Una notte come un’altra

Una storia di indifferenza

«Da qui dovete andarvene.» L’uomo era apparso sulla soglia, ritagliando una sagoma d’ombra nell’ultima luce pomeridiana che filtrava dall’entrata. Kehinde lo guardò come se non avesse capito, portandosi d’istinto le mani sulla pancia. «Non me ne frega niente se aspetti un figlio», aggiunse l’uomo. «Tu e tuo marito dovete andarvene subito».

«Non è mio marito» disse Kehinde, scandendo alla perfezione quelle poche parole in italiano che conosceva.

Hamidi, invece, non aveva capito nulla. Guardava ora l’uomo ora la donna che gli aveva chiesto di accompagnarla, comprendendo che qualcosa stava per succedere, anche se non immaginava cosa fosse.

«Avete cinque minuti di tempo, poi devo far sgombrare il locale. La città è grande, troverete un alloggio da un’altra parte.»

Kehinde si alzò e disse qualcosa al compagno in swahili. Hamidi allora si voltò verso l’uomo e sputò in terra. Poi uscì dal locale assieme alla donna.

Fuori il cielo cominciava a scurire lentamente. Erano rimasti in quel locale per tre giorni, dormendo su cartoni buttati sul pavimento di cemento, con le sole cose che avevano addosso. Quell’uomo aveva acconsentito a farli dormire in quella specie di magazzino pieno di cianfrusaglie, umido e freddo, ma aveva voluto del denaro, in cambio. Kehinde non ne aveva, ma Hamidi aveva guadagnato cento euro lavorando qualche giorno in un cantiere. L’uomo si era preso quei soldi e adesso i due non avevano più nulla.

Le strade erano molto affollate quel giorno, come sempre durante la vigilia di Natale, ma l’uomo e la donna camminavano come se fossero invisibili. Nessuno badava a loro, nessuno li notava. Fra un palazzo e l’altro le luminarie formavano ponti di luce invalicabili. La gente era piena di pacchi regalo, parlava allegramente al cellulare, si caricava di cibo come se stesse per scoppiare una guerra.

Hamidi guardava e non comprendeva. Non mangiava dal giorno prima e non aveva più soldi per comprare cibo, non aveva più soldi per tornare al suo paese, non aveva più niente.

Venivano entrambi dall’Uganda, con la speranza di lasciarsi alle spalle un passato di povertà e morte. Ma quel viaggio, lungo e sofferto, li aveva lasciati in un paese lontano che non sembrava dar loro quel futuro che avevano desiderato.

Kehinde era in Italia da sei mesi, passati a vagabondare fra una città e l’altra, finché era giunta a Roma. Era partita che aspettava già il suo bambino, frutto di uno stupro avvenuto nel suo paese. Hamidi, invece, era arrivato da due settimane, ma non capiva quasi nulla di italiano. Al cantiere era riuscito a balbettare “lavoro” e aveva impastato calce per diversi giorni. L’avevano pagato pochissimo e quella misera paga era stata spesa quasi tutta per condividere un appartamento che puzzava di piscio e sudore con altri dieci immigrati, tutti africani.

«Possiamo provare alla Caritas, non è lontana», disse la donna in swahili. Hamidi non sapeva cosa fosse la Caritas, ma seguì la donna lungo il marciapiede fino a un semaforo. I due attesero il verde e attraversarono.

Raggiunsero via Marsala in circa dieci minuti, percorrendola fino a piazzale Sisto V. Oltrepassato l’arco cinquecentesco, videro una lunga fila di sbandati in attesa. C’era gente di diverse nazionalità, anche se Kehinde non avrebbe saputo dire quali. Riconobbe uno del proprio paese, però, che le sorrise timidamente. Un vecchio le si avvicinò e le disse che quella sera c’erano più persone del solito a chiedere un rifugio. Era italiano e in bocca non aveva più alcun dente. Portava un berretto di lana sulla testa e le profonde rughe sulla sua faccia scurita dal tempo raccontavano storie di sofferenza.

La donna preferì comunque provare, non aveva altre scelte, non quella sera, non quando il mondo intero pareva fermarsi per correr dietro a una festa commerciale e tutti erano presi da un senso di urgenza ed eccitazione.

