosso editore, se vale qualcosa o se non vale niente, o magari se un domani potrà maturare capacità letterarie. In una squadra si cresce, a prescindere.
Ad esempio, ciò che più mi inorridisce nei blog degli scrittori sconosciuti e quel rimanere anni e anni ammanigliati a un piccolo gruppo di persone che sbattono le pinne come foche ad ogni tua parola, sperticandosi di lodi per il tuo talento incompreso ma che non avanzano una vera critica costruttiva verso il tuo lavoro. In questi ambienti non sembra esserci un effettivo clima di confronto. Eppure, tra questi, vi sono scrittori perfino bravi (a mi modesto giudizio). Ognuno ha forse letto (ma non è detto) i libri degli altri ma non trapela mai una critica. Questo lo trovo effettivamente un atteggiamento poco costruttivo. Occorrerebbe che invece,attraverso un vero confronto, si scandiscano bene i valori all’interno di queste micro comunità. Osservo che nessuno si è mai avventurato in un impegno collettivo. Non voglio dire scrivere un testo a quattro, sei o otto mani, questo forse no, ma intendo dire che, forse, unendo le rispettive energie per spingere, ognuno coi mezzi che ha, il lavoro più meritevole (giudizio che dev’essere condiviso), forse si ottengono risultati migliori che spingendo ciascuno il proprio carretto. Attenzione però, quando si parla di’ giudizio condiviso’ , si presume un lavoro di collaborazione e scambio preliminare, piuttosto intenso.
Mettiamo che al principio si condividano gli stessi parametri qualitativi e che in base a questi esista un lavoro ‘migliore’ fra i vari che si confrontano all’interno del gruppo. Mettiamo che in uno specifico collettivo ce sia uno scrittore che ha la possibilità di agganciare un editore; un altro ha la possibilità di garantire una buona promozione su base social (o magari perché frequenta ambienti associativi zeppi di iscritti su tutto il territorio nazionale); un altro ancora ha buone disponibilità economiche. Non è detto che tutte queste prerogative appartengano a quello che ha fra le mani il lavoro ‘migliore’ . Può capitare che un giovane talentuoso sia un solitario, non abbia possibilità alcuna di avvicinare un editore e che non disponga di quattrini. Insomma, se questi viene appoggiato da persone umili che capiscono il suo talento e gli danno una mano (che poi, nel lungo periodo, significa darla anche a se stessi), questi potrebbe arrivare presumibilmente a piazzare un certo numero di copie. Con credenziali del genere, un editore, magari non di primissimo livello, potrebbe a questo punto decidersi a dargli fiducia.E da lì si comincerebbe a ballare davvero. Io penso che del suo successo possano beneficiare, evntualmente, altri, all’interno del suo collettivo. Non subito, è ovvio, ma col tempo io credo che il lavoro di squadra possa rivelarsi particolarmente efficace, che possa contribuire a formare un luogo di crescita.
Così agivano i collettivi che si formavano nelle avanguardie artistiche a cavallo fra L’Ottocento e il Novecento. Penso agli irascibili,nel dopoguerra, e prima ancora, agli scapigliati, ai dadaisti per non parlare di grossi movimenti che poi hanno lasciato il segno. Degas, ad esempio, facoltoso pittore impressionista, metteva il suo successo e i suoi soldi a disposizione dei meno abbienti. Noialtri abbiamo purtroppo grosse difficoltà di aggregazione e condivisione, vige oggigiorno la logica della superbia individualista (la filosofia del ‘se sei bravo prima o poi arrivi’. Da solo.) e questi sono i (miseri) risultati.
Daniele Imperi
Stai parlando dei lettori beta, in pratica. Lettori beta che siano anche scrittori. Su questo siamo d’accordo, sia sull’utilità del confronto sia sull’onestà delle critiche.
Sulla seconda parte, invece (quattrini per la promozione, possibilità di avvicinare un editore, ecc.) no. Non mi sembra fattibile.
von Moltke
Io sono d’accordo che le case editrici debbano considerare queste tre qualità per dare il “visto-si stampi”, ma proprio non riesco a sottomettermi al terzo punto. Gli argomenti, i personaggi, le atmosfere storiche che mi scaldano il cuore e, di conseguenza, la mano, per spingermi a scrivere, non sono quasi mai (secondo me) commerciabili. E di scrivere storie che vadano incontro alle mode non mi passa neanche per la testa: non riuscirei a scrivere un “buon” libro.
Daniele Imperi
Non parlavo di mode né di tendenze. Ma di storie che abbiano un pubblico di lettori.
Barbara
C’è chi scrive “un pò” e chi “Ma arriviamo la dunque.”
(Scherzo, succede anche a me. Anzi, sul portatile nuovo con tastiera ristretta invece della “a” casco sempre sul blocco maiuscole!)
Sono d’accordo con i 3 punti. Le case editrici non sono istituti di beneficenza, sono aziende fatte e finite, con un bilancio e dei dipendenti da retribuire, quindi ricercano il guadagno (anche chi gli manda un manoscritto, alla fine). Però temo che la commerciabilità sia anche rispetto al periodo, alla “stagionalità” delle letture, se non vere e proprie “mode”. Per cui un manoscritto potrebbe non risultare più commerciabile per un filone tematico in via di esaurimento o dover attendere qualche anno per essere maggiormente apprezzato dal pubblico. Soprattutto se la casa editrice non è così forte da poter lanciare essa stessa un nuovo filone.
Daniele Imperi
Ma guarda che cavolo m’era sfuggito! Corretto ora
Però è più grave “pò” e sapessi quante volte lo trovo nelle email che mi arrivano.
Sul filone tematico siamo d’accordo. Se proponi una storia di vampiri alla “Twilight” o di maghetti, è facile che la rifiutino. Ma non credo che non pubblichino esordienti perché propongono sempre filoni abusati.
Francesca Romana
La prima cosa che mi aspetto da chi scrive un libro è un buon livello di scrittura, anche per imparare dalla lettura, visto gli orrori che si leggono su fb
Daniele Imperi
È anche la prima cosa che si nota leggendo.
Elena
Avrei una domanda. Ho scritto un racconto breve, circa 13000 battute, lo ritengo molto buono ma può darsi che sia una pia illusione e che magari farei meglio ad andare a zappare… come devo muovermi per sapere se è veramente valido e vendibile? Si tratta di un horror ancorato al reale ambientato in un luogo che conosco bene, in cui la protagonista muore più volte o forse una sola.
Daniele Imperi
Ciao Elena, benvenuta nel blog. Ho scritto un articolo proprio per il tuo caso: https://pennablu.it/come-farsi-valutare-un-racconto/