La pietra venuta dal cielo

Un racconto di fantascienza sugli anni ’80

La pietra venuta dal cielo

Se le meteore sono indizio del tramonto del mondo, quale sarà l’epilogo?
Vi mostrerò la paura – Nikolaj Frobenius

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Il giorno che piovvero bombe – Parte prima

Tre cose Anita Fusconi amava nella vita: la sua poltrona in salotto, la sua soap opera preferita e le sue patate stufate. Tutti i giorni alle diciannove sedeva in poltrona a guardare Febbre d’amore, ma non poteva preparare la sua pietanza che due o tre volte al mese, per non sentir brontolare suo marito Pietro. Il signor Marconeri sbuffava ogni volta che ne sentiva l’odore.

«Ma non ne hai abbastanza di quelle patate?», diceva sempre.

La storia andava avanti ormai da quarant’anni. Dal giorno del loro matrimonio, quando a Roma il pane si faceva a giorni alterni, c’era il coprifuoco, sulle strade l’asfalto si scioglieva all’esplosione delle bombe e il sangue macchiava i muri. A quell’epoca avevano ben poco da mangiare oltre le patate.

Il sogno ricorreva spesso nella mente di Pietro. L’uomo riviveva i giorni della guerra, quando aveva abbandonato la divisa d’orbace per non esser trucidato dalle folle impazzite. Fu allora che conobbe Anita, fu lei a nasconderlo in un pagliaio e dargli i vestiti del padre, scomparso chissà dove nell’inferno d’Italia. Tre mesi dopo don Arnaldo li sposava con una cerimonia messa su in fretta e furia, la madre di Anita come testimone di lei e un contadino dei dintorni per Pietro.

Il suono delle detonazioni non lo aveva mai abbandonato. Fino al ’55 si era svegliato spesso di soprassalto, nell’atto di fuggire, di ripararsi dai bombardamenti, dalle raffiche di mitra, dalle facili impiccagioni. Anita era sempre al suo fianco, lo calmava, gli preparava una tazza di tisana e poi tornavano a dormire. Aveva la guerra addosso, Pietro, non l’aveva mai dimenticata, se la teneva appiccicata come una crosta che protegga una ferita, ma la ferita non guariva e la crosta restava.

Quella sera vi fu un’altra esplosione. Pietro sentì il sibilo che l’annunciava, come gli shrapnel a cui era sfuggito sotto i cieli di metallo dell’Italia devastata. Riconosceva quel suono, l’aveva sentito troppe volte. Era un suono che annunciava morte, che conteneva i nomi di chi sarebbe passato dall’altra parte, nel mondo dei più. Era il suono del cambiamento perché, dopo, tutto ciò che avevi attorno non sarebbe più stato lo stesso.

Pietro era in cucina a preparare un tè caldo per riscaldarsi. Aveva chiesto a Anita se ne volesse una tazza, ma la donna gli aveva risposto con un gesto brusco, liquidandolo all’istante. Quando guardava quella serie, non c’era nulla che potesse distrarla.

Il sibilo, dalla cucina, si sentì bene, chiaro come se avessero suonato al campanello e Pietro si fosse trovato proprio davanti la porta di casa. In quei brevi secondi il tempo di Pietro si cristallizzò e l’anziano si ritrovò sbattuto nel ’43, prigioniero di una guerra in cui non aveva mai creduto.

Poi giunse il boato. I vetri tremarono. Pietro giurò di aver avvertito una scossa sismica. Si guardò intorno e scoprì di essere ancora nella sua cucina. Chiamò sua moglie, che non rispose. La chiamò ancora, ma era troppo presa dalla tv e il suo udito stava ormai perdendo colpi da un po’ di tempo.

Poggiò la tazza sul tavolo e entrò in sala. Anita fissava lo schermo come ipnotizzata. No, non aveva sentito nulla, si disse. Le si piazzò proprio davanti al televisore. Lo sguardo di Anita si aprì in un’espressione inferocita, la bocca allargata in un grido che sarebbe scoppiato da un momento all’altro. Pietro indicò verso la cucina e con un dito si toccò l’orecchio.

«Non hai sentito?», le chiese, quasi urlando. «C’è stato un botto, da qualche parte qui vicino.»

«No», rispose la donna, «e se non ti togli da davanti, fra poco ne sentirai un altro di botto, quello della tua testa che si fracassa.»

La pubblicità salvò Pietro.

«Ti dico che c’è stato un botto, una specie di esplosione.»

«Hai ricominciato? La guerra è finita da un pezzo.»

«Stavolta non è stato un incubo, l’ho sentito sul serio.»

«Magari è la televisione dei vicini. O un tuono.»

«Dalla cucina non si sente la televisione dei vicini e un tuono non sibila quando arriva.»

Ci fu un silenzio, come se Anita stesse valutando la questione, come se per una volta volesse credergli. Pietro non seppe cosa aggiungere, se non un «Vado a dare un’occhiata in balcone, forse si vede qualcosa.»

Al piccolo balcone si accedeva proprio dalla cucina. Affacciava sulla silenziosa periferia della borgata, dove campi incolti si succedevano uno dietro l’altro creando un paesaggio desolato in continua evoluzione: sterri per innalzare nuovi palazzi, vecchie fabbriche e fornaci abbandonate, baracche di contadini e greggi di pecore che ancora resistevano alla modernità, sterpaglie, macchie multicolori di ginestre, euforbie, cardi, ortiche. I ragazzini amavano scorrazzare per quei prati con le loro bici da cross, qualche drogato si rifugiava nei ruderi di un edificio e le coppiette celavano al mondo i loro slanci di passione in qualche anfratto.

Le mani appoggiate alla ringhiera, Pietro osservava la campagna davanti a sé. E la vide. S’innalzava a non più di duecento metri di distanza, visibile anche se il sole se n’era già andato e le ombre della sera ammantavano la zona. Una colonnina di fumo pareva danzare nella semioscurità e un fioco bagliore lampeggiava come un’incandescenza che non si decidesse a spegnersi del tutto.

«Anita!», chiamò Pietro. «Vieni a vedere.»

Stranamente, l’anziana lo sentì e presto un ciabattare annunciò il suo arrivo.

«Guarda», disse Pietro, appena ella uscì in balcone. «Laggiù.»

Anita strizzò gli occhi, cercando di mettere a fuoco il punto indicato dal marito. «Be’, che devo vedere? Qualcuno starà bruciando le stoppie.»

«A quest’ora, col buio? Ma che dici?»

«E allora sarà una battona.»

«Quelle vanno nel fabbricato in demolizione.»

«E tu che ne sai?»

«Le ho viste tornando a casa varie volte.»

«Allora è un drogato.»

«Quelli pure se ne stanno al chiuso. Là non c’è niente, invece. Solo campagna.»

Un minuto abbondante di silenzio. Restarono a osservare il paesaggio serale, vuoto, desertico. Da qualche parte un cane abbaiò. Voci, soffuse, dal piano sottostante. Le note di “Shock the monkey” da uno stereo del palazzo attiguo.

«Tu non ci vai laggiù a vedere.»

«Chi t’ha detto che voglio andarci?»

«Quarant’anni di convivenza. Ormai ti conosco bene.»

«Magari un’occhiata. Giusto per capire.»

«No, può essere pericoloso.»

«Che sarà mai?»

«Non lo so, e neanche tu lo sai.»

«Allora chiamo la polizia.»

«E che gli dici?»

«Che qualcosa è esploso laggiù.»

«E chiamala, allora.»

Pietro chiamò. Risposero quasi subito. Era sicuro che si trattava di una bomba?, gli chiese l’operatore. No, ovviamente non poteva esserne sicuro. Magari qualche razzetto, come quelli di Capodanno?, suggerì l’operatore. Mah, forse, balbettò Pietro, non sapeva proprio. Aveva solo sentito un sibilo e qualcosa poi era esploso sui campi di fronte al suo palazzo e adesso bruciava in terra. Lo ringraziarono della segnalazione e promisero che, appena una pattuglia si fosse liberata, l’avrebbero mandata a controllare.

Pietro e Anita restarono affacciati al balcone per qualche altro minuto, poi Anita rientrò. Pietro la seguì poco dopo.

«Non s’è visto nessuno», disse, sedendo sul divano.

«E che t’aspettavi, che i poliziotti arrivavano subito? M’hai fatto pure perdere un pezzo di Febbre d’amore

Pietro rimuginò sulla faccenda, ricordando i tempi andati e il giorno in cui piovvero bombe a Roma, una dietro l’altra a distruggere e seminare morte. Anche quella sera a Roma era caduta una bomba, ma Pietro ne ignorava la ragione. Terrorismo? E che potevano mai colpire in mezzo al nulla? La borgata non era certo un obiettivo sensibile. E allora perché lanciare una bomba? A che scopo?, si chiese. Perché una bomba lo era senz’altro: aveva sibilato, perché la granata aveva tagliato l’aria viaggiando alla velocità di mille metri al secondo; poi aveva colpito il suolo e era esplosa. Tutto faceva supporre a una bomba sganciata da un caccia, ma non aveva molto senso. Il raggio di proiezione delle schegge poteva superare i duecento metri.

Ma allora perché nessuna scheggia aveva colpito la loro abitazione? Perché non c’erano state schegge, ecco perché. Pietro ne era sicuro. Le avrebbe sentite. Avrebbe sentito quei micidiali pezzi di metallo rovente e tagliente schizzare in ogni direzione e colpire auto, muri, vetri. Seminare panico. Frantumare finestre e lacerare membra. Avrebbe sentito le urla. E invece, dopo l’esplosione, c’era stato solo silenzio assoluto. Nessuno si era accorto di nulla.

«Non è stata una granata», disse.

Anita si voltò verso di lui. «Pietro, la guerra è finita. Dal quarantacinque, e adesso siamo nell’ottantatré.»

«Lo so, lo so, stavo solo riflettendo. Il sibilo e il boato sono quelli delle granate e delle bombe aeree, ma non ci sono state schegge. Qui non ne è arrivata nessuna.»

«Senti, sto vedendo la tv. Piantala con questa storia. Ci penserà la polizia.»

No, pensò Pietro, non era una bomba. Ma allora che cosa poteva essere caduto dal cielo sibilando e tuonando?

«Una meteorite!», disse quasi urlando e sbattendosi una mano sulla coscia. «È caduta una meteorite sulla Terra!»