Si misero in fila, dietro al mucchio scomposto di indigenti, quando due uomini si avvicinarono. «Non c’è posto», disse uno di loro. Dall’accento sembrava dell’Europa dell’Est. Hamidi non comprese ciò che disse l’uomo, ma capì che c’erano guai in vista.

«Vogliamo aspettare, se non c’è posto andiamo via», rispose Kehinde calma, sebbene quei due la spaventassero e il tono dell’uomo fosse stato fin troppo chiaro.

«Voi andate via adesso! Non c’è posto, ho detto!» L’uomo era alterato e il suo sguardo non faceva trasparire nulla di umano. Kehinde aveva sentito dire da alcuni suoi connazionali che non era facile trovare un ostello, che spesso qualcuno al di fuori decideva chi potesse entrare e chi no. Erano in tanti, troppi a richiedere un letto e qualcuno approfittava della sua forza per scavalcare i più deboli. Kehinde era incinta e molto probabilmente avrebbe avuto la precedenza.

Hamidi fece per intromettersi, in un incerto gesto di protezione, ma il clack di un coltello a scatto lo fece arretrare. Kehinde lo tenne fermo, afferrandogli un braccio. «Non è successo niente», disse. «Qui non c’è posto, andiamo via».

Nessuno li vide allontanarsi, all’infuori dei due che li avevano cacciati. La donna non sapeva dove andare. Si diresse a istinto verso via di Porta San Lorenzo, una zona sempre buia e isolata. Hamidi la seguiva in silenzio, voltandosi di quando in quando verso l’ostello e la massa di gente che aspettava. Non aveva digerito quella prepotenza.

Alla loro sinistra le mura romane si profilavano come mute testimoni d’un’era passata e di una grandezza ormai da tempo tramontata. Kehinde non sapeva nulla di quella storia, anche se qualcuno le aveva raccontato che le mura appartenevano a un impero lontanissimo nel tempo. In realtà la donna non conosceva bene neanche la storia del suo paese. Hamidi, invece, sembrava non aver notato l’imponenza di quelle mura. Altri pensieri si contendevano la sua attenzione in un silenzioso conflitto.

Giunti alla fine della strada, Kehinde decise di passare al di là delle mura. Le sembrava che ci fosse più vita da quella parte. Non sapeva di essere appena uscita dall’Antica Roma. Costeggiò ancora le mura romane, finché si ritrovò alla sua destra un tunnel. Là il traffico era di nuovo intenso. Entrarono nel tunnel e sopra le loro teste sentirono lo sferragliare di un treno in arrivo alla Stazione Termini.

Sbucarono a Porta Maggiore, la grande piazza sempre intasata dalle auto. «Dove andiamo, adesso?», le chiese Hamidi in swahili. Kehinde non sapeva rispondergli. Sentiva suo figlio scalpitare dentro di lei, sentiva la sua nascita sempre più vicina. Le lacrime cominciarono a uscire, liberatorie.

Una donna passò loro vicino. Aveva due buste piene di pacchetti natalizi. Guardò la pancia di Kehinde e vide le lacrime scorrere senza tregua sul suo viso. Lo squillo di un cellulare distolse quasi subito la sua attenzione e la donna rispose, allontanandosi in fretta.

Poco più avanti i due incontrarono una coppia. Kehinde si fece coraggio e li fermò. Ma quelli la liquidarono con un cenno del capo, senza darle tempo di parlare. Erano abituati a gente che chiedeva l’elemosina, Roma ne era piena.

«Dove andiamo?», insisté Hamidi.

«Non lo so», rispose in un soffio la donna. Poi un dolore intenso la fece piegare in due. Hamidi la sorresse, guardandosi attorno in cerca di aiuto. Un ragazzo passò, buttò uno sguardo fugace a quella coppia di sbandati e proseguì.

Tutto il paese era in frenesia per quella notte magica. Quel giorno ci si dimenticava di tutto, non si pensava al lavoro, ai problemi. Quel giorno era dedicato a mangiare e star bene cogli altri. Era dedicato alle spese e alle decorazioni. Tutta la realtà quotidiana veniva mascherata, nascosta dietro carta colorata e fiocchi rossi, dietro nastri e illuminazioni.

Kehinde si riprese e volle proseguire. Ricordava che più avanti c’era un posto in cui avrebbero potuto passare la notte. Attraversarono la piazza e sbucarono a piazzale Labicano. Al semaforo proseguirono per via Casilina fino a via Casilina vecchia, percorrendola tutta fino a via del Mandrione. Camminarono lentamente per oltre un’ora, ma là, lungo altre mura antiche e sotto archi bui e deserti, trovarono finalmente un rifugio.

