Apocalypsis O.T.

Un racconto apocalittico

Apocalypsis

Premessa

Questo racconto è duplice, perché è la stessa storia vissuta da un uomo e poi da una donna: ultimi sopravvissuti di un mondo giunto alla fine, reagiscono in maniera differente all’apocalisse dell’umanità. Due personaggi, dunque, inseriti prima uno e poi l’altra nella stessa scena.

  • Che cosa farà l’uomo di fronte all’inevitabilità del disastro? Come affronterà la condizione di ultimo rappresentante della specie umana?
  • Come si comporterà, invece, la donna al cospetto della solitudine e delle privazioni? Come deciderà di agire in un ambiente che non offre più speranze?

Il titolo richiama il capolavoro di Guido Morselli, Dissipatio H.G. (dove H.G. sta per Humani Generis). Nel mio caso O.T. sta per Orbis Terrarum.

Apocalypsis O.T. #1

Stanco, sedette sul pavimento lurido, le mani fra i capelli aggrovigliati e sporchi. Pianse in silenzio. Si strofinò il viso, asciugandosi le lacrime, e alzò lo sguardo sulla stanza. Mobili distrutti, stoviglie in frantumi e resti della sua vita giacevano in terra, muti testimoni d’una rabbia inconscia.

Non aveva più provviste.

Era convinto che ci fosse ancora della carne in scatola da qualche parte, o l’aveva mangiata giorni addietro? Perché non si era posto prima il problema dei rifornimenti? Perché aveva preferito consumare la benzina delle due uniche vetture di cui disponeva per scorrazzare senza motivo, anziché andare in cerca di qualcosa di utile? Perché non aveva fatto un piano di approvvigionamento?

Domande. E nessuna risposta.

Rise senza motivo. Si grattò la barba ormai lunga, un cespuglio di peli su cui s’erano annidati i pidocchi. Sotto ai vestiti a brandelli, dal colore ormai irriconoscibile, zecche e pulci lo martoriavano da mesi. Da quando aveva smesso di lavarsi.

Si alzò. Trascinò i piedi fino alla porta, l’aprì e diede uno sguardo al mondo al di là.

Una landa polverosa e torturata dalla catastrofe ambientale. Relitti di macchine e ruderi di costruzioni e pietre e tronchi anneriti e morti di alberi. Ciarpame, paccottiglia, mondezza di ogni genere. Da spaccature nella terra proveniva ancora del fumo, ultimo alito del mondo. Avvertiva il tanfo di carne in putrefazione, ma non seppe dire se di animali o di qualche altro essere umano.

C’erano ancora uomini, là attorno? Non ricordava più quando aveva visto l’ultimo, un vecchio malato che gli aveva chiesto aiuto e che lui aveva cacciato a sassate. Non s’era più fatto vedere, pensò. Meglio così.

Sputò sulla polvere e bestemmiò. Uscì all’aria aperta, ammorbata dallo schifo che marciva sotto un sole diafano e un cielo grigio e ferito. Urinò a pochi metri da casa, schizzandosi su pantaloni e scarpe.

«Merda», disse.

Rientrò.

 

Accadde mentre dormiva.

La prima cosa che avvertì fu il cattivo sapore in bocca. Si alzò a fatica, febbricitante, e uscì a urinare. Un puzzo micidiale si levò dal liquido denso e scuro che impregnò il terreno. Tornò dentro.

Poi arrivarono i dolori.

Urlò la sua maledizione al mondo che finiva, mentre rigettava catarro e si dimenava sul pavimento come in preda a convulsioni spasmodiche.

Svenne.

 

Aprì gli occhi su tenebre liquide. Sbatté le palpebre, lacrimò e avvertì un dolore omogeneo sparso in ogni muscolo, articolazione, organo. Sputò il respiro come fosse veleno, ansimando nella sua allucinazione. Si alzò da terra, ricadde. Strisciò verso la porta, tirandosi su prima seduto, poi in piedi. Vomitò un urlo soffocato che gli raschiò la gola, bruciante come pelle lacerata.