La corsa dell’Atala

Era in ritardo per la cena. Il pomeriggio, presto scivolato nel tramonto, era stato risucchiato a una velocità spaventosa, come sempre accadeva quando era in bici a esplorare la borgata e i suoi confini. Si spingeva ogni giorno più lontano – come se volesse superare ogni volta i propri limiti – mosso da una frenetica sete di avventura, alla scoperta di angoli remoti e misteriosi. Il tempo, quando cavalcava la sua Atala Hop, si fermava, e Davide viveva in una dimensione a sé, al di fuori della realtà e della sua stessa vita. La sua vita, anzi, era la bici da cross e i chilometri che divorava sui campi e le strade sterrate, nei vicoli silenti e semibui e sui prati d’erba rada dove pascolavano le pecore e un cane abbaiava a tutto ciò che si muoveva. Il mondo, attorno a lui, svaniva, i suoni si affievolivano e alle sue orecchie giungeva soltanto il leggero ronzio della catena, il fruscio del vento, il tonfo delle ruote quando atterrava dopo un salto.

Quel giorno si era spinto oltre l’abbeveratoio, dove da poco era sorto un cantiere edile, un paio di chilometri a est del casale diroccato. Non si era reso conto dell’orario e adesso sua madre sarebbe stata in pensiero, apprensiva com’era da quando suo padre, due anni prima, era partito per un viaggio di lavoro e non aveva più fatto ritorno. Davide sapeva che se n’era andato con un’altra donna, quella che aveva visto baciare qualche anno addietro, ma sua madre non voleva crederlo, non accettava quella dolorosa verità, no, aspettava ancora che il marito tornasse. Se lo immaginava citofonare, una sera, e salire su come se niente fosse, a cenare con loro come un tempo, come una famiglia normale. A scuola i suoi compagni avevano iniziato a far domande, qualcuno a canzonarlo, e Davide più volte aveva reagito, guadagnandosi una nota sul registro e una ramanzina dal preside – preside che aveva convocato sua madre, ma che poteva fare?, gli aveva domandato la donna. Andare in giro per il mondo a cercare un marito che non la voleva più? Calmare suo figlio, a cui era mancato un padre all’età di dieci anni? Trovarsi un altro uomo? E quale uomo si sarebbe accollato una donna con un figlio decenne al seguito?

Davide accelerò sui pedali, lasciando che i ricordi fluissero dalla sua mente, dileguandosi nell’aria vespertina. Guardò l’orologio, il Breil che suo padre gli aveva regalato per la Prima Comunione e che teneva ancora al polso, quasi temesse di spezzare un legame e rendere ineluttabile la sua condizione di bambino abbandonato: erano quasi le sette e mezzo. Non sarebbe mai riuscito a rientrare per le otto.

L’Atala sgommò su un tratto di terriccio, ma Davide mantenne l’equilibrio. Attraversò un campo di cardi, superò un lieve dislivello con un salto e proseguì la sua corsa.

Il sibilo lo fece quasi cadere.

Giunse improvviso da qualche parte sopra di lui e una scia luminosa lacerò quel cielo d’ardesia insolitamente vuoto di nubi, finché qualcosa precipitò a alcune decine di metri dal tratto che stava percorrendo. Il corpo che impattò il terreno fece tremare il suolo e stavolta Davide, per lo spavento e la scossa sismica, non riuscì a restare in sella e cadde. Le orecchie gli fischiarono, un gomito gli doleva e il dorso della mano sinistra era abraso come se vi avesse passato sopra della carta vetrata.

Di fronte a sé alcune fiamme si sprigionarono da quella massa caduta da chissà dove e incendiarono lo sterpame attiguo. Del fumo si levò, non solo dal seccume ma anche dall’oggetto stesso.

Davide si rialzò e tirò su anche la bici. E adesso quello che diavolo era?, si domandò, massaggiandosi il gomito. Ma certo! Aveva visto un ufo! No, si corresse quasi subito, era un ufo finché volava – Unidentified Flying Object, ricordò – ma adesso non era più un oggetto volante non identificato, adesso era a terra e si poteva identificare. Rimontò in sella, attaccò la dinamo alla ruota e partì. Dal fanale si sprigionò una luce giallastra, che illuminò il terreno, adesso che il cielo si era fatto più scuro e la notte incombeva. Un pensiero andò a sua madre, ma come poteva lasciar perdere? Quella era di sicuro una meteorite, non gli sarebbe mai più capitata un’altra occasione per vederne una dal vivo, appena piovuta dal cosmo. Sarebbe finito sui giornali, a scuola l’avrebbero additato tutti, i giornalisti avrebbero fatto a gara per intervistarlo e fotografarlo. Forse sua madre avrebbe capito, ma adesso doveva assolutamente scoprire cosa fosse caduto dal cielo.

L’oscurità, lì in aperta campagna, lontano dalle luci della città, avvolgeva quasi tutto in una nebbia antracite fatta di silenzi e segreti. Gli abitanti della notte fecero il loro ingresso nella natura. L’ululato di un gufo si perse in lontananza, senza risposta. Scricchiolii e fruscii sul terreno secco annunciavano le passeggiate di piccoli roditori e qui e là coppie luminose d’un bianco avorio erano le timide epifanie di volpi sfuggenti, a caccia di prede.

Davide non aveva paura della notte, anche se quelle zone avevano un certo grado di pericolosità per via di tossicodipendenti, prostitute e piccoli criminali. Sulla sua Atala si sentiva però invincibile e irraggiungibile. Era uno della banda dei Cross Riders, un gruppo di ragazzini, quasi tutti undicenni e dodicenni, che scorrazzava per la borgata romana, ingenua imitazione dei motociclisti di Easy Rider.

Raggiunse il punto in cui era caduto l’oggetto e si fermò. Sì, si disse, è una meteorite! La pietra dello spazio, ancora fumante e in parte incandescente, aveva scavato un cratere di qualche metro di diametro e profondo un paio di metri. Davide scese dalla bici, mise il cavalletto, poi si accovacciò a terra e si portò sul fondo del cratere, fissando affascinato la meteorite. La roccia era d’un grigio verdastro, lucida come lacca, ed effondeva un intenso odore d’ozono, metallo e pietra che giunse fino alle narici del ragazzo. Davide stimò che misurasse almeno un metro e mezzo di lunghezza. La sua forma oblunga e la superficie cariata come un paesaggio carsico le conferivano un aspetto sinistro, quasi spettrale in quella notte di portenti cosmici. Immobile, estranea all’ambiente della campagna terrestre, la meteorite emanava qualcosa di alieno, come un’energia ancestrale e lontanissima, primeva e malsana insieme, e il ragazzino ebbe un brivido fulmineo che lo percorse fin sulla punta dei capelli. Quindi svanì e Davide si chiese cosa avesse avvertito in quell’attimo, se non fosse stata solo suggestione.

Poi un’ombra si levò alle spalle della meteorite, una figura umana si manifestò come un fantasma fatto di tenebra, e Davide d’istinto indietreggiò, spaventato dall’imprevista apparizione.

Ronni il Matto sorrise e il suo sguardo da ebete si illuminò di luce derisoria. Ma i suoi occhi brillavano anche di un’altra luce, notò Davide, una luce sinistra che non gli aveva mai visto.

«Ronni ha trovato la pietra», disse in un sussurro, con un tono che presagiva chissà quali misteri. «Ronni l’ha trovata per primo!»

«Non stare così vicino», l’ammonì Davide. «Ti brucerai.»

«La pietra non brucia Ronni», fece l’altro, annuendo. «È sua amica.»

Ronni il Matto, un vagabondo del quartiere, gironzolava senza meta e parlava con tutti, ma nessuno sapeva dove abitasse, dove si rintanasse la notte per dormire, come campasse senza lavoro, senza una famiglia a assisterlo. Ai ragazzini piaceva, agli adulti faceva pena, ai ragazzi delle superiori era indifferente. Ronni il Matto aveva un posto nel cuore di ogni abitante della borgata. Davide non sapeva quanti anni avesse, forse un’età compresa fra i venti e i trent’anni, forse di più. I capelli scuri erano corti, lisci, quasi ribelli e pettinati con un riga a destra. Era stempiato e un accenno di calvizie iniziava a formarsi anche sulla sommità della testa. Il volto era mal rasato, gli abiti anonimi e non troppo puliti. Ronni non era cattivo, non aveva mai creato problemi alla collettività. I Cross Riders si fermavano spesso a parlare con lui, facendosi indicare posti ignoti da esplorare che Ronni chissà come conosceva.

Davide si avvicinò alla meteorite. Il calore che sprigionava era forte, ma sopportabile. Le girò intorno, portandosi al fianco di Ronni, che nel frattempo si era chinato a raccoglierne un frammento. Se lo rigirò fra le mani soffiandovi sopra come se fosse una caldarrosta appena presa da una pentola rovente. Poi lo fece sparire in una tasca della giacca, sorridendo compiaciuto.

«Prendine uno», lo incitò Ronni.

Davide guardò in terra. Attorno alla meteorite c’erano vari frammenti di roccia e ne scelse tre o quattro, poco più grandi di una gomma da cancellare, sfiorandoli prima con un dito per saggiarne il calore. Si stavano già raffreddando. Li prese uno alla volta e se li ficcò in tasca. La strana sensazione di prima non lo colse e Davide si convinse d’esserla solo immaginata.

Ronni approvò annuendo con vigore, un sincero sorriso sul volto dall’espressione sempre perduta in chissà quali mondi. Poi si voltò, risalendo il lieve dislivello agilmente e scomparendo nella notte senza dire una parola.

Davide restò lì per un paio di minuti, osservando la meteorite che pian piano stiepidiva. Non avrebbero dovuto annunciarlo alla televisione? Non era agosto, non era il tempo per la pioggia di stelle cadenti. Perché questa era arrivata senza che nessun astronomo ne sapesse nulla? Si guardò attorno. Alle sue spalle, in lontananza, c’erano alcune palazzine, le luci accese qui e là nella calma della sera autunnale. Probabile che qualcuno l’avesse vista cadere e che magari fosse sceso per andare a controllare. Davide sperava di no, voleva prima mostrarla ai suoi amici della banda, voleva essere lui a dirlo a tutti, a portare in classe qualche frammento e raccontare la sua avventura. Chissà che avrebbe detto sua madre quando…

La cena!

Se ne stava quasi per scordare, preso com’era dalla meteorite. Guardò l’orologio. Le lancette fosforescenti segnavano dieci minuti alle otto. Stavolta sua madre si sarebbe preoccupata e arrabbiata sul serio. Uscì dal cratere, tolse il cavalletto con un colpo di tacco, rimontò in sella, lanciando un ultimo sguardo alla pietra venuta dal cielo, e filò via.

