Apocalisse bianca

Racconto apocalittico

Apocalisse bianca

L’avevano chiamata l’apocalisse silente, perché era venuta giù dal cielo una notte e senza fare rumore. Al mattino il mondo s’era risvegliato sotto un panno bianco, come un lenzuolo steso su un cadavere da un dio bizzarro.

Fu allora che la gente cominciò a morire.

 

L’uomo si richiuse a fatica la porta di metallo alle spalle, vincendo la forza della bufera che là fuori urlava come un demonio castrato. Spruzzi di neve ghiacciata e aria gelida entrarono nella piccola stanza sudicia e le quattro figure silenziose che se ne stavano sedute accanto alla stufa alzarono uno sguardo stizzoso verso il nuovo venuto.

«Non sai proprio farne a meno?», borbottò il vecchio.

«Non so farmi obbedire dal vento», gli rispose l’uomo. Era imbacuccato con abiti di vari colori e misure, presi a corpi senza vita abbandonati nella neve e dimenticati. Avevano scavato parecchio per poter recuperare quei vestiti, ma era stato necessario trasportare i cadaveri nella stanza e farli scongelare prima di potergli sfilare abiti e scarpe. E poi ributtarli fuori, dove in poche ore erano stati sepolti da altra neve.

«Che c’è oggi da mangiare?», chiese, sbirciando nella pentola ammaccata che bolliva sopra la stufa.

«Quello che c’era ieri», rispose la vecchia. «Zuppa di farro».

«Sono stufo di mangiare farro», disse l’uomo.

«Che cosa proponi?», lo provocò il ragazzo dai capelli rossi. «Una bella spaghettata? E magari per secondo una bistecca con verdure grigliate. E da bere»

L’uomo si alzò di scatto e un rumore sordo chiuse la bocca al ragazzo, da cui colarono rivoli di sangue a disegnare strane linee sulla pelle sporca. Rimase in terra, incapace di tenere testa a quell’improvviso scoppio di rabbia. Poi si portò una mano alle labbra e strinse gli occhi e i denti, ma non esternò il suo dolore. «Mi hai quasi rotto un dente, figlio di un cane».

«Te la sei cercata», disse il vecchio.

«Crepate», sputò il ragazzo.

«Un giorno», ribatté l’altro. «E anche tu».

«Avrei fatto meglio a seguire i soldati, anziché restare in questa stanza puzzolente, con un pazzo, due vecchi e una muta».

La giovane donna, che stava rimestando nella pentola, si voltò verso il ragazzo, ma nel suo sguardo non c’era espressione. I loro occhi si incrociarono, poi la donna alzò una mano e mimò un taglio sulla sua gola.

«Fantasie».

All’uomo non sfuggì quel gesto. «Io li ho visti».

«Chi?»

«I cadaveri», rispose. «Li ho visti e avevano la gola tagliata. Nei loro corpi non c’era sangue. L’unica bevanda calda da bere in questo maledetto mondo congelato».

La vecchia si segnò. «Adesso basta parlare, il pranzo è pronto».

La giovane donna portò la pentola in tavola e, mentre gli altri prendevano posto, riempì le scodelle. Poi sedette anch’ella e cominciò a mangiare.

«Ho visto delle orme, oggi», disse l’uomo.

Gli altri si fermarono col cucchiaio a mezz’aria. Nella stanza scese il silenzio, persino il fuoco che si consumava nella stufa si affievolì.

La donna scosse la testa e fece un gesto eloquente con la mano.

«Sulla collina», le rispose l’uomo. «Orme di cervo».

Il vecchio lo guardò. «Com’è possibile?»

«Non lo so, ma le ho viste».

Il ragazzo stava per ribattere con una battuta insolente, ma il dolore alla bocca lo fece desistere e continuò a mangiare.

«Otto anni», sussurrò la vecchia. Alcune lacrime scesero sulle sue guance grinzose. Si asciugò con la manica della giacca. «Sono quasi otto anni, vero? Da quando… da quando ha cominciato a nevicare e non s’è più visto un uccello nel cielo e un cane per strada».

«Sì», le rispose il vecchio.

«Domani mattina torno sulla collina».

La giovane donna gli sfiorò un braccio. Nei suoi occhi apparve una luce che rese l’intera stanza e persino la sua vita splendente come se il sole fosse tornato. «Potrebbe essere pericoloso», tentò di dissuaderla.

Ma la donna scosse con violenza la testa e i capelli le si poggiarono sul viso. Li scostò con un gesto delicato e sorrise.

