Il campo dei dannati

Un racconto drammatico

Lungo le vie periferiche della città maledetta, dove muri sgretolati di casermoni sfilano muti uno a uno, malinconiche costruzioni figlie d’una sciatta architettura, innalzati come perpetuo ricovero dei derelitti, ecco che un’ombra si muove sotto una mezza luna calante, timida luce che s’arrende alla fumosa luminosità urbana di vuoti marciapiedi che trasudano il dolore e la solitudine di stanchi precari e depresse casalinghe e bambini e gioventù senza pensieri e vecchi dimenticati come stracci. Null’altro si muove in quella quieta notte, nella penombra crepuscolare di strade umide di pioggia, in quel tipico odore di asfalto fradicio e sporco mescolato al quotidiano smog. Un’auto sfreccia, solitario rombo nel silenzio, e non vedi il volto di chi sogna circuiti e piste che non potrà mai avvicinare e si sfoga nel vuoto di strade buie, svanendo nel ricordo di sonnambuli e metronotte e senzatetto, unici abitanti delle ombre.

I passi dell’uomo sono lenti, cammina sui lastricati sbreccati e macchiati diretto verso inesistenti mete, in cerca d’un riparo che non troverà mai in quella città che non ammette sbagli colpe indecisioni. Ombra senza nome né volto, corpo smagrito e sudicio dentro abiti laceri trovati rovistando in secchioni e discariche, un tic, frenetici e nervosi movimenti delle mani a dar sollievo a intimi pruriti, le labbra che disegnano mute parole soffiando via incoerenti monologhi.

Il destino non scritto lo porta lungo incolti terreni dove centinodio e gramigna hanno eretto da tempo un loro regno, sconfinando oltre reticolati di ruggine in un’ostinata conquista della città, forti della resa di stradini apatici e indolenti. Un cancello, varco onirico in un mondo estraneo e deforme, baracche tirate su di fretta come una moderna bidonville e roulotte dalle ruote sgonfie adagiate su terra fangosa, stoffe multicolori stese su fili di ferro, pozzanghere su cui si specchia una luna distorta, rottami e cianfrusaglie e lamiere e una vasca da bagno, mucchi di calcinacci e rifiuti di cibo in decomposizione. Un campo in cui riposa un’umanità sconosciuta e mai integrata nel tessuto cittadino, come parassiti attaccati a forza su pelle non lavata.

Le dita aggrappate alla rete metallica, l’uomo osserva quella dimensione fuori della realtà, cerca con lo sguardo di occhi indifferenti un movimento fra la calma stagnante e il silenzio e non vede nulla, nulla al di là di quel residuo di civiltà che farebbe ribrezzo a zampettanti roditori in liquami fognari. Si stacca, stufo dell’inazione e dell’immobilità che opprimono quel posto marcescente, e s’allontana in cerca d’un posto per dormire.

 

L’alba sorse in un cielo sbiadito da nubi di pioggia e un vento sbuffò la sua noia sulle strade che si andavano popolando di automi dentro involucri di carne e vetture che sembravano seguire un immaginario percorso come in una pista giocattolo e rumori e suoni del grande motore che manda avanti una città uguale all’altra in un disegno più antico del mondo.

L’uomo si svegliò in un velo grigio di umidità e malinconia, le ossa doloranti e i muscoli rattrappiti dalla notte all’addiaccio. Sbucò da dietro una fila anonima di secchioni straripanti, sbadigliò, orinò contro un muro e s’incamminò lungo il marciapiede diretto chissà dove, poi ritornò svelto sui suoi passi come preso da un’impellente commissione da sbrigare, il pensiero che scavava nei ricordi della notte precedente con la visione d’un cancello che separava la miseria dal cemento cittadino.

Fu là, di nuovo come la notte prima, le dita infilate nelle maglie di ferro, gli occhi che cercavano forme di vita dentro quel campo maleodorante. Un filo di fumo saliva da una roulotte, un grido lontano, rumori attutiti di stoviglie, gli internati dell’abbandono che tornavano in vita dal letargo notturno.