Nel silenzio della sera si udiva solo l’acciottolio dei pezzi di meteorite nella tasca del giubbetto e il ronzio meccanico dei pedali dell’Atala, che continuava la sua corsa verso casa.

La notte dell’Appuntato Ferri

Dalla Centrale operativa la chiamata giunse venti minuti prima delle venti. L’addetto alle comunicazioni parlò di probabili petardi o razzi pirotecnici finiti nella campagna. L’anziano che aveva telefonato al 113 non aveva saputo spiegare cosa fosse stato sparato nel cielo e fosse poi precipitato nei campi di fronte casa sua.

«Fuochi artificiali a ottobre?», chiese Grimaldi.

«Andiamo a dare un’occhiata», rispose Ferri, facendo inversione a u e dirigendosi verso la borgata.

Capopattuglia della volante, Maurizio Ferri era in Polizia da dodici anni e con il grado di appuntato da due. Come gregario aveva scelto Grimaldi, un tipo sveglio e obbediente, anche se con poca esperienza e per giunta senza patente ministeriale. Ma Ferri amava guidare l’Alfasud e non aveva avuto nulla da obiettare.

Giunsero a destinazione intorno alle venti. Costeggiarono un cantiere, superarono alcuni terreni spogli, imboccarono una stradina deserta e si fermarono a lato di un campo incolto. Ferri consultò lo stradario, diede un’occhiata alla targa della via e annuì. «Ci siamo», disse.

Alle loro spalle alcune palazzine condominiali nascondevano all’interno la classica vita domestica serale: tavole apparecchiate per la cena e televisori che proiettavano effimere realtà.

«Dev’essere laggiù», disse Ferri, indicando un punto in mezzo al nulla. «Hanno detto a duecento metri dai palazzi.» Gli parve di notare piccoli bagliori rossastri occhieggiare per qualche attimo, per poi spegnersi. «Dammi la torcia, vado a vedere. Tu aspetta qui. E tieni gli occhi aperti.»

Scese dall’auto, accese la torcia e s’incamminò. Il cielo era sereno e l’aria frizzante. Diede uno sguardo attorno, tanto per sicurezza, puntando il fascio luminoso qui e là mentre procedeva. La zona non aveva una bella fama, ma era abbastanza tranquilla. Ferri era dovuto intervenire solo un paio di volte in quella borgata, la prima per sedare una rissa fra drogati, due anni prima, e l’altra per arrestare un pappone che aveva picchiato una delle sue ragazze, qualche mese dopo. Poi più niente.

Quando raggiunse il punto in cui aveva visto i bagliori, si bloccò, incredulo. La torcia illuminò un cratere di almeno cinque metri di diametro. Avvicinandosi, Ferri notò sul fondo, un paio di metri più giù, una grossa pietra butterata che superava il metro di lunghezza, larga più o meno la metà. Dalla superficie si alzava un lieve filo di fumo. Ferri scese sul fondo senza difficoltà. Da vicino la pietra emanava calore e il poliziotto si abbassò a osservarne la base. Sorrise, sentendosi rabbrividire per l’emozione. Non aveva dubbi sulla natura di quella roccia. Era la prima volta in vita sua che vedeva una meteorite dal vivo. Altro che fuochi artificiali, disse fra sé. Questa era una notizia da telegiornale e il protagonista sarebbe stato lui. Si figurò le facce dei colleghi quando gliel’avrebbe raccontato. E quella di sua moglie, che avrebbe preteso un pezzo di quella stella cadente. Ferri puntò la torcia attorno e scoprì diversi frammenti non più grandi di un bossolo sparsi qui e là, alcuni tondeggianti come pietra pomice. Ne raccolse un paio, smuovendoli nella mano. Erano lucidi come la roccia madre, forse ferrosi, appena tiepidi. E puzzavano d’ozono. Si alzò e se li mise in tasca, poi scandagliò i dintorni con la torcia, ma non c’era altro. Proprio una bella serata, si congratulò con se stesso. Una fortuna che la sua pattuglia si trovasse proprio nelle vicinanze.

Si chiese cosa avrebbe dovuto fare. Avvisare la Centrale, per prima cosa. Le fiamme si erano spente e comunque in mezzo a quel buco di terra e roccia non c’era certo pericolo d’incendio. Avrebbero mandato qualche scienziato il mattino dopo a studiarla. Anche la gente del posto era stata fortunata. Ferri provò a immaginare la meteorite che, anziché precipitare sul campo, colpiva uno degli appartamenti delle palazzine. Probabile che avrebbe ammazzato qualcuno.

E sarebbe stato un male?, si ritrovò a pensare. Istintivamente infilò una mano nella tasca e afferrò uno dei pezzi di meteorite. Sorrise, anche se non ne seppe il motivo. O forse il motivo era la soddisfazione che provava in quel momento storico della sua esistenza. Gettò uno sguardo indietro nel tempo, e come in un lungometraggio in bianco e nero rivide la sua vita, vuota come il cervello di una recluta e senza futuro come una gomma da masticare. «Non ci siamo, Appuntato Ferri», disse in un sussurro che a stento riuscì egli stesso a sentire. Ma adesso le cose sarebbero cambiate, lo sapeva. Osservò il frammento di roccia cosmica: nell’oscurità della sera pulsava di buia luce, una nefasta luminosità che soltanto i suoi occhi potevano vedere. In questa luce sta il mio futuro, fu il pensiero che si formò nella sua mente. Un pensiero venuto da dove?, tentò di chiedersi, ma la domanda non giunse a formularsi. Nella mente di Ferri, ora, non c’era più spazio per le domande, per i chiarimenti, per i sospetti e l’immaginazione. Qualsiasi pensiero, avvertì il poliziotto in quell’attimo, qualsiasi ricordo svanì dalla sua memoria, annullato per sempre. Avrebbe dovuto sentirsi come un neonato: avido di immagini e sensazioni, ma si sentì invece di nuovo adulto, più maturo, più determinato di prima. Era un uomo fortunato, si disse, perché adesso, per la prima volta nella sua vita, aveva una missione da compiere.

Sì, pensò, mentre usciva dal piccolo cratere e tornava sui suoi passi in direzione dell’auto, questa è stata una serata fortunata per tutti. Fece tintinnare i pezzi di meteorite nella tasca, avvertendone la consistenza, la ferrosità, ma soprattutto il potere estraneo e vivificante che sprigionavano. In quell’attimo si sentì felice, appagato come mai era stato nella sua carriera. Inspirò l’aria fredda serale a pieni polmoni e accelerò l’andatura, impaziente di rimettersi al lavoro, di tornare operativo. C’era così tanto da fare quella notte, non poteva perdere un solo minuto.

Quando arrivò all’auto, trovò Grimaldi fuori, la schiena appoggiata allo sportello, una sigaretta appesa alle labbra e le mani in tasca. Ferri spense la torcia e la lanciò dentro, sul sedile del collega.

«Andiamo», ordinò. Poi, mentre la guardia gettava via la cicca e saliva a bordo, Ferri slacciò la fondina della pistola.

«Che cos’era?», chiese Grimaldi, appena si fu seduto.

«Una pietra caduta dal cielo», rispose Ferri, mettendo in moto e partendo.

«Una… che

«Una meteorite», chiarì Ferri. «Hai presente? Un pezzo di stella che entra nell’atmosfera e colpisce la Terra, un frammento cosmico da corpi extraterrestri. È stata una fortuna che l’abbia trovato. Avrebbe potuto passare inosservato, ma io ero proprio là, ero nel posto giusto e nel momento giusto per intervenire. E per fare ciò che va fatto.»

«Di’, stai bene?», disse Grimaldi, voltandosi a guardarlo e sorridendo. Come ogni novellino del distretto doveva sorbirsi le prese in giro dei colleghi più anziani.

«Scoppio di salute», rispose Ferri.

Si immise in una strada deserta, inchiodò l’auto, estrasse la pistola e, prima che il collega si rendesse conto di quanto stesse accadendo, gli sparò dritto in testa. Il proiettile gli perforò la tempia sinistra, fermandosi all’interno del cranio. Grimaldi non emise un grido, si accasciò sul finestrino, gli occhi sbarrati dall’inconsapevolezza, il volto senza più espressione. Un dormiente del sonno infinito. Erano ancora in una zona isolata e nessuno parve aver sentito lo sparo.

«Fatto», disse Ferri, e ripartì.

Uscito dalla borgata, si diresse verso il centro della città. A un semaforo si fermò, accostando al marciapiede, davanti a una discoteca. Fuori alcuni ragazzi e ragazze se ne stavano a fumare e scherzare. Ferri scese e gli andò incontro, la pistola in mano.

«Buona sera», disse. Poi puntò contro di loro la Beretta e aprì il fuoco, scaricando i quattordici colpi restanti. I ragazzi non ebbero il tempo di fuggire, storditi dagli spari inattesi, e non tentarono nemmeno di ripararsi. Come se accettassero quella morte prematura. In un silenzio di terrore alzarono le mani, quasi a respingere i proiettili che gli penetravano nel corpo, spappolando cuori, polmoni, fegati e reni, disintegrando occhi, facendo schizzare sul muro la loro materia cerebrale. Quando tutto finì, Ferri contò sette corpi a terra. Nessuno dei ragazzi restò in vita. Ferri tolse il caricatore vuoto e lo gettò via, poi ne inserì un altro.

Gli spari attirarono gente da dentro il locale. Uno dei buttafuori si affacciò, spalancò la bocca al vedere la carneficina, ma non fece in tempo a rientrare. O, meglio, rientrò, scaraventato dentro dal proiettile sparato da Ferri, che lo prese in pieno petto.

Poi il poliziotto entrò nella discoteca e svuotò il secondo caricatore. Quando uscì, rimontando in auto e allontanandosi con una sgommata, non poté più sentire le urla di angoscia che esplosero all’interno né vedere il fuggi fuggi dei sopravvissuti disperati in preda al panico.

«Fatto», disse ancora. Poi azionò il lampeggiante e la sirena.

Venti minuti dopo raggiunse la Circonvallazione Gianicolense e da lì imboccò viale Trastevere. Lo percorse quasi tutto, infine parcheggiò la volante, col suo passeggero muto, nei pressi di piazza Sonnino. Alcuni passanti si fermarono a osservare, incuriositi. Ferri spense allora la sirena, scese dall’auto e aprì il bagagliaio. Afferrò la M12, controllò che fosse carica, prese un secondo caricatore da 40, ficcandoselo in tasca, poi si infilò in un vicolo a caso.