Spalancò la porta, affacciandosi sull’apocalisse dell’esistenza. Nubi color ghisa si arruffavano in un cielo spento e freddo. Il vento sollevava la polvere di oggetti e vite consumate. Un sibilo lontano.

In terra riconobbe i resti di ciò che aveva provato a mangiare. Cartone. Radici secche. Un tessuto. Ricordò la disperazione e la follia di giorni precedenti. I pianti isterici e le risate senza senso.

E la fame.

 

Giorni vuoti come il suo stomaco, ore ferme, bloccate dal tempo. E la fine che non giungeva, in quel limbo opalescente in cui galleggiava né desto né sopito, in uno stato semi-ipnotico fra sonno e veglia, la coscienza che andava e veniva come luci elettriche in una tempesta.

«Dio», disse in un momento di effimera lucidità.

Rifluì nel suo coma, semimorte di collassi mentali.

 

Aprì gli occhi e si meravigliò d’essere vivo. Avvertì fitte allo stomaco, la testa che sembrava esplodergli, come se all’interno un tumore in espansione gli schiantasse la massa cerebrale.

Non riuscì a coordinare pensieri, movimenti. Socchiuse le labbra in un ansimare muto, la lingua secca, gonfia, immobile.

Puzzava. Sentì la zaffata aggredirgli le narici, impregnando le mucose nasali senza scampo. Gli occhi raggiungevano la realtà attraverso una pellicola lattiginosa, le immagini come caotiche strutture unidimensionali senza apparente definizione.

Scivolò in un abisso di tormenti, prostrato come un dalit a cui non resti altro che la propria mortalità.

 

Riemerse dal delirio in uno stato di frammentazione intellettiva. Fallì nel tentativo di stabilire una connessione fra la realtà e gli incubi che lo stavano spezzando. Spalancò gli occhi in un’ebbrezza onirica al di là delle sue capacità di resistenza, il pensiero che si coagulava nell’ultimo, razionale istante.

In quella fotografica consapevolezza ricostituì tutta la sua percezione del mondo materiale. Comprese, con una lancinante scossa al substrato emotivo che declinava, il suo stato di miserabile, inevitabile emarginazione.

In un lampo di cognizione alternata colse l’opportunità dell’ultima scelta.

 

Osservò la sottile linea rossa ispessirsi parallela sul braccio nudo, il sangue scendere lento come una colata lavica sull’impiantito. Si concentrò ed eseguì lo stesso taglio sull’altro polso, affondando la lama nella pelle, aprendo carne, vene. Lasciò la presa e il coltello cadde risuonando nel silenzio della stanza. Si abbandonò al tepore che sopravvenne, sprofondando in un sonno quieto, quasi ristoratore dopo le afflizioni dei giorni addietro. Ebbe un ultimo sorriso, nel suo volto straziato dall’inedia e dall’alienazione.

Poi morì, sognando il domani che non avrebbe mai veduto.

Apocalypsis O.T. #2

Si svegliò presto quella mattina, uscì e raggiunse la latrina: la cabina di un autoarticolato, vuota, senza più sedili né cruscotto. Un guscio che circondava un pozzo per accogliere escrementi, una pala accanto per ricoprire tutto di terraccia e calcinacci.

Terminati i suoi bisogni, rientrò in casa, riempì il grosso bacile di acqua piovana raccolta, l’allungò con dell’altra acqua scaldata sulla stufa e fece un bagno. Si sentì rilassata, appagata nonostante il mondo che finiva i suoi giorni in un inconsueto anonimato.

Ma era davvero alla fine, il mondo?, si chiese. Se realmente era lei l’ultima sopravvissuta del genere umano, la terra avrebbe continuato a girare, il cielo a riempirsi di nubi, la pioggia a cadere, le piante a crescere, svilupparsi, conquistare metro dopo metro sempre più terreno, la vita animale, la vita nascosta dietro chitinosi carapaci e sottili zampe, a prevalere, imporsi. Riprodursi.

Rise fra sé, immaginando un mondo popolato da insetti umanoidi dotati di intelligenza. Una specie nuova che avrebbe inventato pesticidi contro una rinascente razza umana fastidiosa e parassita.