La bambina uscì da una baracca in fondo al campo, le gambette sporche, i capelli biondo oro scompigliati come cespugli dopo una tempesta. Il volto rigato da silenziose lacrime e quegli occhi azzurri come il cielo di una campagna estiva, reggeva una bambola di plastica mezzo bruciata e le accarezzava i capelli come una piccola madre attaccata al suo bimbo malato. Prese a giocare seduta su una cassa scura, le scarpe immerse in una poltiglia di fango, pezzi di legno e ferro divenuti mobili d’arredo di quell’illusoria casa di bambola che la piccola aveva creato nella sua mente. Una voce urlò qualcosa da dentro una catapecchia e la bambina alzò lo sguardo svogliata ma non si mosse. Poi dalla costruzione uscì una matrona in una lunga gonna blu e una casacca, uno scialle buttato sulle spalle, capelli neri come catrame. Se ne restò lì sulla soglia di quel rifugio fatiscente a brontolare alla bambina in una lingua estranea e nasale.

Attraverso spazi romboidali l’uomo vide la piccola alzarsi a malincuore, lasciare la bambola sulla cassa e dirigersi verso la baracca che la inghiottì in una cacofonia di suoni fastidiosi e schiocchi di carne contro altra carne.

Null’altro accadde in quel limbo temporale e la pioggia cominciò a cadere da un cielo scuro che si liquefaceva su una città meccanica tenuta in vita grazie ai collaudati ingranaggi della consuetudine.

 

La città si trasforma ancora in uno scenario indistinto fatto di ragnatele di luce che imprigionano la notte in un chimerico nirvana, suoni improvvisi che si spengono all’orizzonte della veglia, quartieri che sprofondano in una languida vacuità, insonni zombi che sembrano danzare sulla scia della loro sbornia e di cui non resta che una pozza di vomito e piscio davanti ai locali. Tutto tace. Il silenzio è chiave che suggella la vita dentro un fragile carapace di ombre e sogni nell’attesa che si schiuda all’arrivo del mattino.

E fra le nubi arricciate e amalgamate in se stesse ecco che la luce del nuovo giorno s’affaccia sui palazzi e le strade e le baraccopoli e i tram che zigzagano sulle loro piste di ferro e i taxi che corrono e i primi pionieri che conquistano i bar appena aperti.

Il circolo che non ha fine.

 

Il cancello era aperto. Via vai di gente, bambini urlanti, vecchi claudicanti e grasse donne sguaiate. L’uomo, fermo dietro la rete, osservava quel pullulare di vite luride e senza patria, un regno abbandonato dalla storia che sopravviveva grazie agli scarti della città e alla tenacia e alla combattività del suo codice genetico.

Uomini scuri come il lerciume che impregnava quel luogo fetido e degenere si muovevano con rilassata autorevolezza, lanciando ordini per le attività del giorno. L’uomo cercò con lo sguardo la bambina e infine la trovò, laggiù, sola in mezzo a donne sporche e spettinate, vestita come il giorno prima, un abitino sbiadito dal sole e le gambe magre che spuntavano da sotto e i piedini imbarcati in scarponcini neri e il viso dolce, incolpevole, striato da umide scie amare, e una manina che teneva la bambola.

E poi vide gli altri, immondi abomini che persino gli dei avevano dimenticato. Uomini senza gambe né braccia, deformi, ustionati per metà del corpo, un esercito di aborti umani che sfilava come fosse su una passerella di moda per un pubblico di mostri.

Si ritrasse disgustato. La bimba fu afferrata senza grazia da una donna e spintonata lontano. Alcuni uomini presero in carico quel rigurgito d’umanità che se ne stava come spaesato in mezzo agli altri. Poi un pulmino ammaccato si fermò vicino al gruppo sollevando terra e polvere e tutti quei poveri reietti furono caricati dentro come bestie dirette al macello. Il veicolo ripartì e uscì dal recinto immettendosi nella strada incurante del traffico. Un suono di clacson, il sibilo di gomme in frenata. Un’auto riprese la sua corsa, il guidatore che lanciava maledizioni al pulmino già lontano.

 

È solo nel limbo dei suoi sogni, chiuso nel proprio odore, rannicchiato contro un muro d’uno stabile anonimo, creatura tutt’uno con la spazzatura, moderno mimetismo urbano, le immagini del giorno che scorrono confuse nella sua mente fatta di piccoli, gualciti fotogrammi, una a una, il campo, la rete, gente di paesi lontani, voci, polvere, residui umani e una bambina con la sua bambola.