A quell’ora le vie di Trastevere erano piene di avventori che entravano nei locali del quartiere. Gruppetti di persone sostavano di fronte a bar e ristoranti indecisi sul da farsi o oziando in quella sera d’autunno. Qualche residente rincasava o passeggiava per i vicoli. Nessuno parve fare caso a un poliziotto che se ne andava in giro con una pistola mitragliatrice in mano e chi se ne accorse passò oltre, registrando quella scena il tempo necessario per dimenticarsene. Era una sera di fine ottobre tranquilla come tante altre. C’era troppa spensieratezza, troppa allegria per lasciar posto al dramma.

Ferri si fermò al centro di una stradina. La gente andava e veniva nei due sensi, chiacchierando, guardando i locali, ridendo. Nessuno sembrò averlo notato. Ferri puntò la M12 e fece fuoco. La prima raffica colpì una coppia appena uscita da una pizzeria, un uomo che portava a spasso il cane e tre ragazzi di appena diciott’anni. Vetri andarono in frantumi, corpi caddero scompostamente, il cane abbaiò rabbioso, ma Ferri non se ne curò. La seconda raffica spazzò via sei persone che a gruppi di tre procedevano verso il poliziotto e erano rimaste pietrificate dalla prima scarica di colpi. Rovinarono uno sull’altro finché di loro non restò che un mucchio di cadaveri in una pozzanghera di sangue. Alla terza raffica si levarono le urla di terrore di chi ancora aveva fiato per vivere. La gente fuggì, corse via in cerca di riparo gridando la sua disperazione. Da due o tre finestre si affacciò qualcuno, ma ebbero tutti la furbizia e la prontezza di ritirarsi e chiudere le imposte.

Ferri continuò a premere il grilletto finché consumò i quaranta proiettili del caricatore. Poi lo sostituì con l’altro.

La notte dell’Appuntato Ferri non era ancora finita.

Il profumo della bancarotta

Andrea si rigirò il frammento di meteorite fra le mani. «Fico!», urlò.

Come sempre, Davide era passato sotto casa del compagno di classe, una villetta con giardino ai confini della borgata, gli aveva citofonato – a Andrea serviva quella citofonata, altrimenti non si sarebbe mai sbrigato e sarebbe arrivato tardi a scuola – e era rimasto a aspettarlo almeno cinque minuti buoni, quasi pentendosi di volergli regalare uno dei pezzi di roccia presi la sera prima.

«Dove l’hai preso?», gli domandò subito dopo Andrea.

«Un chilometro prima del vecchio abbeveratoio.»

«Sei arrivato fino laggiù?»

«Fino al cantiere.»

«Te lo ricordi dove sta la meteorite?»

«Certo che me lo ricordo, per chi m’hai preso? Oggi pomeriggio ci andiamo, se ti va.»

«Oggi non posso, ho il dentista.»

«Che palle.»

«Già.»

«Dai, andiamo, se no facciamo tardi.»

A scuola, durante la ricreazione, Davide riunì i Cross Riders e raccontò loro l’avventura della sera prima, enfatizzando l’episodio dove occorreva. I ragazzini lo ascoltarono rapiti, invidiosi che fosse stato lui e non loro a vedere la meteorite cadere dal cielo e schiantarsi al suolo.

«Be’, non ho proprio visto quand’è caduta», disse. «Però ho visto la scia, era come una specie di stella cometa, e ho sentito il fischio. Sembrava uno dei razzi che spariamo a capodanno. Poi c’è stato il botto, era così forte che m’ha fatto cadere dalla bici.» Davide mostrò la mano, escoriata e arrossata. «Questo me lo sono fatto cadendo. A mia madre non gli ho detto niente della meteorite, quella già si preoccupa per niente. Già quando ha visto la mano ha cominciato a fare mille domande.»

Andrea tornò da scuola elettrizzato come un parafulmine in pieno temporale. Il profumo che veniva dalla cucina gli fece venire l’acquolina in bocca, ma il pranzo poteva aspettare. Doveva assolutamente mostrare a suo padre il pezzo di stella che gli aveva regalato Davide. Trovò l’uomo seduto in sala a leggere il giornale e lo salutò.

Dalla cucina la madre ordinò di mettersi a tavola, ma Andrea si piazzò vicino al padre, aprendo la mano proprio davanti ai suoi occhi. Il pezzo di roccia meteorica pareva quasi risplendere.

«E questo cos’è?», chiese l’uomo piegando il giornale e afferrando la pietra.

«Indovina!»

Al signor Bernardi non piacevano gli indovinelli, tuttavia quella volta soprassedette. «Un… non so, un’ossidiana?»

Andrea non sapeva cosa fosse un’ossidiana, ma si fece un appunto mentale di chiederlo più tardi a sua madre. «Ma no!», rispose, come se suo padre avesse detto un’eresia. «Dai, te lo dico, se no facciamo notte. È un pezzo di meteorite

Il signor Bernardi sollevò le sopracciglia, squadrando il figlio come fosse stato lui l’extraterrestre e non il sasso che teneva in mano. «Un pezzo di meteorite? E dove l’hai preso? Ve l’hanno dato a scuola?»

«Macché, me l’ha regalato Davide, l’ha trovato ieri sera nei campi. La meteorite è caduta proprio quando tornava a casa. L’ha pure vista.»

«Davide ha visto la meteorite cadere? Santo cielo! Ha rischiato di essere colpito?»

«No, era lontano», mentì il ragazzino. «Ha pure aspettato un po’ prima di avvicinarsi.»

«Strano, la tv non ha detto niente. Luisa!», chiamò subito dopo, «Hai sentito di una meteorite caduta qui vicino, ieri sera?»

«No», rispose la donna, entrando in sala con una zuppiera fumante, «e adesso mettete via tutto, ché si pranza.»

«Ne riparliamo dopo mangiato», disse l’uomo a Andrea, riconsegnandogli la pietra.

Nel pomeriggio Bernardi tornò in ufficio, portandosi via il frammento di meteorite. «Voglio mostrarlo a un mio collega», disse al figlio, che di malavoglia acconsentì a lasciarglielo.

La RoBer International Group era una multinazionale che importava e esportava articoli promozionali e organizzava campagne pubblicitarie per grandi aziende. Gli uffici di Roma si trovavano a poca distanza dalla villetta di Bernardi, nella zona chiamata Tomba di Nerone, al di là di una vasta area boschiva. Roberto Bernardi ne era l’amministratore unico, oltre che fondatore. A quarantacinque anni era arrivato a dirigere un’azienda che tra gli uffici della capitale e quelli di Milano, Rotterdam, Londra, New York, Nuova Delhi e Hong Kong aveva quasi tremila dipendenti. Bernardi aveva accesso a tutti i conti, sia quello di Roma sia quelli delle consorelle, e aveva l’ultima parola su ogni decisione. Quando un’azienda ha un fatturato di quasi duecentocinquanta miliardi di lire annue (all’ultimo tasso di cambio con fiorini, sterline, dollari, rupie indiane e dollari di Hong Kong), nessuno ha da ridire. Bernardi ci sapeva fare nel suo campo, portava profitti e faceva crescere l’azienda.

In ufficio non mostrò a nessun collega la pietra meteorica. Già al primo tocco aveva intuito di avere per le mani un oggetto unico, inaspettato e potente. Sì, potente: era proprio una sensazione di potenza quella avvertita quando aveva toccato la pietra la prima volta. Aveva sentito una forza sconosciuta fluire in lui attraverso la mano, un vigore che l’aveva dapprima disorientato, quasi spaventato, ma poi riempito di elettricità, come se fosse ringiovanito, tornato indietro nel tempo fino a quando aveva vent’anni e correva dietro alle ragazze dell’università. Al figlio non aveva detto nulla di ciò che aveva provato, né tanto meno avrebbe potuto dirlo a Luisa. Egoisticamente aveva preferito tenere per sé quel segreto. Ne avvertiva ora l’incommensurabilità.

Anche in quel momento, chiuso nel suo ufficio, si sentì preda di quel pezzetto di meteorite apparentemente così insignificante, meravigliandosi, anzi, che il figlio non avesse subito lo stesso influsso. Non poteva esserne sicuro, certo, ma prima di andarsene aveva scambiato qualche parola col ragazzo e non aveva letto nella sua espressione e nei suoi atteggiamenti segni di un qualche coinvolgimento, all’infuori di una ben evidente preoccupazione per la sorte di quella sua piccola proprietà.

Ciò che più di ogni altra cosa lo colpì fu la consapevolezza del suo futuro: le sue prossime azioni si erano svelate a lui come una mappa srotolata: ne vedeva i limiti, ne percepiva la grandezza, ne notava i dettagli. Soprattutto, sapeva che quella mappa era la sua guida: mostrava lui la strada da seguire. Mai, prima di allora, si era sentito così sicuro di se stesso e delle sue possibilità. E dei risultati che avrebbe ottenuto.

Annuì fra sé soddisfatto, mentre infilava la pietra in una busta imbottita assieme a un biglietto scritto di suo pugno. La sigillò e la consegnò alla segretaria, con la richiesta di spedirla subito al Ministro Falchi, all’indirizzo della sua residenza privata. Bernardi era sicuro che l’amico avrebbe apprezzato quel regalo. E ne avrebbe fatto buon uso.

Quello che gli serviva adesso era qualche minuto per un’operazione bancaria. A quell’ora avrebbe trovato ancora in ufficio il direttore, suo amico e compagno negli incontri di doppio a tennis. Certo, avrebbe sollevato delle questioni all’insolita richiesta di Bernardi, ma ormai si fidava di lui e non avrebbe creato problemi. Bernardi stava per trasferire l’intero conto corrente di Roma su un conto offshore aperto qualche anno prima. Si trattava della discreta somma di circa trentadue miliardi, lira più lira meno. Bernardi aveva preparato una scusa per quel generoso bonifico: la RoBer International Group si era lanciata in un investimento finanziario che l’avrebbe fatta diventare leader mondiale nel mercato delle promozioni. Era davvero sicuro?, gli avrebbe chiesto allora il dottor Marchi. Sicurissimo, l’avrebbe tranquillizzato Bernardi con un esperto sorriso sulle labbra. E gli avrebbe dato appuntamento per la domenica successiva al solito campo. Una stretta di mano e tutto sarebbe finito.

In banca il dottor Marchi si bevve la scusa di Bernardi, assieme a un bicchierino di whisky che teneva in ufficio e che offrì anche all’amico e cliente. Bernardi restò in banca un’ora, così da consolidare la veridicità della sua azione. Marchi tentò un paio di volte di scoprire la natura dell’ingente investimento – trentadue miliardi di lire non erano certo bruscolini, come amava dire in simili occasioni – e Bernardi accennò a nuove filiali da aprire in vari paesi dell’Asia.

