Racconto d’inverno

“La montagna non perdona”. Detto montano
Racconto d'inverno

Si fermò. Attorno a lui il vento soffiava gelido fischiando contro le sue orecchie tutta la rabbia dell’inverno. Sulla cima il ghiaccio formava sottili lastre di vetro che coprivano la neve sottostante. Ne aveva trovate qualche metro prima, appena raggiunta la vetta, sparse fra rocce e macchie di muschio rinsecchito.

Adesso il ghiaccio era ovunque.

Sedette sulla neve, aprì lo zaino, tolse i ramponi e se l’infilò. Poi cominciò a scendere.

Il vento lo investiva da destra, facendogli percorrere una linea obliqua. Di fronte a lui la sella era una distesa infinita di bianco. Oltre, la cima del secondo monte da raggiungere.

Non aveva incontrato nessuno quel giorno, com’era normale. Di solito escursionisti e scialpinisti non andavano nei giorni infrasettimanali. Ricordò le parole della sua ragazza, mentre procedeva a fatica lungo il pendio ghiacciato, facendo scricchiolare il terreno sotto i suoi piedi.

 

«Non andare solo.»

«Non viene nessuno con me, lo sai.»

«Allora vai domenica.»

«Non posso, e poi domani ho una giornata libera.»

«E allora fa’ qualcos’altro. In montagna, da solo, con tutto quel freddo.»

«Non mette tempo cattivo.»

«Sì, ma c’è neve.»

«Vado apposta per quella.»

Silenzio.

«Dai, ti chiamo appena raggiungo la macchina.»

«Chiamami.»

«Sì, prima di ripartire ti chiamo.»

 

Sorrise. Lei era sempre in ansia quando andava in montagna, anche se con lui c’erano i suoi amici più esperti. Non aveva mai voluto seguirlo, per il freddo e la fatica nel camminare con lo zaino in spalla sulla neve, però aveva sempre tentato di distoglierlo da quell’attività che non concepiva.

Accantonò quei pensieri e si concentrò sulla discesa. Man mano che la quota diminuiva anche il vento si faceva meno forte, ma l’uomo sapeva che quando avrebbe iniziato a salire di nuovo, verso la vetta successiva, il vento avrebbe ripreso con la forza di prima.

«Non andare solo.»

Le parole della ragazza gli tornavano in mente. Si accorse di non sentire la sua mancanza, in quel momento di estrema solitudine. Lassù poteva assaporare il vero gusto della libertà. Era ciò che lui definiva paradiso. Era il senso della sua vita. A lei non l’aveva detto, ma la decisione di andare quel giorno dipendeva proprio da questo: lui amava stare solo in montagna, essere circondato soltanto da neve, alberi e rocce. Volgere lo sguardo intorno e vedere solo la natura, senza l’ombra di esseri umani. Aveva scelto il percorso che gli nascondeva la vista dei paesini montani. In quella parte dell’Appennino era frequente arrivare a duemila metri di quota e vedere in lontananza case e strade. Non era un panorama che amava, che gli dava la sensazione di essere lontano dalla civiltà.

«In montagna, da solo, con tutto quel freddo.»

Da solo. In quella zona poteva dirlo con sicurezza. Non c’era nessuno in giro, né centri abitati a vista. Era solo. E c’era la neve.

E il vento.

Soffiava senza tregua, lo sentiva anche se stava per raggiungere il fondo della sella e procedere era più facile. Il ghiaccio sul terreno era diminuito, timide chiazze qui e là, ma l’uomo preferì non togliere i ramponi. Più avanti gli sarebbero serviti ancora.

Fece una pausa. Si accovacciò e prese la borraccia dallo zaino. Bevve qualche sorso. L’acqua era diventata gelida. Mangiò un po’ di mandorle e un paio di biscotti, poi richiuse lo zaino e se lo ributtò sulle spalle. Proseguì.

Il terreno iniziò a salire.

E il vento a soffiare più forte.

 

Era in vicinanza della cima quando si fermò di nuovo. L’aria che gli arrivava addosso era assordante. Come aveva previsto, il vento aveva ricominciato a spirare con violenza. La salita era più ripida e il ghiaccio aumentato. Si inginocchiò, accorciò i bastoni da montagna e li fissò allo zaino, poi sfilò la piccozza. Valutò se prendere o meno la sciarpa e decise per il sì. La tirò fuori, cercò di avvolgerla attorno al collo, ma il vento la faceva ondeggiare come una bandiera impazzita e gli impediva i movimenti. Infine gliela strappò letteralmente di mano. L’uomo la vide volare via, una striscia scura che rimpiccioliva fino a scomparire.