Apre gli occhi in un mondo umido e freddo fatto di cemento e ferro, le luci dei lampioni che sbiadiscono nel tenue lucore mattutino. Il sonno è svanito e un’altra insipida giornata si stende davanti a lui come un vecchio tappeto lasciato a marcire in una dimora disabitata.

 

Tornò verso il campo dei dannati come a un appuntamento ormai consolidato, trascinando i piedi nella sua andatura disarticolata. Si strofinava le mani sui pantaloni lerci per scaldarle, adocchiando i secchioni intorno in cerca di qualcosa da mangiare. Si fermò davanti a un mucchio di buste che traboccavano da un cassonetto, rovistò, tirò fuori un pezzo di pizza dura e morsa e l’addentò. Stretta fra i denti, le mani libere a scandagliare in altre buste. Barattoli di latta ritorti, carta stagnola di mille colori, un fiore appassito, foglie, bucce di mandarini.

Si allontanò. Lungo il marciapiede di quella via deserta, notturno teatro di amplessi carnali, profilattici si essiccavano al sole accartocciandosi come foglie morte, organica testimonianza d’una frenetica corsa bloccata sul nascere.

Voci distinte gli giunsero da un vento liquido che fluiva verso di lui portando con sé il lezzo stantio d’una città dentro la città, ricettacolo d’emarginati che si tiravano dietro l’esistenza come un carrello carico di oggetti senza nome.

Non vide il pulmino, né la torma di scherzi della natura, né le donne scarmigliate, né la bambina. Un cane marchiava il suo territorio contro un rottame e un vecchio avanzava aiutandosi con un bastone, sparendo dietro baracche silenziose.

Entrò. Una donna da dietro i vetri d’una finestra lo fissò e poi si ritrasse. La porta della catapecchia si aprì subito dopo e un uomo uscì venendogli incontro a passo svelto. «Che vuoi?», gli urlò con accento nasale.

Fece dietrofront, sguazzando coi piedi in una pozzanghera. Una mano l’afferrò a una spalla e lo fece voltare. Non ebbe il tempo di veder partire il pugno. Si ritrovò a terra in mezzo al fango, un occhio che bruciava e mandava impulsi neri e miriadi di puntini luminosi che apparivano e sparivano come se stesse viaggiando in un immaginario firmamento alla velocità della luce. Tentò di alzarsi, ma un calcio su un rene lo ributtò giù. Sputò aria e sangue e acqua sporca. Mosse le mani freneticamente nel fango nel tentativo di trovare una presa. Gli parve d’udire altre voci attorno a lui, una donna che urlava e piangeva, uomini che lanciavano insulti e poi i calci giunsero da più punti, colpendolo all’inguine, al volto, al petto. Finché un suono acuto e continuo spense gli altri suoni e la vista e i pensieri e tutto svanì in un’allucinante sofferenza che lo portò lontano, lontano, dove solo il buio avrebbe avuto cura di lui.

 

La notte scende, cupo sudario a coprire il corpo martoriato e trascinato via e abbandonato come un rifiuto. Le tenebre calate sulla vita avvolgono ferite, contusioni, lividi. Il vento si fa carezza e scivola sulla pelle come il soffio di una donna. Dagli occhi, umide sorgenti, sgorgano piccoli amari fiumi. Il sonno giunge, ma è solo un doloroso alternarsi di veglia e incubi. Rumori improvvisi lo destano, inconsapevole allarme che lo riscuote dal caleidoscopio di forme confuse che nascono nella sua mente, riportando in vita il tormento e l’angoscia, prima di sprofondare di nuovo nell’ossessivo vortice dei sogni.

 

Si svegliò, intorpidito dal freddo e dal dolore. Tentò di alzarsi. Una fitta atroce lo colse, ma non seppe capirne la provenienza. Restò a terra sull’asfalto umido respirando per ritrovare le forze. Sopra di lui, un cielo grigio piombo incombeva come un peso insostenibile. Chiuse gli occhi e si riaddormentò.

Quando li riaprì, il cielo era ancora dello stesso colore. Non seppe dire quanto tempo fosse trascorso. Provò a muovere le gambe e uno spasmo all’inguine gli fece sfuggire un urlo soffocato. Tossì. Si guardò attorno per capire dove fosse, ma non riconobbe il posto. Accanto a lui vide un muro scrostato. Vecchi manifesti sfrangiati dalla pioggia, scritte scarabocchiate con vernice a spruzzo. Dall’altra parte della strada un campo incolto non recintato. Alcune automobili parcheggiate qui e là.