«È un mercato in espansione», disse. «E dobbiamo approfittarne.»

Quando lasciò la banca, una fastidiosa nuvolaglia coprì il cielo. Guardò l’orologio: erano quasi le sedici. Avrebbe fatto in tempo a prendere un aereo per Milano. Si fermò a un bar, ordinò un caffè e chiese un gettone per telefonare. La segretaria rispose al primo squillo.

«Prenotami un posto sul primo aereo per Milano e un’auto che mi porti in centro», disse. «Ho bisogno anche di un taxi per l’aeroporto.»

Consumato il caffè, tornò in ufficio. Qualche minuto dopo un corriere gli consegnò il biglietto aereo. Bernardi prese la sua ventiquattrore e uscì.

Mentre raggiungeva l’aeroporto, seduto nel taxi, ripensò a quell’intensa giornata che si avviava alla conclusione. In realtà aveva fatto ben poco, ma quel poco era stato un tassello necessario a completare un più grande progetto in atto. Non era finito qui il suo compito e Roberto Bernardi lo sapeva. Dopo aver sistemato Milano, si sarebbe recato a Rotterdam, Londra, New York, Nuova Delhi e Hong Kong e avrebbe trasferito tutti quei conti su quello offshore. Era stato un bene che avesse familiarizzato fin da subito con i direttori delle rispettive banche, diventando con tutti non solo un ottimo e rispettabile cliente, ma anche un valido compagno nei doppi a tennis.

Nel giro di una decina di giorni il suo lavoro sarebbe terminato. Il tempo di raggiungere le varie città, recarsi in banca, recitare il suo copione, apporre qualche firma e il gioco era fatto.

Con i conti azzerati le aziende non avrebbero potuto pagare né stipendi al personale né le merci ai fornitori né tasse e servizi. Il personale avrebbe reclamato, l’amministrazione avrebbe cercato di calmare tutti, ma che poteva fare senza più un soldo a disposizione? Molti si sarebbero licenziati e avrebbero fatto causa alla società. I fornitori non avrebbero spedito le merci ai clienti, che a loro volta si sarebbero lamentati e avrebbero querelato le aziende per danni. Istituzioni e fornitori di servizi avrebbe inviato solleciti su solleciti e infine multe e ingiunzioni. Ci sarebbero stati sequestri, pignoramenti e cause. Il caos di cui aveva appena acceso la miccia sarebbe esploso con la potenza di decine di bombe nucleari.

Bernardi si concesse un sorriso, accomodandosi meglio sul sedile del taxi. Il futuro dell’intera RoBer International Group era ormai segnato e ne poteva sentire il profumo.

Era il profumo della bancarotta.

L’ultimo viaggio del Ministro Falchi

Era stata una giornata pesante per Vittorio Falchi. La seduta in Parlamento si era protratta fino alle ventidue e l’indomani la sveglia avrebbe squillato prima dell’alba. La partenza dell’aereo di Stato era prevista alle 7:30 e un’auto avrebbe atteso il ministro sotto casa alle 5:30. Falchi guardò l’ora: era quasi mezzanotte. Imprecò fra sé, aprì il mobile-bar in salotto, prese una bottiglia di cognac e se ne versò una dosa abbondante.

«A che ora devi partire domani?»

La voce lo fece sussultare. Sua moglie, in vestaglia e mezzo assonnata, doveva averlo sentito rientrare e si era alzata, come faceva spesso quando lui rincasava molto tardi.

«Vengono a prendermi alle cinque e mezzo. Ho l’aereo due ore dopo.»

«Non dovresti essere a letto, allora?»

«Sì, dovrei», rispose Falchi, scolando in un sorso il liquore. «Ma mi ci voleva qualcosa di forte per buttare giù il veleno ingoiato oggi.»

La donna sorrise. «A proposito», disse poi, «è venuto un corriere, oggi pomeriggio. Ha consegnato un plico per te. Da parte di Roberto.»

«Bernardi? Che plico ha mandato?»

«Non lo so, aprilo e vedi. L’ho lasciato nel tuo studio.»

«Mmm, adesso proprio no. Ho bisogno di una doccia e poi di una dormita.»

Vittorio Falchi non dormì bene quella notte e al risveglio gli parve di essersi appena messo a letto. La notte si era consumata a velocità supersonica, senza dargli il tempo di smaltire il nervosismo accumulato il giorno prima. Tuttavia si alzò, andò in bagno e poi indossò il completo che la domestica, su istruzioni di sua moglie, gli aveva fatto trovare già pronto e ben stirato.

In cucina trovò la caffettiera sul fuoco e sorrise. Ho sposato una donna impareggiabile, pensò. La sentì biascicare qualcosa dalla camera.

«Sì, l’ho vista, grazie», le rispose.

Quando entrò nello studio a prendere la valigetta, vide il plico spedito da Bernardi. Lo prese e ne saggiò il contenuto. Dentro c’era un oggetto oblungo, resistente, che non riuscì a identificare. Con un’alzata di spalle infilò la busta nella ventiquattrore, uscì, fece un salto a salutare sua moglie, prese la valigia coi cambi e il necessaire da viaggio e scese in strada.

L’auto era già lì a attenderlo, l’autista fuori a fumare. Appena vide il ministro, lo salutò e scattò a aprirgli la portiera. Poi gli prese la valigia e la ventiquattrore e le sistemò nel bagagliaio. Un minuto dopo filavano verso Fiumicino.

In aereo il suo portaborse gli consegnò la scaletta degli appuntamenti a Beirut e Falchi la consultò. All’arrivo sarebbe venuta a prenderlo una delegazione del primo ministro, che dopo il consueto, e noioso, rito di benvenuto l’avrebbe finalmente accompagnato alla sua residenza. A pranzo avrebbe incontrato il Primo Ministro Shafiq Wazzan, che voleva congratularsi con lui per l’operato dei militari italiani. La missione Italcon “Libano 2” aveva avuto un caduto qualche mese prima, un marò colpito in un’imboscata, e diversi feriti. Falchi doveva infatti parlare con il generale del Battaglione San Marco e con un colonnello del Reggimento Col Moschin di lì a tre giorni. Il giorno successivo avrebbe invece avuto un incontro con il Presidente Amin Gemayel, per discutere di una probabile svolta della guerra civile. Falchi si era preparato un discorso per l’occasione – causa della bile accumulata in Parlamento – ma adesso non aveva proprio voglia di rileggerlo.

Chiuse la cartelletta e si rilassò sul sedile. Sarebbero state giornate intense e anche pericolose, visto il numero di attentati, ma le autorità libanesi gli avevano assegnato una scorta. Ordinò un drink alla hostess. Mentre lo sorseggiava, si ricordò del plico e lo tirò fuori dalla ventiquattrore. Si chiese cosa mai gli avesse mandato l’amico. Erano almeno due mesi che non riuscivano a vedersi, ma si erano sentiti al telefono la settimana precedente e Bernardi non gli aveva accennato nulla al riguardo. Aprì la busta e restò a fissarne il contenuto.

Un sasso.

Roberto gli aveva spedito un sasso?

Lo prese, cercando di capirne il significato. Poi si accorse che nella busta c’era anche un foglietto di carta, due righe scritte a mano da Roberto. L’amico gli faceva dono di un frammento della meteorite caduta due sere prima a Roma, nelle vicinanze di casa sua. Falchi sorrise. Doveva immaginare che Roberto Bernardi non gli avrebbe mai mandato qualcosa che non fosse veramente unico. E un pezzo di meteorite era qualcosa di unico. Lo tenne stretto nella sua mano e chiuse gli occhi, lasciando che una lieve sonnolenza prendesse possesso dei suoi sensi. In fondo, pensò, quelle giornate avrebbero potuto non essere così pesanti come si prospettavano. No, si disse Falchi, sarebbero state giornate uniche, come la pietra che aveva in mano. Racchiusa nel suo pugno, la sentì quasi vibrare, emanare un flusso d’energia positiva che ben presto lo avvolse rendendolo ottimista e determinato. Dimenticò le sedute al Parlamento, i colleghi di partito, i giornalisti che non lo lasciavano respirare, gli infiniti impegni e la poca libertà personale. Adesso, seduto nell’aereo che lo portava a Beirut, si sentiva perfino rilassato. Guardò la pietra e in quell’istante avvertì una forza rivitalizzante che vi scaturiva, penetrando nelle cellule del suo corpo. Ciò che lo stupì e rese euforico insieme fu una serie di input che raggiunsero la sua mente sotto forma di immagini e suoni, condensandosi infine in pensieri da mettere in pratica. Sorrise. Dunque era quella la verità, era quello il segreto della pietra venuta dal cielo. Aveva sempre pensato che tutto il sistema che regolava la vita civile e politica del pianeta fosse sbagliato. Che tutte quelle sedute parlamentari fossero soltanto un’enorme perdita di tempo. Non trovava sbocchi dall’intrico burocratico, politico, sociale che stava lentamente soffocando l’umanità civilizzata. Ma adesso era giunto il momento del cambiamento, erano arrivati alle soglie di una nuova era. Falchi annuì fra sé, conscio del nuovo percorso che stavano prendendo gli eventi. I piani erano cambiati, non avrebbe perso tempo con le alte cariche del Libano né con gli ufficiali italiani. Adesso aveva una vera missione. Avrebbe causato uno sconvolgimento politico-militare di proporzioni immani. La Terza Guerra Mondiale era più vicina che mai.

Ciò che doveva esser fatto andava fatto e basta, si ritrovò a pensare in quell’istante.

All’atterraggio Falchi si mostrò visibilmente stanco e accusò una forte emicrania. La delegazione sbrigò i convenevoli in due minuti e fece accompagnare lui e il portaborse in albergo. L’auto sarebbe tornata a prenderli un’ora più tardi.

Falchi fece una doccia veloce, si cambiò, si mise in tasca la pietra meteorica e scese nella hall. Là si fece chiamare un taxi. Alla reception l’impiegato lo guardò allibito. Forse il Ministro non sa che un’auto verrà a prenderlo? Sì, rispose Falchi, ma è presto e voglio fare un giro. Sarò di ritorno per tempo. Avviso la sua scorta, allora, disse l’uomo. Oh, non è necessario, lo tranquillizzò Falchi, resto nella zona verde. L’impiegato sorrise e chiamò il taxi. Cinque minuti dopo Falchi si allontanò dall’albergo, per non farvi più ritorno.