Imprecò. Tempo prima, in vetta, a causa del vento aveva perso il cappello di lana e un’altra volta il telo antipioggia dello zaino.

Ripartì.

 

Quando giunse a metà percorso, l’avanzata rallentò. Il vento infuriava con più forza, non dandogli tregua. Durante l’ascesa era già caduto due volte e aveva faticato a rialzarsi. Gli pareva che l’aria volesse spazzarlo via dalla montagna, che volesse lasciare intatto quel paesaggio. L’uomo si voltò: le sue tracce erano sparite. Camminava su terreno immacolato e nulla della sua presenza restava impresso nella storia di quel giorno.

Si strinse di più il colbacco sulla testa. Il viso gli bruciava, la barba gli offriva scarsa protezione contro quell’aria fredda. Perché dimenticava sempre di comprare un passamontagna e un paio di occhiali da neve?

Guardò verso la cima. Era sempre lì, alla stessa distanza di ore prima. Aveva l’impressione di non essersi mosso e forse era proprio così, pensò in un attimo di disperazione. Il cielo era grigio e non riuscì a capire dove fosse il sole. Tirò fuori dalla tasca il cellulare e guardò l’ora: le 16 e 30 erano passate. Presto il tramonto sarebbe sceso sui monti e la luce scemata verso il buio.

Riprese a salire con più vigore.

 

Stremato, si riparò dietro una roccia che affiorava dal terreno. Le dita, coi guanti troppo leggeri per proteggerle dalla furia di quel vento, avevano iniziato a fargli male. Prese quelli da neve dallo zaino e più veloce che poté li indossò. Strofinò le mani una con l’altra per riattivare la circolazione. Fitte acute gli mordevano i polpastrelli e la testa aveva preso a bruciargli. Afferrò la piccozza e continuò a salire.

Dopo qualche metro cadde. Il vento gli fu addosso mentre tentava di tirarsi su. Avanzò quasi strisciando sulla neve ghiacciata prima di riuscire a rimettersi in piedi. Lottò per mantenersi in equilibrio sul pendio, l’aria gelida che provava a ributtarlo giù.

 

L’ora del tramonto arrivò senza che se ne rendesse conto. Davanti a lui la vetta sembrava ancora lontana, fissa in un punto senza tempo. Si voltò e vide la roccia che l’aveva riparato minuti prima. Era vicina. Possibile che avesse percorso così poca strada?, si chiese.

Il dolore alle mani non era passato e il vento continuava a sparargli addosso raffiche gelide e pungenti. Tentò di fare un passo, ma non si mosse, come se l’aria volesse tenerlo inchiodato su quella neve ghiacciata. Tornò a guardarsi alle spalle, alla roccia che sembrava attenderlo. Aveva bisogno di un attimo di pace, prima di proseguire. Di prendere la lampada frontale, mangiare un po’ del cioccolato fondente che portava sempre con sé. Solo un minuto di tregua, poi avrebbe affrontato ancora quel vento indemoniato, raggiunto la vetta per ridiscendere dal versante opposto, verso valle e la sua auto, e avrebbe chiamato la ragazza.

«Sto tornando, ci sentiamo più tardi.»

Solo un minuto.

 

Masticò la cioccolata lentamente, ma non sentì le forze ritornargli. Avrebbe gradito un sorso di grappa, un palliativo che comunque gli avrebbe infuso calore nel corpo e dato lo slancio per ripartire. Addossato contro il masso, sentiva il vento urlare tutta la sua ira, un suono bestiale mai udito prima. Attraverso il fascio di luce della lampada vedeva microscopici cristalli di ghiaccio vorticare nell’aria. Si impose di rialzarsi e rimettersi in marcia, prima di essere sorpreso dal buio. Poi sarebbe stato un problema avanzare in quelle condizioni.

Si staccò dalla roccia, lo zaino in spalla, puntellandosi sulla neve indurita. Si allontanò dal riparo e il vento lo accolse sbattendolo quasi a terra per la violenza con cui infuriava. Fece un passo, due, poi cadde, rotolando per qualche metro prima di riuscire a bloccarsi con la piccozza. Restò così, sdraiato sul ghiaccio, il vento che lo investiva, il cielo sopra di lui che diventava sempre più scuro.

