La vendetta

Un racconto horror

Vendetta

Cap. I – Il cadavere di Giacomo Arrighi

Nel piccolo centro di Montebrugo, il 2 ottobre 1966 accadde un evento increscioso che sconvolse le menti illuminate di gran parte dei cittadini. Si trattò di un misterioso omicidio a scopo di vendetta e a questa tesi si arrivò dopo aver abbandonato le consuete vie della logica ed essersi incamminati nelle buie strade del soprannaturale. Mai, prima di quella spensierata mattina di primavera, la cittadina era stata teatro di una morte e una perversione così indicibili.

L’orrore colpì una vecchia villa che sorgeva alla periferia dell’abitato, ai piedi di Colle Secco, la collina che a dispetto del nome verdeggiava beata nella magia della nuova stagione. Là vi abitava Giacomo Arrighi, direttore della prestigiosa Banca di Montebrugo, e là, nel profondo silenzio della tarda sera del 2 ottobre, Giacomo Arrighi finiva i suoi giorni nella più spaventosa delle morti. Aveva tutta l’aria del classico e impossibile delitto perfetto, sinistra opera della più fervida mente criminale o dell’esperto sincronismo d’uno sconosciuto maniaco.

Era domenica e i domestici non erano in casa. L’uomo viveva solo da una decina d’anni, quando una terribile febbre mortale gli aveva portato via la giovane moglie. Non aveva figli né parenti. La casa era immersa in un boschetto e quasi interamente coperta alla vista dalle fronde di alberi secolari. Un tortuoso viale portava alla strada principale. Villa Viviana, così chiamata dal nome della donna scomparsa, era una costruzione completamente e maledettamente isolata dal resto del mondo. Le urla più terrificanti e i più assordanti rumori non sarebbero mai stati uditi da alcuno. Là, nella calma di una sera qualunque, Giacomo Arrighi era stato vittima d’una furia omicida.

Il corpo del disgraziato fu scoperto dalla signora Bartozzi, la mattina di lunedì 3 ottobre, verso le otto, quando aveva preso servizio a Villa Viviana. Dopo il consueto urlo di terrore e lo svenimento come da copione, la signora fu soccorsa da Giorgio, il maggiordomo giunto subito dopo di lei, che la portò immediatamente in ospedale. L’uomo avvertì poi le autorità, che in breve raggiunsero l’abitazione. Il caso fu affidato all’ispettore Clivetti.

Il cadavere giaceva supino sul pavimento della sala principale, con braccia e gambe divaricate. La testa, separata dal corpo e in una pozza di sangue, dettaglio che non sfuggì all’arguto ispettore, era invece sulla scrivania, gli occhi e la bocca immortalati in una mostruosa smorfia d’ineffabile spavento.

Non si vedevano segni di lotta né serrature forzate. L’ispettore, dopo aver sommariamente ispezionato la villa, si rivolse al maggiordomo per un primo, veloce interrogatorio. Era proprio sicuro di non aver sentito nulla la sera prima? Era domenica e, come da accordi, sia lui che la signora Bartozzi avevano il giorno libero. E che cosa ci facevano, allora, a casa del signor Arrighi quella mattina? Proseguì sempre più sospettoso l’ispettore. Era lunedì e, come da accordi, sia lui che la signora Bartozzi avevano preso servizio alla villa. L’ispettore accettò quell’alibi, riservandosi di interrogare i due più avanti. La casa fu piantonata da un gruppo di poliziotti e solo l’ispettore Clivetti, coordinato da un paio di assistenti, aveva libero accesso alla proprietà.

La stampa fu tenuta all’oscuro, per giustificati motivi di sicurezza, delle reali condizioni del ritrovamento del cadavere del signor Arrighi. Fino a caso concluso e all’arresto dell’omicida, l’intera Montebrugo avrebbe dovuto sapere che il direttore di banca era stato ucciso da un ladro, introdottosi in villa nel cuore della notte, e che le forze dell’ordine erano già sulle sue tracce.

Cap. II – Indagini

Che la polizia brancolasse nel buio più fitto era un fatto accertato. D’altronde, nonostante il fiuto e l’esperienza dell’ispettore Clivetti, la completa assenza di tracce, la mancata presenza di testimoni, la verificata esclusione di una rapina e, infine, l’accertata inesistenza di nemici, trasformarono quel brutale assassinio in un rompicapo senza alcuna apparente soluzione.

Clivetti interrogò i domestici decine di volte. «Dunque voi sostenete di non aver udito alcunché, quella sera…», disse tamburellando con un lapis sulla scrivania piena di scartoffie.

Interdetto, il maggiordomo rispose tuttavia con una calma serafica. «La domenica non prestiamo servizio a Villa Viviana, ispettore. Non glielo avevo detto?»

«Sì, sì, ho già sentito questa storia, signor Alberti», aggiunse l’ispettore, tornando a guardare l’uomo con sospetto.

Nei giorni seguenti i suoi agenti perlustrarono metro per metro tutta la villa e la campagna attorno, i boschi e le strade, arrancando perfino su per i sentieri che si snodavano per Colle Secco.