Shafiq Wazzan attese un’ora il Ministro della Difesa italiano, ma nessuno si presentò a pranzo. All’albergo avevano visto uscire il Ministro Falchi più o meno a mezzogiorno, senza il suo portaborse, a bordo di un taxi. Sarebbe stato via per poco, dissero, ma di lui si era poi persa ogni traccia e il suo assistente, profondamente imbarazzato dall’accaduto, non seppe dire nulla su quell’inatteso spostamento del Ministro. Wazzan mandò alcuni militari a cercarlo e soltanto nel pomeriggio inoltrato uno di loro riferì di aver visto qualcuno di somigliante in una delle strade della periferia della città, ma non era riuscito a raggiungerlo. Il Primo Ministro perse la pazienza e iniziò a sbraitare e inveire. Parlò di grave negligenza e fece contattare la Farnesina. Il portaborse, a disagio, balbettò una serie di scuse e promise di fare il possibile per venire a capo della faccenda. Si attaccò al telefono dell’albergo, senza comunque giungere a una qualche conclusione. E per lui non solo saltò il lauto pranzo offerto da Wazzan, ma anche quello più modesto dell’hotel.

Nel frattempo il taxi aveva lasciato Falchi al porto. Il Ministro aveva deciso di incontrare il Capitano di Vascello Nicola Demarco. Si erano conosciuti tempo prima durante una sua visita al cacciatorpediniere Ardito, che Demarco comandava. A quei tempi la nave era a La Spezia, ma dall’anno prima era in missione sulle coste libanesi.

Dalla banchina, quando il taxi ripartì, Falchi osservò la stazza della nave da guerra, alla fonda a circa duecento metri dalla costa. Soprattutto, Falchi osservò con attenzione i cinque cannoni, i due lanciasiluri, i lanciamissili e i due elicotteri Agusta-Bell, armati con due siluri e una mitragliatrice mg. Sorrise nel vedere quel magnifico armamento.

Alcuni marinai italiani lo riconobbero e si avvicinarono, salutandolo militarmente. Falchi sorrise e si intrattenne qualche minuto, informandosi sulle loro condizioni e sull’andamento della missione. Poi chiese del comandante. Uno dei marinai si offrì di portarlo a bordo con una scialuppa, ma Falchi accampò una scusa e preferì incontrare il Capitano là al porto.

«Non è una visita ufficiale», si giustificò.

Mentre il suo portaborse si affannava al telefono con il Ministero della Difesa, la Farnesina e i colleghi di partito, Falchi sorseggiava un caffè con Demarco a un bar portuale, seduto fra gente comune come un uomo qualunque. Fu allora che tirò fuori di tasca il frammento meteorico e lo mostrò al Capitano.

«Che cos’è?», chiese Demarco, accarezzando la roccia.

«Un bel pezzo di meteorite», rispose Falchi. «È per lei», aggiunse poi. «Le porterà fortuna. Saprà sempre qual è la cosa giusta da fare.»

Demarco sorrise, quasi impacciato. Non si era aspettato una visita dal Ministro della Difesa – non era in programma – e adesso si sentiva onorato per quell’incontro che avrebbe fatto invidia a molti dei suoi colleghi.

«La ringrazio, signor Ministro», disse Demarco, grato per quel dono inatteso. «Da dove proviene?»

«È stata trovata a Roma, pensi, proprio l’altro giorno. Un segno del destino, forse. Sono convinto che porterà a dei cambiamenti.»

«Lei dice?»

«Ne sono sicurissimo», rispose Falchi. «Lo dimostra il fatto che questo, per me, è il mio ultimo viaggio.»

Demarco rimase a guardare il Ministro, come se non capisse. «L’ultimo viaggio?»

«Già, proprio così. È ciò che dev’esser fatto, in fondo, non trova?»

Ma Demarco non comprese cosa volesse dire il Ministro con quella frase.

Fuoco su Beirut

Rientrando a bordo con una delle lance ancorate alla banchina, Demarco si trastullò con la pietra meteorica, osservandone la lucentezza ai bagliori del sole pomeridiano. Si chiese per quale motivo il Ministro gliel’avesse donata, e rifletté sulle ultime parole pronunciate dal politico poco prima di salutarlo. Forse intendeva annunciare le proprie dimissioni? No, si disse, scartando subito l’ipotesi. Non l’avrebbe certo confidato a un militare che conosceva appena.

Tuttavia il frammento di meteorite catturò presto tutta la sua curiosità e Demarco accantonò ogni altro pensiero dalla sua mente. Sentì la forza estranea emanata dalla pietra, un’energia pulsante e viva che permeava la roccia e chi ne veniva a contatto. Il viaggio dal molo all’Ardito non durò che pochi minuti, ma fu un tempo sufficientemente lungo affinché Demarco si assuefacesse all’influsso cosmico di quel frammento roccioso che stringeva in mano. Anzi, il tempo parve a lui perfino fermarsi, e le scene attorno divennero un fermoimmagine nella cronologia della realtà. Nulla più si muoveva, la lancia era fissata alle onde marine come su una tela dal realismo tridimensionale. Demarco notò gli spruzzi spumosi d’acqua a mezz’aria, e fu tentato di toccarli, ma temette di spezzare quel magico incantesimo che stava vivendo. Quella forza, scoprì, aveva una duplice natura: ne avvertiva la malvagità, un potere malefico che proveniva da distanze siderali, antico come il Tutto; ma al contempo ne subì l’influenza corroborativa, e si sentì quasi rinascere, come se finora avesse vissuto la vita di qualcun altro e soltanto adesso, adesso che finalmente aveva quel frammento meteorico, potesse vivere una vita propria, con scelte e desideri che provenivano dal profondo della sua mente. La pietra era la Verità, si convinse. Una Verità atavica che l’Uomo aveva dimenticato; una Verità nata prima della comparsa della vita sulla Terra, forse ancor prima della creazione dell’Universo. C’era qualcosa di indicibilmente arcaico in quel pezzo di meteorite, un’entità sconosciuta che proveniva dai confini più remoti dello spazio, che la mente umana non poteva neanche immaginare. Demarco ne era posseduto, ma come può esserlo un pensiero, come una madre sente di possedere l’embrione che si sviluppa nel suo ventre: la pietra dello spazio e l’uomo erano come madre e figlio. E la madre, in quella dimensione spaziotemporale, trasmise i propri geni a suo figlio.

La lancia tornò a solcare le onde e Demarco si voltò verso la costa: il Ministro era ancora sulla banchina, come per sincerarsi del suo rientro sulla nave. Gli parve persino che annuisse, ma era ormai troppo distante per esserne sicuro. Poi il Ministro si allontanò, la sua figura che diveniva una forma indistinta in mezzo al via vai delle strade portuali di Beirut.

Demarco era partito per quella missione con mille interrogativi. Da convinto militarista si era sentito onorato di esser stato scelto per pattugliare le coste libanesi e assicurare supporto alle forze di terra. Da marito e padre, invece, sentiva anche il richiamo dei propri doveri di capofamiglia e capiva l’ansia e le preoccupazioni della moglie e dei due figli. Si era anche chiesto se sarebbe stato all’altezza del compito assegnatogli. Finora se l’era cavata bene. Era benvoluto dall’equipaggio, che rispondeva con prontezza e professionalità ai suoi ordini, ma non avevano ancora dovuto affrontare situazioni di pericolo. Cosa sarebbe accaduto in un intervento a fuoco?

Per fortuna aveva incontrato il Ministro Falchi, quel giorno. Una visita imprevista, ma risolutiva. Ricordò in quel momento cosa disse il ministro a proposito della roccia meteorica: “Le porterà fortuna. Saprà sempre qual è la cosa giusta da fare”.

Sì, pensò Demarco, sorridendo fra sé, mentre raggiungeva il ponte di comando. Adesso sapeva perfettamente cosa avrebbe dovuto fare. Fu un pensiero improvviso, ma il capitano ebbe la sensazione che quel pensiero fosse sempre stato nella sua mente, una convinzione ibernata che adesso, grazie al frammento meteorico, si era risvegliata dal suo lungo letargo per guidarlo nella vera missione. Adesso Demarco si sentiva parte di un disegno la cui immensità non poteva definire con la sua mente umana. Adesso sarebbe stato artefice di uno scenario che avrebbe cambiato per sempre il volto del pianeta e il destino dell’umanità.

Si chiese chi avesse dato il via a quel progetto, dove il Ministro avesse preso la pietra meteorica. Dubitava che l’avesse trovata lui. Il Ministro aveva detto che era stata rinvenuta a Roma, quindi qualcuno gliel’aveva consegnata. Però sarebbe stato lui, Nicola Demarco, il primo a avere una parte attiva in quel disegno cosmico.

Sarebbe stato lui a scatenare l’inferno.

Quando entrò in plancia, vi trovò il suo vice e un caporale. Demarco s’informò subito sulle novità, poi si domandò a chi consegnare la pietra. Meglio al caporale, la truppa viaggiava a velocità superiori rispetto agli ufficiali. La pietra sarebbe passata di mano in mano in breve tempo. In fondo era dei soldati che aveva bisogno, non dei suoi colleghi. A quelli avrebbe pensato all’occorrenza. Il caporale osservò affascinato la roccia scura che Demarco gli porse in un momento di disattenzione del vice. Il comandante non dovette ordinare nulla. Il soldato, dopo aver ammirato la pietra, cambiò espressione, come se in quei pochi secondi avesse compreso il disegno che era in atto. Lanciò uno sguardo d’intesa a Demarco e sparì sottocoperta, dirigendosi verso la propria postazione.

Il primo, tremendo boato frantumò il silenzio due ore dopo. Demarco aveva studiato la cartina di Beirut e deciso gli obiettivi. L’ordine di attaccare era stato inoltrato da lui stesso. Il vice era sbiancato al “Fuoco!”, ma un proiettile sparato dalla pistola d’ordinanza di Demarco non gli aveva dato tempo di agire. Un A184 lungo sei metri e con mezza tonnellata di esplosivo colpì in pieno la Beyrouth Radio Station, che crollò sulle sue fondamenta in una tempesta di polvere e calcinacci. L’esplosione distrusse anche alcuni edifici e strade vicini, seppellendo sotto quintali di macerie decine di persone.

Il secondo siluro fu lanciato contro il Collegio protestante, che distava appena un centinaio di metri dal primo obiettivo, cancellandolo per sempre dalle mappe stradali. Furono disintegrati anche trecento metri dell’attigua Rue Madame Curie.

Demarco osservò con il binocolo i danni provocati dai due siluri e ne fu soddisfatto. Poi diede ordine di lanciare il terzo.

