La donna col bambino giunse sul fare dell’inverno, quando il vento spazzava via dagli alberi le ultime foglie autunnali e il freddo e l’umidità si attaccavano addosso mordendo la carne come cani affamati. Arrivò strascicando i piedi infilati in pantofole consunte, vestita con una lunga gonna e una giacca da uomo impolverata e scolorita. Teneva il bimbo stretto al seno, avvolto in un panno di lana, come per esser pronta ad allattarlo in ogni momento, un piccolo fagotto che a tratti piangeva ricordando al mondo la sua presenza.
«Cerco mio marito», disse entrando nel negozio. Non badò agli scaffali pieni di cibo in scatola e alle ceste di pane appena sfornato e l’uomo dietro al banco si chiese se quella madre emaciata appena apparsa fosse reale. «Lo ha visto?»
«No, non ho visto forestieri in paese», rispose l’uomo. «A parte i giostrai, ma sono andati via due giorni fa».
«Due giorni», ripeté e restò a fissare l’altro come aspettandosi che parlasse ancora.
«Ha fame?»
«No, cerco mio marito». Sorrise. «Grazie, forse era coi giostrai, ci ha lavorato tanti mesi fa. Sa dove sono andati?»
«Li ho visti prendere la provinciale. È la strada che esce dal paese».
«Grazie. Grazie davvero».
«Non vuole qualcosa da mangiare?», chiese, ma la donna non lo sentì, era già in strada, diretta chissà dove, a passo svelto sotto le prime gocce di pioggia che cadevano disordinatamente.
Strinse a sé il bimbo, sussurrandogli qualcosa che forse neanche lei stessa udì. Gli baciò la testina senza capelli e s’incamminò sulla lunga strada, seguendo le tracce di una carovana di gente mai vista, ancorandosi alla fievole speranza di trovarvi l’uomo che diceva essere suo marito.
Si lasciò alle spalle le ultime case quando la pioggia divenne un acquazzone e i capelli della donna si fecero una massa compatta di acqua e sudiciume, appiccicandosi sul capo come una calzamaglia. Il piccolo cominciò a piangere, perché il panno si era inzuppato, e non servì a nulla che la donna lo tenne sotto la giacca, che era di lana anch’essa e si imbevette presto.
Un’ora dopo vide le orme dei carri, solchi scavati sulla strada sterrata che parevano canali d’irrigazione. Il temporale non era cessato, ma adesso si era trasformato in un velo liquido continuo e il vapore aveva cominciato a salire dalla terra in forma di nebbia, alito di un mondo morente e umido che non si decideva a soccombere.
La donna sedette sul ciglio della strada, stanca e bagnata fino alle ossa. Cullò il bambino, cantandogli con voce sommessa una ninna nanna, attendendo che si calmasse, che si addormentasse sotto la pioggia. I solchi si allargarono e infine divennero un’unica, lunga pozzanghera su cui l’acqua martellava imperterrita.
Era il tramonto quando la donna si alzò. Le nubi avevano cessato di rovesciare la loro disperazione sulla terra e lei, infreddolita e tremante, si avviò. Il bambino non piangeva più e la madre fu grata di quel silenzio. Sul fango della strada si udiva solo lo scalpiccio dei suoi passi incerti.
Avanzò ancora per un’ora o due, poi si fermò. L’aria si era fatta pungente e i vestiti le aderivano al corpo in un abbraccio umido e gelido. Scosse il figlio e se l’attaccò al seno, non curandosi del freddo sulla pelle nuda. «Su, mangia», disse, aprendo la bocca del piccolo e poggiandola sul capezzolo, ma non lo sentì succhiare né avvertì il calore del suo respiro sulla mammella. Lo vide immobile, gli occhietti chiusi, un altro corpo innocente che s’era arreso alle vicissitudini della vita e era entrato a far parte della schiera dei ricordi.
Allora la donna si allontanò dalla strada e sedette a ridosso di un albero. «Aspettiamo che faccia giorno», gli disse sottovoce, come se temesse di svegliare quel suo sonno senza fine. «Qualcuno passerà e magari ci porterà in paese».
Quando scese la notte, la donna era ancora lì, seduta in terra a cullare il bimbo, sussurrando cose che nessuno avrebbe potuto udire.
Il vento riprese a soffiare e scacciò via le ultime nubi, rivelando miriadi di puntini luminosi che ammiccavano come occhi remoti e indifferenti, mentre la luna invernale se ne stava poggiata sul cielo notturno come un bottone dimenticato su un pezzo di stoffa.
Romina
Avevi ragione: questo fa ancora più piangere del racconto di settimana scorsa! Adesso non puoi farmi piangere tutte le domeniche!
Comunque hai usato delle espressioni bellissime, come “il freddo e l’umidità si attaccavano addosso mordendo la carne come cani affamati” e “le nubi avevano cessato di rovesciare la loro disperazione sulla terra”, solo per citarne due. Molto poetico e toccante. Davvero un ottimo lavoro! Le prime righe ricordano un po’ “La strada”, ma poi tutto prende un’altra piega. Si tratta sempre di un mondo in declino, ma è “solo” il mondo di questa donna, in questo caso la disperazione è personale, non del tutto condivisibile con gli altri.
Ora mi fermo, altrimenti il mio commento diventa più lungo del racconto!
Daniele Imperi
Grazie
Questi racconti sono un esercizio di stile e di scrittura, esperimenti, prove…