Le indagini non portarono a nulla, sebbene furono svolte con la massima cura dall’instancabile Clivetti e dai suoi validi assistenti. Tuttavia un particolare aveva incuriosito l’ispettore la mattina del 3 ottobre, un piccolo dettaglio subito dimenticato. Il sangue aveva inondato la scrivania, ma non ce n’era traccia sul pavimento, dove giaceva il corpo di Arrighi. Forse, ipotizzò l’ispettore, l’uomo era stato decapitato sulla scrivania stessa, usata a mo’ di ceppo, e il corpo poi lasciato supino. Ma la cosa non quadrava. Clivetti tentò di immaginarsi la scena di una decapitazione, ma non arrivò a capo del mistero.

Cap. III – Autopsia

Fu il dottor Burlando a sezionare il cadavere di Giacomo Arrighi. La testa pareva essere stata staccata letteralmente dal collo, facendo pressione, come fu appurato dopo un’accurata analisi, sugli zigomi. Giacomo Arrighi era stato decapitato per mano d’una forza sorprendentemente eccezionale.

Il necroscopo, terminati tutti gli esami autoptici, prese la testa e si accinse a ricomporre il cadavere. Soltanto allora il silenzio sepolcrale della stanza fu spezzato dalle urla agghiaccianti del dottor Burlando.

Cap. IV – Schizofrenia di un morto

Il povero Giacomo Arrighi era nelle mani del medico legale. Ancora terrorizzato per l’impressionante scoperta, stringendo la testa mozzata in un gesto di pietosa protezione, Burlando osservava con orrore il corpo decapitato che giaceva sul tavolo, chiedendosi a chi mai potesse appartenere. Di certo non al signor Arrighi.

Non lasciò comunque nulla d’intentato. Fece un’analisi del sangue e scoprì che il campione ematologico prelevato dalla testa di Arrighi era di gruppo 0 Rh- e quello proveniente dal corpo dello sconosciuto era del gruppo B Rh+. E poi c’era un altro fatto che lo sconvolse non poco. Il sangue ancora presente sul cranio era fresco, come ci si sarebbe aspettato, mentre quello sul corpo pareva raggrumato da anni.

Nella mente del dottore balenarono centinaia di interrogativi, che rimasero senza risposta. Lanciò un’occhiata agli abiti indossati dal corpo decapitato e si avvicinò velocemente, cominciando a frugare nelle tasche nella speranza di trovare un indizio. In quell’attimo di frenesia un grido gli morì in gola, soffocato dalla sottile certezza appena sfiorata.

Cap. V – La riesumazione di Adelmo Forsetti

Le lugubri rivelazioni del dottor Burlando – tuttavia categoricamente fondate – fecero accapponare la pelle all’impenetrabile ispettore Clivetti, tanto che ancora oggi, vecchio e in pensione, si ritrova a tremare nelle vie dalla luce incerta di Montebrugo.

Dove non era arrivato il braccio duro della legge, aveva avuto la meglio la branca specializzata della Medicina. Dove la legge si era avvalsa della logica e dello studio di prove concrete, coadiuvate dall’istinto e dal fiuto, in cerca di spiegazioni razionali, senza ammettere fantasie o speculazioni metafisiche, la medicina, che affonda le sue radici in esperimenti primordiali – a cui deve la sua completezza e il suo sviluppo – tende tuttavia a vedere le cose anche dal punto di vista soprannaturale. E fu proprio quell’ancestrale eredità che portò il dottor Burlando a chiedere la riesumazione del cadavere di Adelmo Forsetti, i cui documenti erano ancora nella tasca dei suoi pantaloni.

Il defunto in questione, trapassato sette anni prima, era un dipendente della Banca di Montebrugo. La causa della morte fu la recisione della carotide per mezzo di un rasoio. Burlando rammentava perfettamente quel giorno, così come ricordava gli abiti con cui fu sepolto il banchiere, gli stessi che aveva sfilato a quello che aveva creduto essere il corpo di Giacomo Arrighi.

Tutto ciò rasentava la più pura follia, ma era la cruda realtà che avevano di fronte.

Rovistando fra gli archivi della polizia fu scoperto che Forsetti si suicidò in seguito a una forte depressione, dovuta sicuramente al suo allontanamento dalla banca, deciso da Arrighi a causa di certe pratiche mancanti e di oscure manovre fiscali operate da Forsetti.

I due uomini, ottenuto il permesso per la riesumazione del corpo, si ritrovarono al cimitero in una pallida mattina di qualche giorno dopo. La tomba del banchiere era intatta. Nessun segno di terra smossa, né danni alla lapide. Attraverso la fotografia sbiadita, il volto immortalato di Forsetti pareva assumere un’aria di piena soddisfazione e di beffarda ilarità.

Quando finalmente la cassa fu aperta, Clivetti fu colto da un improvviso conato dovuto ai miasmi mefitici sprigionatisi dalla bara, mentre Burlando, ormai assuefatto a simili fragranze, con morbosa curiosità sbirciò all’interno.