Finì di insaponarsi, si sciacquò, uscì dall’acqua, rabbrividendo, e si infilò l’accappatoio. Si vestì nella stanza che aveva adibito a camera, divisa dagli altri ambienti da una tenda. Poi andò in quella che chiamava cambusa e prese del pane, formaggio e pesce affumicato.

Consumò la colazione seduta al tavolo, i pensieri lasciati liberi.

Quando si alzò, decise di fare una passeggiata fuori, nonostante il cielo color cemento, denso come nebbia. Aprì la porta. Al di là, oltre le case crollate, la strada aperta come una ferita, i mucchi di rottami ormai arrugginiti, si estendeva la desolazione. Il silenzio di una terra che non aveva più nulla da dire.

Uscì. Fece il giro della costruzione, controllò il piccolo orto ricavato in un pezzo di terreno sottratto al disfacimento e passò accanto alla tomba senza nome. Quando il ragazzo s’era avvicinato, ricordò, l’aveva visto piangere: la visione dell’angoscia e della miseria che scavavano solchi nella ragione e nelle difese umane, strappando l’orgoglio e mettendo in ginocchio la forza. La donna l’aveva chiamato, accolto in casa. Aveva mostrato lui dove lavarsi e l’aveva sfamato. Ma non aveva potuto fare nulla per quel male che gli arrossava il fazzoletto ogni volta che tossiva. Dopo neanche un mese se n’era andato via, senza un nome che l’accompagnasse oltre il confine.

 

Si dedicò alle pulizie della stanza. Riordinò qualcosa, lesse alcune pagine di uno dei libri che col tempo era riuscita ad accumulare in una disomogenea biblioteca. Poi prese in mano il foglio bianco.

E cominciò a scrivere.

 

Non aveva mai tenuto un diario prima d’ora. Non sapeva dove l’avrebbe condotta, ma in un certo senso era convinta che scrivere avrebbe riempito quelle giornate vuote e uguali una all’altra, come un’infinita ripetizione attivatasi per un disguido nei meccanismi del tempo.

Iniziò dal principio.

Quando il mondo cominciò a degradare in un precipitoso susseguirsi di eventi distruttivi. A quel processo, irreversibile e ineluttabile, fu dato il nome assoluto di Cataclisma.

 

«Che cos’è il Cataclisma, mamma?», chiese la bambina.

L’auto procedeva sulla consolare dissestata, evitando buche, fenditure, pietre sparse. La donna cercò di ricordare gli ultimi avvenimenti, per trovare una spiegazione plausibile, semplice, per la figlia. Buttò uno sguardo alla coltre gialla sopra di loro. Era partito tutto da lassù.

 

Il cielo divenne di un colore itterico, denso, ma non di nubi. C’era qualcosa negli strati più bassi dell’atmosfera che gravava sul pianeta, qualcosa di venefico, ammorbante, corrosivo. La troposfera mutò in una mescolanza ibrida di sostanze contaminanti.

Poi giunsero le piogge.

Non piovve acqua. Dal cielo sempre più livido cadde qualcosa di mai visto prima. Un fenomeno meteorologico inspiegabile, una sorta di acqua mucoide che precipitava a velocità spaventosa sulla terra, aderendo a cemento, asfalto, ferro, legno, pelle. Nulla fu risparmiato. Non esistevano più ripari sicuri, poiché la sostanza consumava tutto.

Nel giro di pochi giorni l’intera umanità fu dilaniata. Le città sciolte e crollate, implose su se stesse. Le foreste ridotte ad ammassi organici fumanti. Vetture, aeroplani, navi trasformati in relitti deformi. Le strade fratturate, aperte in profondità.

Quando l’aspetto del mondo fu alterato in modo definitivo e la specie umana resa uno sparuto gruppo di anime mute, scioccate, erranti senza una meta, qualcuno pensò che il Giudizio fosse finito.

Fu allora che le piogge ricominciarono.

 

Non vide più sua figlia. Dissolta dal male che cadeva dal cielo. Senza un urlo, forse senza dolore, si augurò. La teneva per mano, sfuggivano alla pioggia letale e gelatinosa che veniva giù a decimare ancora, a terminare il lavoro già iniziato.