«Va bene», acconsentì l’uomo, «ma farà freddo. Molto freddo».

Ok, rispose la donna muovendo le labbra.

 

La gente era morta di freddo. Le strade e i porti erano rimasti bloccati e ogni industria e fabbrica aveva smesso di funzionare. Qualcuno aveva cominciato ad abbattere alberi per scaldarsi, ma infine aveva desistito.

La neve aveva coperto tutto. Città, foreste, valli.

E poi erano arrivati i lupi.

 

L’uomo indicò le buche sulla coltre bianca.

Erano usciti presto quella mattina. Indossavano passamontagna ricavati con pezzi di maglioni, giacconi pesanti e strati su strati di abiti vecchi e lerci. Le mani erano infilate in guanti fasciati di strisce di stoffa e in testa portavano berretti di lana e cappucci imbottiti.

La donna lo guardò e un velo di paura apparve sul volto giovane. Scosse il capo, come a porre una domanda inespressa.

«Lupi», rispose l’uomo, annuendo.

La donna si guardò attorno, come se si aspettasse di veder arrivare un intero branco di bestie inferocite a sbranarli. Ma nulla si mosse in quell’eterno candore che era divenuto il mondo. Un silenzio di ghiaccio che accompagnava l’esistenza dei sopravvissuti verso l’ultimo capitolo della specie umana.

«Muoviamoci», la esortò l’uomo. Non gli piaceva l’idea di lasciare gli anziani in compagnia del ragazzo, ma non aveva avuto scelta. Dovevano mangiare carne, non potevano continuare a sostentarsi con brodaglia insapore.

La collina distava un’ora di cammino dal loro rifugio. L’uomo la chiamava così, ma non sapeva cosa ci fosse sotto la neve, se davvero una formazione rocciosa o un palazzo o chissà cos’altro.

Spesso si domandava quanti fossero sopravvissuti all’apocalisse silente. Aveva incontrato i due anziani che vagabondavano mano nella mano, infreddoliti e affamati, e li aveva accolti nel suo rifugio. Erano oltre quattro anni che vivevano insieme. Aveva costruito la baracca con pezzi di legno e metallo trovati in giro, recuperati sotto il ghiaccio prima che fosse stato impossibile scavare e tirare fuori i resti della sua civiltà. E ogni giorno spalava neve per non far seppellire l’unica casa che aveva. Poi era arrivata la donna, in una notte d’inverno. Aveva bussato alla porta e quando l’uomo aveva aperto si era ritrovato puntata contro il viso la canna di un fucile. La donna infine era scoppiata a piangere e l’uomo l’aveva fatta entrare, facendole bere una bevanda calda. Il ragazzo coi capelli rossi era stato l’ultimo acquisto. Frugava nella neve, in cerca di abiti. Grazie a lui avevano trovato una sorta di fossa comune, che in pochi giorni aveva fornito loro parecchi vestiti e scarpe.

Dopo circa un’ora l’uomo diede l’alt. «Lassù», disse, più a se stesso che alla donna. Una distesa infinita di neve li circondava da tre lati. Davanti a loro, quella che l’uomo aveva chiamato la collina era un pendio che saliva per un centinaio di metri. La neve caduta nelle ore precedenti aveva già nascosto ogni orma. E altra neve cadeva ancora.

«Saliamo», disse l’uomo incamminandosi nuovamente. Avanzarono sul terreno bianco, due anime solitarie, ultima speranza di una specie in declino, sconosciuti eroi che non s’arrendevano alla candida peste scesa dal cielo.

 

Nelle piccole comunità di sopravvissuti erano nate le leggende. Miti ripresi da antiche storie, contaminati da nuove esperienze e sogni, ultimo appiglio dei disperati contro una pazzia dilagante.

Qualcuno aveva finito per crederci.

Le leggende parlavano di foreste sperdute.

E di cervi.

 

«Era qui, più o meno». Avevano raggiunto la cima della collina, sotto la neve che scendeva ancor più fitta.

La donna mosse velocemente mani e labbra in un silenzioso discorso.

«Bella domanda», le rispose l’uomo. «Non so davvero perché diavolo sia arrivato fin qui quel cervo». E soprattutto da dove venga, pensò.

Lupi, suggerì la donna, scolpendo la parola sulla bocca.

«Forse. Sì, forse stava fuggendo dai lupi».

L’uomo scrutò in lontananza, cercando di penetrare con lo sguardo il velo opaco di neve che cadeva. Strinse gli occhi, ma era impossibile vedere oltre qualche metro.

