Oggi, data imprecisata
Diario di bordo dell’unico passeggero. Registrazione da telefono cellulare.
Sono in viaggio da giorni, anche se non posso dirlo con certezza. Potrebbero essere perfino anni. Dietro di me, i confini del sistema solare sono lontani centinaia di chilometri, un abisso nero che mi separa per sempre dal mio mondo. Non conosco la mia destinazione, né riesco a interpretare il linguaggio e i simboli degli strumenti di bordo. È tutto così estraneo, alieno.
Per un momento il sapore dell’avventura e del mistero ha sopraffatto la mia coscienza, persino quando ho visto i volti dei miei amici farsi sempre più allarmati. Quando ormai non potevo più tornare indietro, cambiare il corso degli eventi, arrestare il mio viaggio.
Non so se li rivedrò ancora né se farò ritorno sul mio pianeta, alla mia vita di sempre. Ora, a distanze via via più incalcolabili, non posso che pentirmi di essere salito a bordo.
Nel velivolo che veniva dal mare.
Alcuni giorni prima, litorale romano
Il sole estivo del mattino surriscaldava la sabbia, rendendola polvere rovente, e l’odore di alghe che marcivano sulla battigia venne portato da un vento leggero assieme al canto di gabbiani affamati.
Sedevano su asciugamani colorati a chiacchierare e passare il tempo, uomini di trenta, quarant’anni e giovani donne dal lavoro precario. Riuniti alla rinfusa come oggetti abbandonati, si godevano la salsedine sulla pelle unta dai protettivi solari.
«Vado a fare un bagno», disse D. Si alzò e si incamminò verso la riva.
«Vengo anch’io», gli fece eco M, e lo seguì.
Alzarono d’istinto i piedi al contatto con l’acqua fredda e avanzarono come due pinguini o come due ubriachi barcollanti. Poi si tuffarono, nascondendo al mondo i brividi che li assalirono. Emersero boccheggiando e presero a menare bracciate, sollevando spuma e spruzzi e residui di flora marina.
Quando la massa scura apparve all’orizzonte, si fermarono, restando a galla e cercando di capire se fosse un animale o un’imbarcazione. Non poteva essere uno squalo, perché non ve n’erano, e sembrava totalmente fuori dall’acqua, un corpo compatto, privo di luce, che si avvicinava.
«Che cavolo è?», chiese D, ma nessuno rispose.
Restarono lì, a fissare quella cosa che si faceva sempre più grande, finché capirono.
E allora presero a nuotare chi a destra chi a sinistra per non essere investiti e nel frattempo cercarono di tornare verso riva.
Gli altri amici avevano notato dalla spiaggia qualcosa di strano e adesso se ne stavano uno accanto all’altro sulla battigia a guardare.
Anche loro avevano capito che cosa si stava avvicinando.
Era un aereo.
Sembrava un comune idrovolante, anche se la struttura era sconosciuta. La carlinga, tozza, era riconoscibile, così come le due ali che la sovrastavano. E presentava una coda e un timone, questo era chiaro. Ma nessuno di loro aveva mai visto un velivolo come quello.
Aveva qualcosa di avveniristico e antico insieme, come se il futuro si fosse fuso col passato saltando il presente. Non emetteva alcun rumore.
I due videro l’idrovolante toccare la riva e continuare la sua corsa, lentamente, sulla sabbia. Il gruppo di spettatori si fece da parte appena in tempo, prima di essere preso in pieno dal muso e dalle ali dell’aereo.
L’acqua divenne più bassa e i piedi dei due natanti toccarono il fondale. Videro l’idrovolante che, anziché arrestarsi, si voltò in direzione del mare. Era di un grigio smorto, opaco, e dal metallo si sprigionava una sorta di fumo, come se stesse evaporando.
Nessuno si avvicinò all’idrovolante, eccetto i due che uscirono dall’acqua. Osservarono le fiancate in cerca di simboli che ne testimoniassero la provenienza, ma non ne trovarono. Così restarono lì, aspettando che uscisse il pilota.
Attesero diversi minuti, ma nessuno si affacciò dall’abitacolo. I vetri erano scuri e dal velivolo non provenivano rumori.
«Apriamo il portello», propose D.
«Fallo tu», gli rispose M.