Caddero le prime gocce. Fredde, pungenti contro il suo viso ammaccato e livido. Con uno sforzo si alzò a sedere, la schiena contro il muro. La pioggia aumentò inzuppandolo. Tuoni, un lampo da qualche parte oltre i campi. E fari, in quell’alba offuscata e squallida.

Non si mosse più. Restò addossato al muro come una bambola di pezza lasciata dopo l’ora dei giochi, un burattino in attesa del nuovo atto, spettatore l’indifferenza del mondo.

 

Il risveglio è un fastidio che lo pervade risucchiandone le volontà, figlio d’una resa inevitabile al disagio di un’esistenza senza un perché. Le case a poco a poco s’accendono nel tentativo di dissipare le ultime propaggini della tenebra notturna e i camion della spazzatura passano a prendere il loro carico di scarti, avanzi d’un abuso delle risorse, egoista e consumistica civiltà che si crogiola nel surplus e fa della povertà e la fame nel mondo il suo cruccio natalizio.

Non v’è redenzione in quel piccolo mondo che l’uomo si porta dietro come il guscio d’una chiocciola e ciò che resterà di lui è un’effimera scia mucoide che svanirà nella storia.

Non conosce più il tempo, non sa quanto sia rimasto su quell’asfalto, nutrito dalla pioggia e dal freddo, lurido ammasso di abiti sgualciti scavalcato dai passanti come fosse sterco di cane.

Eppure si alza, lentamente, i muscoli indolenziti dall’inattività, liberandosi dal ristagno d’una monolitica postura, legnosa convalescenza nel lazzaretto del marciapiede.

Solo, silente nella bruma avvelenata dalle esalazioni urbane, oleoso e grigio respiro della città, s’incammina nella sua ostinata ricerca. Attorno a lui la vita degli automi riprende.

 

Dall’altra parte della strada osservò la vita ancora sopita dentro il campo. Non avevano perso troppo tempo gli aguzzini che l’avevano pestato. Buttato appena dietro l’angolo, laggiù, venti trenta metri dal cancello. Via più deserta di questa, squallida periferia figlia d’un piano edilizio marcio come l’amministrazione che lo regola. Nessuno a protestare, zitto tu zitto io. E il gregge che arranca sospinto da un’ereditaria monotonia. Assuefazione metropolitana. Meglio sopravvivere in un letamaio, che vivere lottando contro i mulini a vento.

Il rombo di un motore, nel cuore di quell’accampamento di diseredati. Si nascose dietro alcuni secchioni, sbirciando fra l’uno e l’altro. Il lezzo degli scarti del cibo in decomposizione che gli procurò un dolore vuoto allo stomaco. Non mangiava da chissà quanto. Urla. Donne che gridavano qualcosa a qualcuno, in fondo, dietro catapecchie e roulotte scassate. Ai margini di quella microciviltà sorta dove l’altra invece andava a morire. La vita che nasce dove altra vita termina la sua corsa. L’immortalità, come le piccole agavi che spuntano sotto il corpo dell’agave adulta, pronte a soppiantarla dopo l’esplosione del fiore.

Il cancello vomitò fuori il pulmino col suo carico di storpi e deformi. Diretti nel cuore pulsante della città, uno qui uno là, adagiati come soprammobili accanto a negozi e vetrine, un pezzo di cartone con frasi sgrammaticate scritte in blu messo bene in vista, un sottovaso per raccogliere monete proprio davanti. E lo sguardo implorante sui volti rassegnati, siamo figli dimenticati del vostro dio, abbiate pietà. Passanti che sfilano infastiditi, alcuni schifati. Qualche tintinnio che squilla nel caos frenetico del giorno.

L’uomo si mosse, allontanandosi apparentemente dal campo in direzione della città. Si mantenne sulla sponda opposta come un pedone qualunque. Osservando. In prossimità della fine del campo attraversò la strada e spiò al di là della recinzione. Immobilità. E silenzio. Si chiese dove fosse la bambina, splendido monile in un immondezzaio indegno perfino di pensarla. Bionda silfide in un villaggio di troll.