«Sto tornando, ci sentiamo più tardi.»

Il pensiero andò alla sua ragazza. Adesso avrebbe voluto essere con lei, seduto sul divano, al caldo, a bere una birra.

Avrebbe voluto ascoltarla.

«Non andare solo.»

Era andato solo, quel giorno, e neanche aveva detto a nessuno dove, ricordò ora. La ragazza sapeva che andava in montagna, sulla neve, non aveva mai dimostrato interesse per le sue destinazioni montane e lui non aveva mai avuto motivo per fargliele conoscere.

«In montagna, da solo, con tutto quel freddo.»

Aveva freddo. Il volto era un piccolo inferno, gli scottava come se si fosse abbronzato per ore sotto il sole. Sentiva le labbra screpolate, spaccate in più punti e le dita gli dolevano sempre più.

Alzati.

La sua voce, dentro di lui, lo incitava. Doveva muoversi, si disse, ma stava così bene, il vento non poteva fargli nulla mentre stava disteso a terra, nulla, poteva solo soffiare, passargli sopra e sparire.

«In montagna, da solo, con tutto quel freddo.»

Mosse una gamba. Cercò il masso e lo vide, pochi metri più su. Doveva risalire, non fino in vetta, non l’avrebbe mai raggiunta col buio, ma solo fino al masso, qualche metro e poteva stare al riparo dal vento, mangiare qualcosa, riposare, riflettere su come trascorrere la notte lassù. Pensò alla ragazza, a cosa avrebbe immaginato non sentendo la sua telefonata. Avrebbe chiamato i soccorsi, sì, avrebbe telefonato ai suoi amici, ma nessuno sapeva dove fosse, come avrebbero potuto cercarlo?

«Non andare solo.»

 

Che ore sono?, si chiese, la schiena contro la roccia, la giacca tirata su fino a coprirgli la bocca. Il vento ululava come un branco di lupi affamati. La frontale lampeggiò. Le batterie se ne stavano andando, colpa del freddo, colpa di qualcosa che non aveva previsto, del destino che lo stava congelando su quella montagna maledetta.

Presto sarebbe rimasto al buio. Quante ore mancavano all’alba? Tante, troppe. Non poteva restare lì e non poteva proseguire. Ricordò la lapide trovata fra il Velino e il Cafornia. Sorpreso da una tormenta di neve, quell’uomo era rimasto lassù.

Decise di andare. Si alzò, ma gli mancarono le forze. Uscì dal riparo e il vento lo spinse a terra. Puntò la piccozza sul ghiaccio e si rialzò. Fece un passo, ricadde. Tutto quel vento. Soffiava, soffiava assordandolo, spazzando via i pensieri, sfiancandogli le difese, tramortendo la sua coscienza.

Lottò per tenersi in piedi, camminando incurvato, quasi sfiorando il ghiaccio. Poi cadde di nuovo, scivolando sul terreno ghiacciato per diversi metri prima di riuscire a voltarsi con un colpo di reni e frenare con la piccozza.

Rivide la stessa scena di prima: il riparo roccioso in alto, lui giù, sdraiato, tempo e sforzi perduti per nulla.

«In montagna, da solo, con tutto quel freddo.»

La roccia. Doveva raggiungerla, fermarsi.

Si mosse. Il vento non diminuiva. Avanzò carponi, per non rischiare di cadere. Ramponi e piccozza ben puntati sulla neve gelata. Un passo dietro l’altro. E i minuti che volavano. Il cielo che diveniva sempre più nero.

Vide la roccia sempre più vicina in un miraggio di luminosità alternata, la frontale che stava morendo assieme alle sue forze e alla sua determinazione.

Un metro. Ne mancava soltanto uno e poteva riposare, ripararsi da quel vento. Picchiò con forza sul ghiaccio, facendo esplodere schegge di cristalli di neve. E infine fu là. Si eresse per l’ultimo passo, poi si lasciò cadere a terra, contro la pietra.

«Sto tornando, ci sentiamo più tardi.»