E l’altro tirò la maniglia.
Il velivolo era vuoto.
Entrarono nell’abitacolo deserto e sull’unico sedile videro una tuta e un casco. I comandi rivelarono strumenti sconosciuti, con strani simboli a indicarne le funzioni, ma per loro del tutto incomprensibili.
«Come c’è arrivato qui?», chiese M.
«E che ne so? Forse ha un comando automatico. Ma mi domando da dove viene».
D afferrò la tuta. Al tatto era leggera, ma il tessuto sembrava resistente. Cominciò a indossarla.
«Che fai?»
«Mi sta bene, no? È della mia misura». Prese anche il casco e lo provò. Calzava a pennello.
M notò una porta dietro al posto di guida, che dava su quella che doveva essere una camera da letto. Mentre di fronte una seconda porta dava l’accesso a un piccolo bagno. Erano sicuri di questo, sicuri che quelle due stanze fossero una camera per riposare e un locale per i servizi igienici, ma l’arredamento non apparteneva alla loro realtà. Il letto era una struttura rettangolare, bianca e morbida al tatto. Nel bagno erano presenti una sorta di sarcofago in posizione verticale, che si spalancò non appena M ne sfiorò la parete. Una doccia, anche se claustrofobica. Non c’era il lavandino e la scatola bianca, che si aprì anch’essa al tatto rivelando uno spazio vuoto, non lasciò dubbi sulla sua utilità.
«Dai, scendiamo», disse M. I due lasciarono l’apparecchio.
Fuori, gli altri si tenevano a distanza dal velivolo, come se temessero potesse esplodere. La spiaggia, in quella zona, era quasi deserta e nessuno aveva notato l’arrivo dell’idrovolante.
M chiuse il portello dall’esterno e quando vi si appoggiò l’aereo si mosse.
«È leggerissimo», disse, come se non credesse fosse possibile.
«Portiamolo là dentro», disse D, indicando una sorta di capanno abbandonato sulla spiaggia, a ridosso di una serie di dune su cui cresceva erbaccia rinsecchita dal sole.
I due presero a trascinarlo e gli amici preferirono borbottare fra loro e guardarli come fossero due pazzi e forse lo erano davvero, uno in costume da bagno e l’altro in tenuta da pilota, che spingevano un aereo verso un hangar fatto di legno e vimini.
Il capanno un tempo era servito per dare riparo ai frequentatori della spiaggia, era abbastanza largo e poterono spingerlo dentro muovendosi comodamente.
Ma accadde qualcosa di strano, quando si fermarono.
Il velivolo ruotò su stesso e si posizionò ancora una volta in direzione del mare.
I due si guardarono. «Ma come fa?», chiese M.
«Io entro», disse l’altro.
D aprì di nuovo il portello ed entrò nell’abitacolo. Alcune luci degli strumenti erano accese, anche se non poteva capire che cosa significassero.
Poi la portiera si chiuse e i motori si accesero. Sentì M bussare da fuori e chiedere che stesse facendo, ma lui non aveva fatto nulla.
Sedette al posto di guida e si ritrovò con una sorta di cintura di sicurezza avvolta attorno alla vita. Altre luci brillarono sui pannelli e un sibilo lontano si diffuse.
Poi il velivolo si mosse.
M continuava a colpire la fiancata dell’apparecchio, ma D non poteva far nulla, se non restare a guardare. Non sapeva come pilotare quel mezzo. Tanti anni prima, da ragazzo, aveva partecipato a un corso di cultura aeronautica e pilotato un SIAI S 208, ma era trascorso tanto tempo e non aveva comunque mai preso il brevetto di volo.
Davanti a lui vedeva la riva avvicinarsi e gli altri fare cenni con le mani. Sentì l’amico urlargli di essere pazzo, ma non era lui a far avanzare l’aereo e non poteva dirglielo.
Poi il velivolo entrò in acqua e prese velocità. D vide altri strumenti entrare in funzione, luci e brevi sibili che non identificò.
Fu spinto indietro e la vista si oscurò per qualche secondo. Quando le immagini tornarono era buio di fronte a lui.
Aveva abbandonato l’atmosfera.
Avvertì un vuoto allo stomaco e la mente gli si riempì di domande a cui non poté rispondere.