Un nuovo A184 partì in direzione Nord-Est. Il colpo non fu preciso come i primi due, perché il siluro esplose a ridosso dell’entrata dell’Ambasciata statunitense, ma metà dell’edifico crollò e decine di auto che percorrevano in quel momento l’Avenue de Paris e la Rue Dar el Morayssa furono schiacciate dai detriti o sventrate dalle schegge. Agli americani non sarebbe piaciuto, si disse Demarco. Immaginava già i reparti di marines della base affannati e sconcertati, gli ordini urlati, i camion e i mezzi blindati uscire per raggiungere l’ambasciata.

Chi aveva lanciato quel siluro – e anche i primi due – sarebbe stato presto scoperto, perché l’Ardito aveva altri colpi in canna e i fuochi artificiali non erano ancora finiti. Dal porto avevano poi visto chiaramente da quale nave erano stati sparati i siluri e presto il nome del suo cacciatorpediniere sarebbe stato sulla bocca di tutti, mass media compresi. Il mondo intero avrebbe saputo che la nave comandata da Nicola Demarco stava cannoneggiando la città di Beirut, apparentemente senza alcun motivo.

Demarco sorrise. Nessuno può comprendere il vero motivo, disse fra sé.

Dopo quell’attacco la forza multinazionale si sarebbe disgregata e il governo italiano avrebbe dovuto fornire valide spiegazioni sull’operato dell’Ardito. Peccato, pensò Demarco, che la radio della nave non sia più in funzione. Le conseguenze dell’attacco, politiche e militari, sarebbero state incalcolabili.

Non c’era tempo da perdere. Non doveva dare tregua alla città, non doveva dar tempo agli eserciti in gioco di organizzarsi e sferrare un contrattacco. Doveva colpire senza soluzione di continuità. Gli occhi del mondo era puntati sulla situazione politica del Libano, in quei giorni, e Beirut rappresentava la chiave di tutto il disegno.

Demarco ordinò il lancio contemporaneo di tre siluri, tutti diretti nella zona settentrionale di Beirut. Partirono uno dietro l’altro con altrettante traiettorie. Il primo si abbatté sul quartiere armeno, gli altri due distrussero alcuni depositi di petrolio. Le dense nuvole nere che si levarono al cielo avevano un che di terrificante, constatò Demarco. Osservò per qualche secondo al binocolo le fiamme che divampavano dagli incendi e gli parve perfino di sentire le urla di disperazione e paura diffondersi in una cacofonica melodia. Se questo non è un inferno, pensò.

Si chiese come se la stessero cavando il Battaglione San Marco e il Reggimento Col Moschin. Dislocati in vari punti della città, c’erano buone probabilità che si trovassero ora assediati da marines e soldati israeliani. Li avrebbero presi per nemici, non v’erano dubbi su questo. Erano stati gli italiani a far fuoco su Beirut, dunque erano passati dalla parte del nemico.

Demarco sorrise di nuovo e si volse verso il caporale. Un cenno della testa e il suo ordine fu inoltrato. Un settimo siluro saettò dal tubo di lancio e Demarco ne seguì il volo finché non colpì il bersaglio. La residenza presidenziale saltò in aria e Rue Kantari fu squarciata in due. Le auto rimaste illese causarono una serie di tamponamenti a catena e in pochi minuti l’intera strada fu bloccata da vetture accartocciate, rovesciate o ammucchiate una sull’altra.

Le dita di Demarco formarono un 4 e il caporale inviò l’ordine di lanciare altrettanti siluri. Adesso l’obiettivo era il Beyrouth International Airport. Uno dietro l’altro i siluri tagliarono l’aria dirigendosi a Sud-Est. Il primo colpì il terminal e uno degli hangar, il secondo la stazione di polizia, il terzo l’altro hangar e il reservoir e l’ultimo esplose su una pista. I boati delle esplosioni erano assordanti. Fiamme e fumo si levarono al cielo e in mezzo a tutto quel caos si udì il lamento dell’allarme. L’aeroporto era fuori uso.

«Navi in avvicinamento!», urlò il caporale.

Demarco si volse a scrutare il mare. Tre navi stavano puntando contro l’Ardito. A quelle avrebbe pensato fra poco. «Lancia l’ultimo siluro», ordinò al militare.

Il dodicesimo siluro partì poco dopo e distrusse le ambasciate dell’Arabia Saudita e dell’Iraq e le Legazioni turca e yugoslava.

«Virare di 360° a babordo!», ordinò poi.

Era venuto il momento di dedicarsi alla lotta antinave. Aveva ancora a disposizione due lanciarazzi multipli sclar, due lanciasiluri tripli mk 32, quaranta missili Standard sm-1mr, cinque cannoni e due elicotteri Agusta Bell 212 armati di siluri. L’Ardito poteva difendersi. Anzi, l’Ardito poteva attaccare.

E avrebbe attaccato ancora, pensò Demarco. Era lì per quello, in fondo, per fare ciò che andava fatto.

«Tutti gli uomini ai propri posti!», ordinò. «Piloti pronti a decollare!»

Nihil obest, disse fra sé, volgendo le spalle alla città di Beirut che bruciava. Il motto dell’Ardito è anche il mio.

Nulla può fermarmi.

La banda dei Cross Riders

Un’ora prima che un siluro sparato dall’Ardito colpisse la stazione radio di Beirut Davide pedalava sulla sua Atala verso il vecchio abbeveratoio. Aveva dato appuntamento agli altri della banda nel punto in cui una strada sterrata si biforcava dividendosi a ridosso di un muro diroccato invaso dai rovi. Da lì li avrebbe condotti alla meteorite.

«Non fare tardi anche stasera», si raccomandò sua madre prima che uscisse. «L’altro giorno m’hai fatto stare in pensiero.»

«È che avevo sbagliato strada», mentì Davide. «Ma stavolta mi vedo con gli altri, e restiamo qua attorno.»

Non aveva raccontato nulla a sua madre della scoperta fatta due sere prima. Si sarebbe preoccupata per niente. Figurarsi se avrebbe potuto dirle che per poco una meteorite lo prendeva in pieno mentre rincasava al buio. Non l’avrebbe più fatto uscire nel pomeriggio e gli avrebbe sequestrato la bici. No, meglio tacere, per ora.

Quando arrivò, Davide guardò il suo Breil: erano quasi le quattro. Per fortuna quel pomeriggio aveva pochi compiti e li aveva sbrigati in un’ora. La prof di Lettere era malata e la supplente, una ragazza timida, non aveva assegnato nulla alla classe.

Andrea fu il primo a arrivare, sgommando con la sua bici e sollevando una nuvola di terriccio. Davide sbuffò, schiaffeggiando l’aria per allontanare il polverone.

«Devi proprio farlo ogni volta?», lo rimproverò.

Per tutta risposta Andrea impennò la sua Le Mans e rimase in equilibrio su una ruota. «Quando arrivano gli altri?», chiese poi.

«E che ne so? Ale fa sempre tardi, ma stavolta andavano a prenderlo Gaetano e Flavio.»

«Secondo te c’è ancora?»

«La meteorite? E perché non ci dovrebbe essere? Mica cammina da sola.»

«Be’, magari l’hanno portata via. Chissà quanti altri l’hanno vista.»

«Era buio. Avranno visto qualcosa che cadeva nei campi. Se Ronni non l’ha raccontato a nessuno, sta ancora là.»

«Tanto chi gli crede a Ronni, no?»

«Già. Secondo me ci sta ancora.»

Andrea impennò la bici un altro paio di volte, prima di stancarsi di quel gioco. «Mio padre m’ha preso il pezzo che mi hai dato.»

«E che ci deve fare?»

«Ha detto che voleva farlo vedere a un collega. Però ieri sera non è tornato dal lavoro. Ha telefonato a mia madre dall’aeroporto, ha detto che era dovuto partire subito per Milano.»

«Che ti frega? Tanto adesso ti prendi tutti i pezzi che vuoi.»

Qualche minuto dopo giunsero gli altri tre, in fila indiana come altrettanti ciclisti durante un Giro d’Italia.

«Cross Riders!», urlò Davide, alzando un pugno al cielo.

«Cross Riders!», urlarono di rimando gli altri.

E filarono via, veloci come il vento, liberi come aquile.

Raggiunsero il punto in cui cadde la meteorite in poco meno di mezz’ora. I cinque ragazzini si disposero a semicerchio di fronte al cratere. Restarono a fissare la scena per un minuto abbondante prima di decidersi a smontare dalle bici e scendere sul fondo. La meteorite era ora fredda, nera nell’aria pomeridiana. Da qualche parte un cane abbaiò, lontano, spegnendosi subito dopo. E fu silenzio nella campagna, un silenzio reverenziale, come se i cinque fossero di fronte a una divinità in un tempio a cielo aperto.

«Madonna!», si lasciò sfuggire Gaetano, gli occhi sbarrati per lo stupore.

«Non bestemmiare», lo riprese Davide, non staccando gli occhi dalla meteorite. Adesso poteva ammirarla meglio, adesso la luce del giorno ne metteva in risalto la forma, le cavità, il colore.

«Non è una bestemmia», si giustificò Gaetano.

«È lo stesso.»

«Chissà da dove viene?»

«Dallo spazio, no?»

«Sì, ma da dove, di preciso? Da quale stella?»

«E come facciamo a saperlo?»

«Domani lo chiediamo a quella di Scienze.»

«Portiamogliene anche un pezzo! Per terra è pieno.»

«Sì», approvò Davide. «Si può fare.»

«Secondo te ce la possiamo portare a casa?», chiese Flavio.

«Sei scemo? Chissà quanto pesa. Guarda che buca ha scavato.»

«E la lasciamo qui?»

«No», rispose Davide, «la facciamo a pezzi e poi ce li vendiamo.»

Gli altri approvarono l’idea in un coro di urla e acclamazioni.

«Io ho portato un martello.»

Davide lo tirò fuori da una custodia applicata dietro al sellino, si accovacciò e colpì la pietra. Non accadde nulla. La colpì di nuovo con più forza, ma la roccia produsse soltanto un rumore sordo e si scalfì appena.

«Ci vuole un martello pneumatico, mi sa», disse Andrea.

«E dove lo prendiamo?»

«Freghiamo una mazzetta e uno scalpello al cantiere», propose Ale.

«Giusto, hai ragione», concordò Andrea. «Ci andiamo domani pomeriggio, ma subito dopo la scuola, adesso è troppo tardi e, ora che arriviamo, se ne sono già andati.»

«Dai, prendiamo intanto qualche pezzetto che sta per terra.»

Ne raccolsero tutti, quattro o cinque frammenti di meteorite a testa. Se ne riempirono le tasche dei giubbetti e rimasero a osservare la grossa pietra venuta dal cielo. Andrea vi salì sopra, sedendovisi come se fosse la poltrona più comoda del mondo.