Vide il volto della sua ragazza offuscarsi, come dentro un sogno confuso. Tutto era avvolto in una nebbia fitta nella sua testa. Si sforzò di ragionare, di riflettere. Che cosa doveva fare, adesso? La vetta, salire. No, era tardi, troppo tardi per andare. Scavare nella neve un rifugio, prendere il telo termico dallo zaino, mangiare. Attendere.

«Sto tornando, ci sentiamo più tardi.»

Stava tornando. Raggiunse il bosco, la strada sterrata, vide l’auto sempre più vicina, la notte imminente, il silenzio dei monti più cupo.

«Ciao.»

Si cambiò, entrò in macchina, accese il motore. Caldo. Doveva scaldarsi.

«Sto tornando, ci sentiamo più tardi.»

Il vento arrivava da tutte le parti, l’avvolgeva, gli martellava le orecchie. La testa sembrava scoppiargli. Aprì gli occhi. Davanti a lui c’era solo neve, sempre più scura, sempre più fredda.

«Non andare solo.»

Vieni da me, portami via. Lo disse nella sua mente, un pensiero sfuggito al controllo. Mi manchi.

«Non andare solo.»

La voce di lei che sbiadiva, sfumando nell’aria turbolenta di quella giornata d’inverno.

Chiuse gli occhi.

Il vento continuò a imperversare gelido, violento, e quel suono, che ora nulla di vivo poteva udire, sembrava soddisfatto. La montagna era libera, adesso.

C’era solo neve. Neve e altra neve.

E il vento.

Il vento che soffiava ancora.

20 Commenti

  1. Salvatore
    martedì, 21 Gennaio 2014 alle 9:09 Rispondi

    Visto che vai a capo anche tu nei dialoghi? ;)

    • Daniele Imperi
      martedì, 21 Gennaio 2014 alle 9:33 Rispondi

      Sì, certo che ci vado. Ma quando necessario. :)
      In alcuni casi erano ricordi. O ti sono sembrati non comprensibili?

      • Marcello
        martedì, 21 Gennaio 2014 alle 11:38 Rispondi

        Il mio socio Vale mi ha detto d’aver constatato che, se non vai a capo nei dialoghi, il lettore non ha tali dialoghi molto chiari (ergo, chi parla e chi risponde).

        Il racconto è talmente bello che può essere l’inizio di un romanzo d’avventura o di un thriller. Potrebbe essere l’inizio di un’avventura alla Cursed mountain, il giochino per wii.

        Come al solito, poche righe, pochi tratteggi e mi trovo a essere io l’alpinista e a sentirmi il freddo addosso.

        Il cantante degli Windir, Terje Valfar Bakken, è morto esattamente così. Gita in montagna da solo, tormenta di neve, morto congelato. Mi aveva colpito molto questa cosa, quando l’avevo letta, e adesso il tuo racconto mi ha riportato alla testa le sue canzoni.

        Saludos!

        • Daniele Imperi
          martedì, 21 Gennaio 2014 alle 12:03 Rispondi

          Grazie, Marcello.

          Sui dialoghi e l’andare a capo devo tornarci. Dipende, secondo me, quando vai a capo.

          Non sapevo del cantante – a dire la verità non so chi siano gli Windir :D – ma non è l’unico.
          Mi fa piacere che l’abbia gradito.

      • Salvatore
        martedì, 21 Gennaio 2014 alle 14:59 Rispondi

        Tutt’altro. Per questo lo sottolineavo. Secondo quello che credevo di aver capito ieri, mi sono sorpreso che a: “[…] Ricordò le parole della sua ragazza, mentre procedeva a fatica lungo il pendio ghiacciato, facendo scricchiolare il terreno sotto i suoi piedi.”; fossi andato a capo e invece ci sei andato! Esattamente quello che avrei fatto io. Ma forse ho capito male io il punto di ieri. :P

        • Daniele Imperi
          martedì, 21 Gennaio 2014 alle 15:50 Rispondi

          In quel punto entrava in scena un flashback, quindi per forza bisognava andare a capo.

          • Salvatore
            martedì, 21 Gennaio 2014 alle 16:30 Rispondi

            …e se non era un flashback non andavi a capo? La prima riga di dialogo la facevi continuare dal paragrafo precedente? mmm non so, devo andarmi a riprendere qualche libro e farci più caso…

  2. Daniele Imperi
    martedì, 21 Gennaio 2014 alle 17:37 Rispondi

    Salvatore

    …e se non era un flashback non andavi a capo?