L’eccitazione del momento, della novità si unì all’enormità dell’evento e minacciò di fargli perdere la ragione.
Ma si sentì stranamente calmo.
Pian piano le pupille si socchiusero, i pensieri sbiadirono e una sensazione di rilassatezza emotiva e fisica lo avvolse.
Finché tutto attorno a lui si spense in un sonno senza immagini.
Oggi, data imprecisata
Quando ho riaperto gli occhi, la verità mi è stata mostrata dallo schermo che avevo davanti. Non potevo decifrare le scritte su quella sorta di mappa stellare, ma i pianeti che vedevo sì.
Erano quelli del mio sistema solare. E il puntino luminoso, color verde acceso, che si muoveva velocemente, era il velivolo su cui viaggiavo.
L’orbita di Plutone era dietro di me.
Non so dove stia andando e perché. Non so chi piloti quest’apparecchio e come e perché sia arrivato su quella spiaggia.
Non so che giorno sia. Il mio cellulare funziona, ma la data è rimasta fissa al giorno in cui ho lasciato i miei amici sulla riva del mare.
Forse non è trascorso del tempo, forse la forza ignota che guida questo velivolo può spostarsi a una velocità impensabile.
Non lo so.
So solo che sto volando verso una meta oscura e ignoro completamente ciò che potrò raccontare a questo diario e come evolverà la mia vita.
Se sarò ancora vivo al mio arrivo.
Romina
Io ho come l’impressione che tu sia D., vero? Eh, già… il titolo e il post in programma domani (mi pare) tradiscono un po’ la vicenda, o sbaglio? Bello però! Curioso e interessante, non vedo l’ora di scoprirne di più! Devo ricordarmi però che la curiosità spesso è pericolosa!
Daniele Imperi
Sì, il “D” sono io, ma non mi piaceva come suonava il nome nel racconto, così ho preferito lasciare le iniziali.
Chissà se uscirà mai un seguito
Come scrivere un racconto da un sogno
[…] racconto in questione è Il velivolo, apparso ieri nel […]
miro
Io sono un cultore della fantascienza e ho letto i tuoi due questo e lo straniero e mi sono piaciuti anche se molto corti ma tengono sospesi….bravo
Daniele Imperi
Ciao Miro, grazie per le letture e benvenuto nel blog
Francesco
L’introduzione come giornale di bordo è simpatica e ti invoglia a proseguire ma poi cominciano i problemi: non sai scrivere. Da un idea così ci devi tirare fuori 100 pagine almeno. Sviluppando i personaggi e descrivendo meglio i luoghi puoi dare al lettore la sensazione di essere lì e la possibilità di immedesimarsi. Poi trovo che ci sia poco studio della parte fantascientifica: “l’orbita di Plutone era dietro di me” “la forza ignota può spostarsi a velocita impensabile” sono cose che non hanno molto senso.
Daniele Imperi
Se dici a qualcuno che non sa scrivere, almeno non commettere errori grammaticali nel tuo commento. “Un idea” si scrive con l’apostrofo e “velocita” vuole l’accento.
100 pagine, dici? Non mi interessava tirarci fuori 100 pagine. Come ho scritto nel sottotitolo, è solo “Un racconto da un sogno”, in pratica quanto ho scritto proviene da un sogno che ho fatto.
Francesco
Gli errori li ho commessi perché sono dal cellulare, inoltre non ho mai detto di essere uno scrittore. La critica è costruttiva, se poi hai lasciato la sezione “commenti” solo per sentirti dire che sei bravo allora lascia perdere
Daniele Imperi
No, la sezione commenti non esiste per quello che dici. La critica non mi pare costruttiva, visto che è un racconto breve e preso da un sogno. In un racconto breve c’è poco da caratterizzare i personaggi.
Francesco
Ma sei liberissimo di fare quello che vuoi, solo che nel momento in cui pubblichi una cosa e dai la possibilità agli altri di commentarla dovresti poi accettare le eventuali critiche, anche se non le condividi.
Loris
La storia c’è. Scusa, ma la prosa lascia alquanto a desiderare. Personalmente ho apprezzato solamente la frase: “Finché tutto attorno a lui si spense in un sonno senza immagini”. C’è molto da lavorare.
Daniele Imperi
È pur sempre un racconto breve di 6 anni fa.