Il vento portò un forte puzzo di marciume. Svoltò, seguendo il recinto di metallo, infilandosi in mezzo a cespugli infestanti e erba secca. Cartaccia, buste e qualche copertone. Escrementi, forse umani dall’odore. Si addentrò in quella giungla di rovi e degrado superando mucchi di calcinacci e terra. La discarica degli sciagurati. Anni di rifiuti buttati alla rinfusa, gettati oltre il reticolato. Vagò in mezzo a quel fetore, un occhio sempre puntato alle catapecchie e alle roulotte oltre. Attento a che nessuno lo vedesse. Riconobbe la baracca dove la donna aveva richiamato la bimba, giorni prima. Si avvicinò alla rete. Pacciame, plastica, ossa di qualche bestia spolpate, scarpe. Uno scarponcino. Nero, come quello visto ai piedi della bambina. Lo raccolse, rigirandoselo fra le mani. L’annusò. Profumo di innocenza. Guardò intorno. Mezzo coperta da pezzi di verdura marcia scorse la bambola. La tirò fuori, ripulendola sulla giacca. Il fuoco che aveva lasciato una traccia di liscia deformità su metà del corpo. Gli ricordò uno dei disgraziati entrati nel pulmino. Se la ficcò in tasca, gettò via la scarpa e si allontanò.

Uscì in strada, costeggiò il recinto e raggiunse il cancello. Nessuno in vista. Tutti fuori, a sbrigare i lavori del giorno. Si decise a entrare e s’incamminò verso la baracca dove abitava la bambina. Un cane abbaiò da qualche parte. Una porta che sbatteva, in quel silenzio magico di degenerazione e miseria. Bussò. Rumore di una sedia che si scostava. Passi, un brontolio. La porta si aprì. «E tu che vuoi? Chi sei?», domandò guardinga e contrariata la donna.

L’uomo tirò fuori di tasca la bambola e la porse alla donna. «La bambina», disse, impacciato e intimorito. «È della bambina che sta qui».

«Che bambina?» La donna cominciò a urlare. «Qui non c’è nessuna bambina, vattene!»

L’uomo arretrò a quella furia. Nel suo campo visivo apparvero altre donne. E un vecchio. Due. Più voci si levarono contro di lui, minuscolo essere in quel furore matriarcale. Omuncolo sperduto in una dimensione parossistica.

Un sasso lo colpì al volto, partito da chissà dove. Sbandò come un ubriaco e la bambola gli sfuggì di mano. Mosse ancora qualche passo indietro e altre pietre volarono verso di lui. Corse via, fuggendo da quella sassaiola insensata, di nuovo in strada, lungo il marciapiede, verso la salvezza, il terrore di un nuovo pestaggio che lo braccava.

 

Figlio del dolore, ombra di fuliggine che svanisce sui lastricati urbani, figura stremata dalla malinconia e dagli stenti che fluisce nella via come un rivolo di fanghiglia lungo un canale di scolo. Giorni che volano, mesi che si consumano. Ricordi che affiorano come gonfi cadaveri nelle acque ingiallite di un fiume. Lama che rimesta in ferite mai suturate. Sul volto imbiancato, anni di mesta sofferenza e digiuni e freddo e incauti vagabondaggi, un velo di tiepida serenità appare, discreto sorriso che si forma su labbra screpolate. E un volto lacrimoso di bambina è come un sogno antico che ritorna, quel volto senza nome, incontro mancato e figlia mai avuta, occhi tristi e lontani e ora perduti.

Sotto l’ultima luna, oltre la nebbia grigia che offusca la città invernale, ecco che l’uomo s’adagia, proprio laggiù dove altra periferia s’arrende alla natura, incolto avanzare di gramigna e centinodio, accanto a bidoni coricati come tanti caduti di guerra in attesa di sepoltura. Si stringe la giacca senza più bottoni, tossisce, sputa. Ansima. Chiude gli occhi, aggrappandosi a quel ricordo di bambina lontano nel tempo ma mai dissolto. È lei ora a prenderlo per mano e lui si lascia guidare e insieme, uno accanto all’altra, s’allontanano. Non è più freddo ora e non è più inverno e la città si risveglia dopo la notte come ogni mattina, senza curarsi del figlio che ha perduto.