Quando si voltò, appena dentro un androne, lei non era più.

Vide solo un cumulo di sostanza molle e priva di colore, che mutava la sua chimica rispondendo a un ordine impartito da una genesi sconosciuta. Provò ad avvicinarsi a quella cosa che celava la sua bambina, ma si ritirò indietro appena in tempo.

Non ebbe lacrime per piangere. Né voce per urlare la sua disperazione né tempo. Doveva andare.

Presto anche quel riparo si sarebbe consumato.

 

Staccò la penna dal foglio e rilesse quanto aveva scritto. I ricordi riaffiorati dalla memoria la scossero, riportandola indietro nel dolore e nell’angoscia. Dominò le lacrime e si costrinse a continuare a scrivere. Decise, in quell’attimo, di riportare in vita la Storia, anche se quella sua personale. Non poteva permettere che quel mondo in decomposizione minasse la sua volontà, devastandole l’anima e demolendole la ragione.

Non sapeva se ci sarebbe stata speranza per una rinascita e in quel momento non le importava. Ricordò la celebre frase finale di un vecchissimo film, pronunciata dalla protagonista: Dopotutto, domani è un altro giorno!

Sì, pensò la donna. Si trovava d’accordo con quella frase. Le dava, in un certo senso, forza.

Inaspettatamente seppe che cosa le avrebbe riservato il futuro. E sorrise.

Domani sarebbe stato un altro giorno.

8 Commenti

  1. Romina Tamerici
    domenica, 30 Dicembre 2012 alle 14:12 Rispondi

    Molto bello e commuovente. Mi è piaciuto il tuo andare un po’ contro gli stereotipi che in genere vedono l’uomo capace di cavarsela e le donne più in preda al panico.

    La forza di lei è quasi disumana nel reagire alla morte della figlia e nel trovare il coraggio di raccontare.

    Lui invece si è arreso molto prima della fine (quando ha iniziato a trascurarsi), ma del resto è difficile muovergli critica. Certo, suicidarsi tagliandosi i polsi è uno dei metodi meno furbi e più lenti (ledere la carotide o la femorale gli avrebbe reso più facile il trapasso), ma in momenti del genere non si può essere troppo lucidi.

    Una storia molto umana, da tutte e due le parti: la rassegnazione contro il bisogno di lasciare memoria.

    Ops… il commento è più lungo del racconto, scusa.

    • Daniele Imperi
      domenica, 30 Dicembre 2012 alle 14:27 Rispondi

      Grazie :)
      Hai trovato aspetti che non avevo considerato.
      Beh, tagliarsi i polsi credo sia meno cruento e doloroso del taglio alla carotide :D

  2. Cristiana Tumedei
    domenica, 30 Dicembre 2012 alle 15:38 Rispondi

    L’idea di presentare due individui di sesso diverso e le loro reazioni di fronte all’ignoto è davvero interessante. Soprattutto da un punto di vista antropologico.
    Il fatto che la donna decida di tenere memoria di quanto accaduto attraverso la scrittura è piuttosto significativo.
    Anche la reazione dell’uomo non è così banale e scontata.
    Un buon racconto, bravo! :)

    • Daniele Imperi
      domenica, 30 Dicembre 2012 alle 15:58 Rispondi

      Grazie :)
      È bello vedere come ognuna trova elementi che io neanche ho considerato :D

  3. Lucia Donati
    domenica, 30 Dicembre 2012 alle 16:37 Rispondi

    Io trovo che i due racconti siano intercambiabili. Ben narrato, comunque!

  4. Salomon Xeno
    martedì, 1 Gennaio 2013 alle 22:53 Rispondi

    Mi è piaciuta molto la diversità tra i due individui. Sono entrambi molto realistici – due tipi umani diversi fra loro. Ed è un bene che non si siano incontrati, forse.

    • Daniele Imperi
      mercoledì, 2 Gennaio 2013 alle 8:29 Rispondi

      Grazie :)
      Beh, sarebbe stato bello vedere cosa sarebbe successo se si fossero incontrati.

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