«O forse c’è un’altra spiegazione», disse, quasi sussurrando. «Forse s’era allontanato».

La donna si accigliò.

«Non ci ho mai creduto, lo sai».

Gli occhi della donna si spalancarono. Mosse le labbra per dire qualcosa, ma poi le richiuse.

«Perché no? Si è allontanato dalle foreste, ritrovandosi in mezzo a una distesa di neve e braccato dai lupi, e non ha più ritrovato la strada».

La donna scosse la testa, guardando l’uomo con tenerezza. Allungò una mano a sfioragli il volto sporco e barbuto.

«Dobbiamo trovare quel cervo», disse, come se non avesse neanche avvertito quel tocco, incamminandosi sulla neve senza una meta. La donna si affrettò a seguirlo.

 

Trovarono la carcassa mezz’ora più tardi. L’animale era stato sbranato dai lupi e adesso quel che restava di quella bestia imponente erano il palco e pezzi di pelliccia insanguinata sparsi intorno. I lupi avevano lasciato ben poco di quel festino. Le tracce della lotta erano già quasi del tutto scomparse, la neve arrossata che veniva imbiancata da altra neve. I due si avvicinarono con movimenti che avevano un che di religioso, come se quella carogna smembrata fosse figlia d’una divinità lontana che aveva donato parte di sé a un pianeta morente e ingrato.

L’uomo tirò fuori un coltello e cominciò a tagliare la pelle. «Questa ci sarà utile, anche se avrei preferito ammazzarlo io. Maledetti lupi».

Lavorò per alcuni minuti e quando ebbe terminato ripose le pelli nello zaino. Più avanti scorse quel che restava di una delle zampe e si alzò. «Era denutrito», disse, mostrando lo stinco alla donna. «Dunque…», ma non finì la frase.

 

Da sempre l’uomo si trincera dietro un detto antico di secoli. La speranza è l’ultima a morire. E quando tutto ormai appare buio e perduto, quando l’orizzonte dell’esistenza si assottiglia verso il nulla, quando non si ha più neanche la forza di arrendersi, è allora che la mente comincia a sognare. E il sogno, nato da storie scritte sulla bocca di gente che non è più, diviene l’unica realtà da inseguire, impossibile e opaco come il cielo bianco e silente che racchiude l’umanità in un gelido guscio di morte.

L’antica ricerca che ritorna in un mondo che soccombe, il viaggio di due fortuiti eroi, come una coppia biblica in una genesi mai scritta, ma più umana, reale, viva, che si lascia alle spalle un’apocalisse monotona e silenziosa come il respiro del nulla.

Un passo dietro l’altro. In due contro il destino. Ma non più soli.

 

La porta del rifugio era spalancata.

L’uomo affrettò il passo, mentre un presentimento si faceva strada nella sua mente come la lama di un coltello nella carne viva di una vittima. Entrò quasi correndo, fermandosi d’improvviso davanti al caos che gli apparve davanti.

La stufa era in terra e la stanza, nonostante fosse aperta, puzzava di fumo. Le sedie e i tavoli erano distrutti, fatti a pezzi assieme alle stoviglie. I letti erano all’aria, materassi e coperte gettati intorno alla rinfusa.

In un angolo vide i corpi dei due anziani. Avevano la testa fracassata e l’uomo si augurò che fossero morti sul colpo. Si chiese cosa fosse successo, che cosa avesse scatenato l’ennesimo litigio col ragazzo dai capelli rossi, tanto da fargli compiere quella strage senza senso.

Si voltò a cercare la donna. La vide sulla soglia, le lacrime che scendevano come piccoli fiumi amari, incapace di entrare in un posto che non riconosceva più.

«Ha preso quasi tutte le nostre provviste», disse l’uomo. Si avvicinò alla stufa, armeggiò con la base, sfilando una lastra che rivelò uno spazio. Estrasse un pacchetto fatto di stoffa e cellophane e se l’infilò nello zaino. «Carne essiccata», disse, interpretando lo sguardo interrogativo della donna. «L’ho tenuta per le emergenze».

Decisero di non seppellire i due anziani nella neve. Non volevano che i lupi ne facessero scempio. Diedero un’ordinata alla stanza e adagiarono i corpi sui letti, coprendoli.

«Sei pronta?», chiese alla donna, che annuì. Avevano maturato quella decisione durante il ritorno e adesso, con quella drammatica scoperta, sembrava l’unica scelta possibile. «Sarà un viaggio lungo», aggiunse, «e pericoloso». Ma la donna annuì di nuovo, come se fosse più decisa di lui a tentare quel viaggio inseguendo una leggenda.