    No, sarei andato a capo perché la prima riga del dialogo era una frase della ragazza, non di lui.

    Mi segno una serie di dialoghi per mostrarli in un post.

    • Salvatore
      martedì, 21 Gennaio 2014 alle 18:04 Rispondi

      Se hai voglia di ti ringrazio, l’argomento mi interessa mucio. Anche se poi, ad esempio ripensando a Cormag McCarthy che neanche utilizza le caporali, l’importante è riuscire a rendere chiaro il testo, qualunque metodo si utilizzi.

  3. lisafobia
    martedì, 21 Gennaio 2014 alle 19:15 Rispondi

    bel racconto! Mi ha emozionato molto, mi è venuto un freddo che quasi quasi torno a letto! Mi piace lo stile semplice, chiaro, senza fronzoli. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più della ragazza, forse come donna non posso fare a meno di preoccuparmi più di lei che di lui…

    • Daniele Imperi
      martedì, 21 Gennaio 2014 alle 20:04 Rispondi

      Ciao Lisa, benvenuta nel blog e grazie :)

      Ti preoccupi più di lei? Lei è viva e si rifarà una vita, lui non c’è più…

  4. Fabrizio Urdis
    martedì, 21 Gennaio 2014 alle 23:47 Rispondi

    Ciao Daniele,
    Sono molto contento che abbia deciso di reinserire nel tuo calendario editoriale i tuoi racconti.
    Li leggo sempre con piacere e, una volta finiti, inizio ad aspettare che arrivi martedì prossimo :)
    Quindi non mi resta che attendere…

    • Daniele Imperi
      mercoledì, 22 Gennaio 2014 alle 7:30 Rispondi

      Grazie, Fabrizio :D
      Ma credo dovrai attendere due martedì, non ce la faccio a scriverne uno a settimana…

  5. Laura Tentolini
    sabato, 25 Gennaio 2014 alle 13:29 Rispondi

    Bello. Un racconto da brividi…

  6. Ulisse Di Bartolomei
    martedì, 28 Gennaio 2014 alle 21:03 Rispondi

    Condivido… un racconto da brividi! Corro a chiudere la finestra sul balcone, che di solito tengo aperta anche d’inverno. Bel racconto anche se triste. Io di solito mi nutro dei “lieto fine” ma, come consumatore di telegiornali, devo ammettere che il finale si intona alla realtà.

    • Daniele Imperi
      martedì, 28 Gennaio 2014 alle 21:12 Rispondi

      Grazie, Ulisse :)

      Io in questo sono strano: mi piace leggere finali a lieto fine, ma scriverne a fine… tragica.

  7. Ulisse Di Bartolomei
    martedì, 28 Gennaio 2014 alle 23:53 Rispondi

    Ebbene… Il lieto fine suscita compiacimento e buon umore, ma raramente un sentore educativo propositivo. Probabilmente ti piace un finale che lasci una traccia etica precisa. Gli umani traggono insegnamento anzitutto dalle tragedie e una strada mal progettata, viene quasi mai giustata prima di qualche incidente. La tua narrazione è accattivante e astuta. Ad un terzo dalla fine si capisce che l’avventato alpinista ci lascerà le penne e si è quasi tentati di auspicarne l’inevitabile punizione. Non può raggiungere la cima e ridiscendere e neppure tornare! Si segue il racconto sino all’inevitabile epilogo, come un giudice che vuole appurare la comminazione della pena. Ricordo che in gioventù, il fascino della lettura lo percepivo nell’appurare che ogni protagonista fosse premiato o punito come meritava. Se non era così rimanevo deluso. È proprio vero che cerchiamo le nostre conferme più che il nuovo. Spero di imparare la tua arte… non è detto che con la saggistica riesca a guadagnarmi il pane…

  8. Orsa
    martedì, 12 Maggio 2020 alle 22:27 Rispondi

    Menomale, finalmente una storia (per me) con il lieto fine!
    Lui appartiene alla montagna, non a lei. E la montagna infatti se l’è ripreso.
    Divagazioni a parte, questo è il mio racconto preferito e subito dopo c’è la serie Survival.
    Grazie per la compagnia 😊

    • Daniele Imperi
      mercoledì, 13 Maggio 2020 alle 7:15 Rispondi

      Ma sei andata a pescare racconti vecchissimi che quasi nemmeno ricordo.
      La serie Survival non mi piace più.

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