L’urna rigurgitò un orrore mai visto prima, un aborto della più deviata fantasia, un incubo materiale che provocò un tale disgusto fra gli astanti, primo fra tutti Clivetti, da farli arretrare in preda a violenti spasmi allo stomaco.

Il prezioso contenuto della cassa era rappresentato dalla testa di quello che un tempo era stato il signor Adelmo Forsetti, piuttosto ben conservata nonostante i suoi anni nell’ambiente sotterraneo della tomba. Il dottore la osservò attentamente. Era un sorriso quella piega innaturale che avevano preso le labbra scolorite? E perché gli occhi erano spalancati e sembravano brillare di un’insolita luce? L’uomo preferì non rispondere a quelle domande. Volse invece lo sguardo al corpo, indubbiamente di Giacomo Arrighi. Gli abiti erano nuovissimi, la camicia bianca inzuppata di sangue, le mani irrigidite in un disperato quanto vano tentativo di difesa. Non restava altro da fare che ricomporre i corpi e dare luogo alle sepolture.

Che la polizia continuasse a vagare come un fantasma nelle tenebre più insondabili, era un fatto risaputo. Che la scienza, per quanto si fosse spinta nei remoti recessi dell’animo umano, non fosse riuscita a trovare la chiave per aprire le porte di quell’enigma, era la pesante verità che il dottor Burlando aveva dovuto accettare.

La stampa, per motivi di sicurezza, fu tenuta all’oscuro di quella strana realtà. Dopotutto, come avrebbero potuto spiegare in semplici parole quell’assassinio, senza causare il panico più sfrenato fra la popolazione? L’ispettore Clivetti archiviò il caso e il dottor Burlando si concesse una vacanza. Giacomo Arrighi riposò nella sua tomba per sempre, strappato alla vita da una vendetta tornata sulla terra per un bizzarro capriccio del destino. Adelmo Forsetti riposò finalmente in pace.

Forse fu solo l’ululato del vento o la confusione dovuta ai fumi dell’alcol e del sonno, ma il guardiano del cimitero, l’anno successivo, il 2 di ottobre, giurò d’aver sentito una risata lontana risuonare lugubre nella notte spettrale.

9 Commenti

  1. Lucia Donati
    domenica, 9 Dicembre 2012 alle 9:05 Rispondi

    La risata finale ci stava! Si sente risuonare per ogni dove! Un particolare: mi lascia perplessa l’affermazione in cui si dice che la medicina tende a vedere le cose dal punto di vista soprannaturale (la medicina ufficiale?): a me non risulta. Per il resto, interessante e molto ben raccontato.

    • Daniele Imperi
      domenica, 9 Dicembre 2012 alle 10:15 Rispondi

      In effetti quella frase è strana… diciamo la medicina non ufficiale :)
      Le classifiche sono utili, sì! :)

  2. Lucia Donati
    domenica, 9 Dicembre 2012 alle 9:11 Rispondi

    Spero che la mia classifica ti serva a qualcosa: 1)Progetti di Penna Blu; 2)Racconto “La vendetta”; 3) Ecopunk.

  3. Cristiana Tumedei
    domenica, 9 Dicembre 2012 alle 11:17 Rispondi

    Un racconto horror che offre, davvero, molti spunti di riflessione. Quanta risonanza possono avere le conseguenze delle nostre azioni? Chi ci dice che una decisione presa oggi, non possa ripercuotersi per molto tempo ancora?
    Per quanto concerne la medicina, credo che questa sia molto più vicina al soprannaturale di quanto possiamo immmaginare. Essa, infatti, conosce i limiti oltre i quali risulta essere impossibile fornire spiegazioni razionali alle cose. E, quindi, ne prende coscientemente le debite distanze!

  4. cipsamat
    domenica, 9 Dicembre 2012 alle 14:57 Rispondi

    Davvero interessante. Ben scritto. La rivelazione della morte forse sarebbe potuta venire dopo..ti confido che all’inizio non mi aveva preso molto..ma già dalla fine del primo capitolo ha suscitato molto più interesse. Scrivere horror non deve essere per niente facile e sopratutto farlo nello spazio ristretto. Quindi ancora complimenti.

    • Daniele Imperi
      domenica, 9 Dicembre 2012 alle 15:13 Rispondi

      Grazie della lettura :)
      Beh, questo racconto è horror ma è anche ironico. Una sorta di commedia nera.

  5. Romina Tamerici
    giovedì, 13 Dicembre 2012 alle 19:37 Rispondi

    Questo racconto horror mi ha inquietata, quindi direi che hai colto nel segno. Certo che queste teste mozzate… a volte la mia fervida immaginazione diventa un problema!

    Una cosa sola non mi torna: “accapponare la pelle” mi sembra un lessico troppo basso rispetto al resto del testo. Opinione personale e non così indispensabile.

    • Daniele Imperi
      giovedì, 13 Dicembre 2012 alle 19:49 Rispondi

      Il racconto era ironico, ti spaventa anche così?
      Accapponare: dici? Non m’è parso così fuori posto, ma grazie della critica :)

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