«Saremo solo noi due», disse ancora l’uomo.

Ma la donna scosse la testa, accennando un sorriso, come se temesse di rivelare una verità scomoda e fastidiosa. Poi gli prese la mano e delicatamente se la portò al ventre. E l’uomo allora sentì. Avvertì la vita dentro altra vita, timidi movimenti di un essere che combatteva in una lunga apnea, crescendo come se non vedesse l’ora di vedere il mondo oltre le pareti dell’utero.

L’uomo ebbe un brivido. Aveva amato quella donna nel silenzio di una stanza condivisa, ignorando o forse solo non pensando che nonostante tutto, a dispetto dell’imminente fine dell’umanità, le leggi della natura seguivano imperterrite il loro corso, deciso milioni di anni prima.

E infine sorrise anch’egli, per la prima volta dopo innumerevoli mesi, e strinse la donna in un abbraccio muto che ridiede calore a entrambi.

Uscirono nella tempesta di neve, richiudendo la porta che avrebbe sigillato per sempre quella tomba anonima. Il vento sferzò i loro corpi, ma non penetrò gli strati di abiti che avevano indosso.

Risalirono il pendio della collina, dove le tracce della lotta tra cervo e lupi erano solo un ricordo, e poi discesero l’altro versante, avanzando fianco a fianco finché divennero due puntini neri nel bianco accecante.

 

E il viaggio dell’uomo è cominciato, verso una meta forse mai esistita. La fine non è mai scritta, quando la volontà, nata dalla disperazione, diviene forza e scelta. Il cammino, per quanto lungo, è l’esistenza stessa, il suo divenire giorno dopo giorno fino alla fine dei tempi.

Anche la neve che cade compie il suo cammino e il suo destino. Si fa ghiaccio e strada per i passi dei due uomini che si lasciano alle spalle i ricordi per scoprire cosa si nasconde laggiù, oltre quell’orizzonte bianco e silente che sembra non aver fine.

 

7 Commenti

  1. Roberto Bommarito
    domenica, 27 Maggio 2012 alle 11:10 Rispondi

    Coinvolgente, scritto con un linguaggio molto preciso, incisivo. Complimenti!

  2. Luigi Leonardi
    domenica, 27 Maggio 2012 alle 21:06 Rispondi

    La conoscenza, lo scibile, l’intuizione umana per quanto illuminante, non sono sufficienti non solo a comprendere il perché della vita, ma anche a misurare una pur approssimativa durata dell’umanità.
    La “rivelazione” non ci verrà nemmeno da un “atto di fede”.
    Forse solo attraverso il dubbio costante potremo cogliere il significato della nostra lotta per la sopravvivenza: l’angoscia dell’ignoto.
    Attraverso il dubbio scopriremo anche l’illusione delle nostre scelte: la vanità del libero arbitrio.

  3. Daniele Imperi
    domenica, 27 Maggio 2012 alle 21:34 Rispondi

    @Roberto: grazie mille :)

    @Luigi: una nota filosofica a corredo del racconto, grazie :)

  4. Metodi di narrazione
    mercoledì, 4 Luglio 2012 alle 5:02 Rispondi

    […] mio racconto Apocalisse bianca ho usato il corsivo per introdurre il narratore. Una sorta di narratore. Come una serie di […]

  5. Come creare un’ambientazione post-apocalittica
    domenica, 2 Febbraio 2014 alle 5:01 Rispondi

    […] Apocalisse bianca: la neve ha coperto tutto il pianeta. […]

  6. Anna
    domenica, 2 Febbraio 2014 alle 14:15 Rispondi

    Questo gruppo di sopravvissuti mi ha fatto subito pensare a una famiglia: i membri fondamentali ci sono tutti, dai nonni al figlio ribelle che rinnega il nucleo che lo ha accolto; una nuova vita, frutto della coppia che sta al centro di questa famiglia – e che potrebbe ricreare l’evento del concepimento e della nascita ancora molte volte… La famiglia che si rigenera eternamente attraverso quelle leggi della natura che resistono anche nelle condizioni più disperate, come hai detto tu.
    Ovviamente questo è solo un mio pensiero sorto durante la lettura: da parte tua ricreare un’immagine famigliare era intenzionale? :)

    • Daniele Imperi
      domenica, 2 Febbraio 2014 alle 14:29 Rispondi

      Grazie della lettura, Anna :)

      No, non avevo pensato per niente alla creazione di un’ipotetica famiglia, ma è bello leggere varie interpretazioni del racconto.

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