5 Commenti

  1. Lucia Donati
    domenica, 10 Giugno 2012 alle 10:52 Rispondi

    Mi sembrano così simili l’uomo e la bambina, vicini in qualche modo; forse per una loro innocenza e per la loro fragilità. Entrambi in balìa del destino crudele e avverso, senza possibilità diverse se non in uno sprazzo del pensiero, forse. Ma la realtà è una cappa grigia di dolore che annienta, quasi sempre, ogni possibilità diversa, almeno per quelli meno fortunati. Ed impedisce anche il solo pensiero della vita, dello scorrere di essa in un modo naturale, normale, di una vita diversa o di una vita che vorrebbe iniziare ma non ha chances. Bel racconto: grande ricchezza di linguaggio.

  2. Luigi Leonardi
    domenica, 10 Giugno 2012 alle 13:31 Rispondi

    Caro Daniele,
    su questo racconto, che è l’affresco di una realtà sommersa dal perbenismo ipocrita, la prima considerazione che mi viene spontanea è di trovarmi di fronte a una perfezione di forme. L’impatto che si avverte nello scorrere i periodi, come a snocciolare grani di rosario, è l’inequivocabile “spleen”, il fiele della vita, quella grigia miseria dell’abbattimento fisico e morale.
    Avrai quindi capito che sto accostando questo tuo lavoro a quel tipo di bellezza artistica, quel sublime grado di dignità artistica, raggiungibile nelle espressioni di un Baudelaire, e che qui hai raggiunto.
    Nel quadro che fai compaiono, protagonisti, il tedio, l’indifferenza, la solitudine, ma anche la rabbia, la violenza e una vaga ricerca di speranza unico appiglio degli umili, dei vinti, di quella umanità lasciata a marcire nella propria palude. Qui non c’è spazio per la provvidenza; il solo conforto che puoi trovare è il residuo di una bambola e l’innocenza di una bambina abbandonata da tutti.
    Ed è ciò che noi tutti abbiamo perduto: l’innocenza dell’umiltà, vituperata dall’egoismo, dai giochi di potere, dalla sazietà del consumismo, dai diabolici, meccanici ritmi del progresso: ” Attorno a lui la vita degli automi riprende.”
    Ho detto di Baudelaire, ma questo mondo ce l’aveva già scodellato un profeta del neo realismo, che con la sua trilogia cinematografica descrisse il mondo delle periferie, precorrendo un decadentismo moderno, dove la miseria sociale è dilagata in peste morale: Pier Paolo Pasolini.
    Nel tuo lavoro, Daniele, c’è l’evocazione dello spirito degli infelici, o forse meglio lo spirito dell’inquietudine. Ma non mi riferisco al protagonista della tua storia, bensì a te. Trasuda dalle similitudini, dalle metafore degne di un H.Miller o Rimbaud; dai pensieri, dalle descrizioni puntuali dell’ambiente, da un lamento costante che accompagna l’insieme, come la pioggia, come il cielo cupo, l’aria carica di rassegnazione. – “Il circolo che non ha fine” – Oltre alla consapevolezza di un male di vivere storico ineluttabile universalizzato: ” .. in cerca d’un riparo che non troverà mai.. ”
    E’ davvero pregevole questo testo che si risolve in una sua congeniale estetica, sobria, pulita, priva di retorici sentimentalismi. Un prosa elegante.

  3. Daniele Imperi
    domenica, 10 Giugno 2012 alle 18:54 Rispondi

    @Lucia: grazie :)

    @Luigi: beh, questa critica è da incorniciare, grazie mille, ma non avrai esagerato? :D
    Ti nomino mio critico ufficiale, a questo punto :)

  4. Luigi Leonardi
    domenica, 10 Giugno 2012 alle 20:35 Rispondi

    Vedi, in questo tuo racconto, come anche in altri, ritrovo i tratti principali che coincidono con una mia vecchia inclinazione verista.
    L’esperienza della critica è molto importante per chi scrive: hai più possibilità di affrontare esteticamente le tue tematiche.
    Naturalmente è necessario un impegno costante verso la saggistica. Lo so che può sembrare noioso, ma se superi il primo impatto diventa quasi un vizio.
    Ciao.

  5. 50 curiosità sulla mia scrittura
    martedì, 8 Aprile 2014 alle 5:01 Rispondi

    […] storia che mi è piaciuta di più è stata Il campo dei dannati. Ha rappresentato anche un esercizio di […]

Lasciami la tua opinione

Nome e email devono essere reali. Se usi un nickname, dall'email o dal sito si deve risalire al nome. Commenti anonimi non saranno approvati.