Morte del padre

Un racconto drammatico

Aveva salutato il padre in ospedale, la sera prima, e l’indomani gliel’avevano fatto ritrovare in corridoio coperto da un lenzuolo.

Al telefono gli avevano mentito, dicendo che s’era aggravato, ma forse faceva parte dell’iter burocratico ospedaliero.

Era uscito di casa con la testa piena di pensieri e domande in subbuglio. E adesso entrò nel reparto come un condannato che percorra gli ultimi passi prima di presentarsi al boia. La sua mente era vuota.

Si avvicinò adagio alla barella, come se avesse paura di disturbare quel sonno senza risveglio. «Mi dispiace», disse l’infermiera, ma neanche la sentì.

Scostò il lenzuolo. Il volto era sereno, non più sofferente. Accarezzò una guancia e, una a una, chiuse le palpebre rimaste semiaperte.

Ricordò quando il padre smaniava, infastidito dal respiratore infilato in bocca. Gesticolava come per cercare aiuto. «Ti chiamo l’infermiera?», gli aveva chiesto. Il padre aveva annuito e lui era andato a chiamare la donna. Forse era una dottoressa. Arrivò subito, carezzò la testa di suo padre e gli parlò dolcemente. Poi gli tolse il respiratore, ma non la maschera per l’ossigeno.

Accanto al letto c’era un monitor che mostrava l’attività cardiaca, cifre e termini che lampeggiavano e che lui non capiva. Vedeva solo tutta quella serie di allarmi rossi e quei suoni che gli dicevano che non andava per niente bene.

Adesso quel monitor avrebbe controllato la vita di qualcun altro, dentro la sala di terapia intensiva. A suo padre non serviva più.

Dopo alcuni minuti coprì di nuovo il viso col lenzuolo e uscì. Attendeva il medico di turno per chiedere informazioni sul certificato di morte. Si appoggiò al muro, nello stesso punto in cui, qualche minuto prima, il medico smontante lo vide e gli si avvicinò. Non aveva il camice, gli sorrise e gli disse che fra poco avrebbe potuto vedere suo padre, che lo stavano assistendo. In realtà suo padre era già morto da un quarto d’ora. Glielo comunicò un altro medico, pochi minuti dopo, che aveva preso servizio quella mattina. La notizia lo lasciò come un ebete. «L’altro dottore ha detto che lo stavano accudendo», disse, come per far capire all’altro che s’era sbagliato.

«Certo, abbiamo cercato di rianimarlo», gli disse il medico, ma non aveva risposto alla sua domanda sottintesa. Fra cani non si mordono, pensò.

Arrivarono due portantini con un carrello porta salme. Entrarono nel reparto e ne uscirono poco dopo, parlando come se nulla fosse, come se non sapessero che là dentro c’era un uomo, anche se non respirava, anche se il suo cuore non batteva più come prima. Li vide allontanarsi, infilarsi nell’ascensore e sparire assieme a suo padre, chiuso in quel carrello come un rifiuto da buttare.

Sapeva che l’avrebbero portato nella camera mortuaria, dove l’avrebbe rivisto per l’ultima volta, non più nudo sotto un lenzuolo ma ben vestito, come per recarsi da qualche parte. Dove non si torna più.

E allora arrivò il vuoto, quello che ti prende, che ti fa credere che ormai non ha più senso nulla, che il mondo può pure esplodere da un momento all’altro e per te non cambia niente. Trattenne le lacrime perché non amava esternare i suoi sentimenti, le angosce che gli mordevano lo stomaco, e se ne tornò a casa.

Adesso era vuota, non c’era più suo padre, che camminava strascicando i piedi, si sedeva sulla poltrona e si abbandonava a un sonno senza immagini. Adesso c’era l’attesa del funerale, dei parenti che sarebbero venuti in visita, che avrebbero chiesto, incuranti del dolore che avevano di fronte.

Non era pronto per quel momento, non lo era mai stato, ma forse nessuno è pronto per la morte di qualcun altro. Forse la morte è una specie di prova a cui ci si deve sottoporre per valutare le proprie forze, la propria resistenza.

Lui era forte, come pochi. Nessuno gli aveva mai letto nulla in quegli occhi, in quello sguardo sempre rabbuiato.

Avrebbe atteso il funerale, per lasciarsi alle spalle le occhiate e le voci della gente. Le strette di mano e i baci. Le lacrime e gli abbracci e le solite frasi idiote che si dicono alla dipartita di qualcuno.

Poi sarebbe stato finalmente solo, con se stesso e i suoi ricordi. E nella sua testa non ci sarebbe stato posto per altro.

4 Commenti

  1. luigi leonardi
    domenica, 22 Gennaio 2012 alle 12:37 Rispondi

    Ho rivissuto la morte di mio padre di 25 anni fa.
    Morì a casa. In ospedale l’indifferenza di medici e infermieri era di routine, insieme a un’indolenza disarmante.
    In certi momenti capisci la vita: ti rendi conto che “omnia vanitas”.
    E, non per contraddire De Andre’, quando muori non sempre muori solo. A volte muore un po’ anche chi ti ama.
    Ciao Daniele.

  2. Daniele Imperi
    domenica, 22 Gennaio 2012 alle 12:43 Rispondi

    Hai ragione, Luigi.

  3. Lucia Donati
    sabato, 5 Maggio 2012 alle 16:26 Rispondi

    Dolce, crudo, commovente. Vero. Complimenti.

  4. Daniele Imperi
    sabato, 5 Maggio 2012 alle 18:57 Rispondi

    @Lucia: grazie.

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