La via era isolata. Alcuni archi erano chiusi da una parete, ma la maggior parte rappresentava soltanto una sorta di passaggio oltre il muro. Uno o due archi erano già occupati, anche se dentro non c’era nessuno. Cartoni, buste e recipienti di plastica erano ammassati alla rinfusa. Ma più avanti Kehinde ne trovò uno vuoto, entrò e si lasciò cadere a terra.

Era stremata. «Sta per nascere, Hamidi», disse con un filo di voce. L’uomo era terrorizzato, voleva chiamare aiuto, ma la donna disse di non preoccuparsi, che non era il suo primo parto, anche se aveva perso il bambino.

Hamidi allora uscì e andò a prendere dei cartoni nell’arco che avevano superato. Li adagiò a terra e ne fece un rozzo giaciglio per la donna. Trovò anche dell’acqua, dentro una bottiglia di plastica, e la prese.

Poi Kehinde urlò. «Hamidi!» Le contrazioni erano più forti adesso. La donna si tirò su il vestito e guardò l’uomo. «Devi aiutarmi, Hamidi». L’uomo fece cenno di sì col capo, ma nel suo viso si leggeva la paura. Non aveva mai visto partorire.

Fuori, una macchina passò, rompendo il silenzio e illuminando per qualche secondo l’arco sotto cui una nuova vita stava per nascere. C’era gente che rideva, dentro, diretta a casa, a cenare e scartare regali. Gente che ignorava l’esisteva di una Kehinde che metteva al mondo un figlio non voluto e di un Hamidi che in quel momento desiderava le strade polverose e assolate del suo paese.

Era freddo e aveva cominciato a nevicare. Era raro che nevicasse a Roma, ma i meteorologi l’avevano previsto e tutti se l’aspettavano. Piccoli batuffoli di morbido ghiaccio si adagiarono a terra, sciogliendosi dapprima, poi resistendo e coprendo d’un leggero velo bianco le strade e le case.

Qualcuno fece esplodere un petardo, anticipando, come sempre, l’ultima notte dell’anno e quel rumore coprì le urla della donna che partoriva. Nessuno sentì nulla, nessuno vide Hamidi che usciva sotto la neve e vomitava.

Quando rientrò, pulendosi la bocca sulla manica, vide che la donna piangeva. Stringeva a sé un bambino che non strillava, che non si sarebbe mai attaccato al suo seno. Era come una bambola di pezza, immobile e leggera. Hamidi si sedette in terra. Non sapeva cosa dire, cosa fare, se non abbracciare la donna in quel silenzio buio e freddo.

Kehinde guardò fuori. La notte era ormai scesa e la neve non era cessata. Presto tutto sarebbe diventato bianco e la gente sarebbe stata ancor più felice.

Le lacrime vennero giù più abbondanti, silenziose come quella neve che stava ricoprendo tutto. E alla stessa maniera avrebbero ricoperto il suo dolore. Si rannicchiò ancor di più su se stessa, cullando il corpo senza vita del suo bambino. Poi chiuse gli occhi, desiderando che fosse già domani.

5 Commenti

  1. Michela
    mercoledì, 5 Gennaio 2011 alle 10:57 Rispondi

    Daniele, stavolta hai fatto un salto di qualità.

  2. Daniele Imperi
    mercoledì, 5 Gennaio 2011 alle 11:01 Rispondi

    Beh, grazie mille :)

  3. Il meglio di Penna Blu – Gennaio 2010
    martedì, 1 Febbraio 2011 alle 5:37 Rispondi

    […] Continua a leggere il racconto Una notte come un’altra – Una storia di indifferenza. […]

  4. Orsa
    sabato, 4 Dicembre 2021 alle 22:03 Rispondi

    Un racconto che ha una carica di umanità talmente potente da essere quasi violenta. E la rassegnazione della protagonista: così semplice, naturale, spontanea. Le hai regalato la dignità di una regina… una dignità che difficilmente sarebbe stata bene addosso a una donna bianca.
    Quarto racconto dell’avvento.

    • Daniele Imperi
      domenica, 5 Dicembre 2021 alle 9:51 Rispondi

      Grazie :)

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