«Nessuno ha portato una macchina fotografica?», domandò poi.

Gli altri si guardarono e scossero la testa.

«Io ho la Polaroid a casa», disse Gaetano. «Domani la porto.»

«Bravo.»

«Che ne facciamo dei pezzi che abbiamo preso?»

«Li regaliamo a qualche amico e parente», suggerì Davide. «A scuola invece ce li vendiamo.»

«A quanto?», chiese Ale.

«Boh», rispose Davide. «Trenta o quarantamila lire l’uno, magari.»

«Quanti soldi ci facciamo? È bella grossa, la meteorite.»

«Tanti, tanti soldi», disse Flavio, carezzando la superficie della pietra meteorica e sorridendo all’idea.

«Se la rompiamo in mille pezzi, ci facciamo quaranta milioni

Ale fischiò.

«Secondo me vengono fuori anche più di duemila pezzi», ragionò Davide. «Anche duemila e cinque. Ci possiamo fare almeno ottanta milioni.»

«Oh, Madonna!»

«T’ho detto di non bestemmiare!»

«Ma stavolta ci stava tutta! Ottanta milioni di lire! Quanto fa a testa?»

Davide ci pensò su. «Sedici milioni. Se ci dice bene.»

«Ma ti rendi conto?», urlò Ale. «Sedici milioni per uno! Che ci possiamo comprare?»

Davide alzò le spalle. «Io ne do un po’ a mia madre, dice sempre che sta senza soldi.»

«Io me li faccio mettere in banca da mio padre», disse Andrea.

Gli altri tirarono fuori idee strampalate su improbabili oggetti da acquistare, viaggi da fare, assurde migliorie alle bici.

«Io mi ci compro un fucile da caccia», aggiunse infine Gaetano.

«E chi te lo vende? Non sei mica maggiorenne.»

«Me lo faccio comprare da mio padre.»

«Lo voglio pure io un fucile», disse Flavio.

«Adesso dobbiamo nasconderla.» Davide si guardò attorno. «Non la possiamo trasportare, perciò dobbiamo mimetizzarla, come si fa in guerra coi carri armati. Andiamo a cercare qualcosa da metterci sopra. Pezzi di lamiera, frasche, cose così.»

«E il cratere come lo nascondiamo?»

«Buttiamo qualcosa attorno al bordo, tanto qui è pieno di buche.»

Si mossero insieme, animati da quel nuovo incarico, elettrizzati all’idea che avrebbero celato al mondo intero una meteorite caduta dallo spazio. Era la più grande avventura dei Cross Riders, pensarono tutti quasi nello stesso istante, e si sentirono parte di un progetto di portata cosmica. Non lontano trovarono un bidone arrugginito tagliato a metà e in due lo portarono fino alla pietra. Ne allargarono le estremità e ve lo sovrapposero.

«Già così è perfetto», disse Flavio.

«No, chiudiamo i buchi con le frasche», consigliò Gaetano.

«Sì, meglio chiudere tutto», disse Davide. «E mettiamo anche qualcosa sopra al bidone. Deve sembrare naturale. Tanto qui è pieno di mondezza e nessuno ci farà caso.»

Lavorarono per alcuni minuti al camuffamento della meteorite, aggiungendo tavole di legno fradicio, una busta dell’immondizia, ramaglie, pezzi di ferro, un lavandino sbreccato, calcinacci, finché non furono soddisfatti. Davide ammirò il lavoro a qualche metro di distanza dal cratere. Da lontano appariva come una delle tante depressioni che spuntavano nella periferia in cui avessero gettato cumuli di rifiuti.

Diede a tutti appuntamento per l’indomani al bivio del muro diroccato.

«Alle due e mezza», disse Davide, perentorio. «Puntuali, anche se non avete finito di pranzare.»

Poi rimontarono sulle bici e diedero un ultimo sguardo al nascondiglio della meteorite. Quindi si volsero e filarono via.

Il giorno che piovvero bombe – Parte seconda

Tre cose Anita Fusconi odiava nella vita: i telegiornali, le partite di calcio e la carne rossa. Almeno una volta al mese, però, accettava di cucinarla per suo marito, che non vi avrebbe rinunciato nemmeno con preoccupanti parametri di colesterolo nel sangue. Pietro amava molto il calcio, invece, era il suo sport preferito da sempre, e in tv avrebbe visto soltanto partite su partite, intervallate da qualche tg, che Anita considerava noiosi, pieni di notizie di “ammazzamenti” e “solite chiacchiere di politica”.

«Ma sono impazziti, tutti quanti?», brontolò l’anziana sulla sua solita poltrona.

Avevano appena finito di cenare e Pietro era andato a preparare un tè caldo, come al solito. Dalla cucina sentì sua moglie lamentarsi e domandò: «Che è successo? È caduto il governo?»

«Magari», rispose Anita.

Acceso il gas sotto al pentolino, Pietro si affacciò in salotto. La tv era sintonizzata su Rete 1 e le immagini in bianco e nero mostravano una città semidistrutta dai bombardamenti. Colonne di fumo si levavano al cielo da numerosi punti, alcuni edifici e veicoli erano in fiamme e, anche se non in modo nitido, per le strade si riconoscevano dei cadaveri.

«Ma che è successo?», ripeté Pietro.

«È Beirut», rispose Anita. «Pare che siamo stati noi a iniziare quel macello.»

«Noi? Vuoi dire il nostro contingente? Ma che dici?»

«Così hanno detto. Una delle nostre navi ha cominciato a sparare siluri sulla città, poi altre navi hanno risposto al fuoco, ma sono state distrutte. Il comandante dev’essersi bevuto il cervello.»

«Ma chi è, si sa?»

«Un certo Demarco. Ma non mi ricordo il nome della nave.»

«Lo so io, è l’Ardito

«Sì, quella.»

«Che dicono al governo?»

«Che è un casino, adesso. Rischiamo un’altra guerra.»

«Ma non hanno capito perché l’Ardito ha sparato contro la città? Magari è stata attaccata. Il Ministro della Difesa che ha detto? Ho sentito che era partito proprio per Beirut l’altro giorno.»

«Infatti», confermò Anita. «Ma pare che non si trova. Lo stanno cercando dappertutto. Qualcuno pensa che è rimasto sotto le macerie dopo uno dei bombardamenti.»

«Santo cielo.»

«È la fine del mondo, te lo dico io», annunciò la donna. «Prima quel poliziotto che si mette a ammazzare tutta quella gente e adesso questo.»

«Ma dai, quello era solo uno uscito fuori di testa, che c’entra con Beirut?»

«E ti pare normale, a te?»

«No, ma non è la prima volta che qualcuno impazzisce e fa una strage.»

«È colpa di quella cosa che è caduta dal cielo.»

«Cosa? La meteorite?» Pietro rise. «Ma tu sei proprio fissata coi segni.»

«È cominciato tutto quel giorno. Il poliziotto ha sparato a quella gente la sera che è caduta la meteorite».

«E allora? È solo una coincidenza. A proposito, chissà se sono andati a prenderla. Non sono più andato a vedere. Adesso non è più pericoloso, s’è bell’e raffreddata, a quest’ora.»

Pietro si alzò e tornò in cucina. Spense il gas, l’acqua che già ribolliva. La versò in due tazze e mise due bustine in infusione.

«Il tè è quasi pronto», disse.

Poi andò in bagno, si infilò le scarpe, prese la giacca in camera e l’indossò.

«Vado a dare un’occhiata», le comunicò. «M’è rimasta la curiosità.»

Anita si voltò verso di lui e scosse il capo. «Peggio di un bambino. Ma che ti dice il cervello? E se l’hanno tolta?»

«Allora me ne torno a casa. Mi sono fatto una passeggiata.»

«Sì, in mezzo a drogati e battone.»

«Ma ti pare che quelli se ne stanno in mezzo ai campi, di sera? Te l’ho detto dove si nascondono.»

«Affari tuoi», disse la donna, liquidando la questione. Poi si alzò e spense il televisore. «Ne ho abbastanza di queste notizie.»

«Be’, io vado. Ci vediamo fra un po’.»

Uscì. Fuori l’aria della sera era frizzante, il cielo un po’ rannuvolato, anche se non sarebbe piovuto. Pietro cercò di capire che direzione prendere. La meteorite era caduta a circa duecento metri da casa sua, l’aveva vista chiaramente dal balcone che affacciava sulla strada – anzi, aveva sentito il sibilo e aveva visto qualcosa bruciare. Di fronte alla palazzina si ergeva un muro, oltre il quale uno sterrato e un piccolo dirupo separavano l’abitato dai campi. Per raggiungerli avrebbe dovuto aggirare il muro. Si incamminò verso sinistra e dopo cinquanta metri svoltò alla prima traversa a destra. Là non c’era alcuna recinzione a separare la strada dal terreno e Pietro entrò nel campo, portandosi all’altezza di casa sua. Scrutò di fronte a sé. Un bel dilemma, pensò: l’altra sera la meteorite era rovente e quindi visibile, ma adesso mi tocca cercare un masso al buio. Perché non me ne sono ricordato di giorno? Aveva con sé una piccola torcia. L’accese e si avviò. Quando fu sicuro di aver percorso più o meno duecento metri, si fermò. Al buio, si disse, le distanze si confondono. Chissà dove sarà cascata?

Passò mezz’ora a ispezionare il terreno, sondando l’oscurità con la torcia, guardandosi spesso alle spalle, verso casa, per correggere la direzione, ma la meteorite sembrava sparita. Sì, pensò, forse l’hanno davvero portata via. Strano che non ne avevano parlato al tg. Ma almeno avrei dovuto vedere il cratere.

Ci finì quasi dentro. Se ne accorse a pochi centimetri dal bordo e puntò la torcia nella depressione. Da lì appariva come un cespuglio pieno di robaccia buttata sul fondo, ma Pietro si accorse subito che erano soltanto rami ammucchiati alla rinfusa, assieme a vecchie tavole di legno e altro materiale di scarto. Con circospezione discese nel cratere e iniziò a togliere tutto quel ciarpame con movimenti frenetici, finché mise a nudo un grosso masso nero come le tenebre e cariato come la superficie lunare.

La meteorite!

L’aveva trovata, finalmente. Nessuno l’aveva presa, dunque, ma qualcuno aveva pensato bene di occultarla. Dubitava che fossero quelli del cnr o qualche autorità: l’avrebbero rimossa e portata al sicuro. No, chi l’aveva nascosta voleva tenersela per sé. Pietro ne sfiorò la superficie, avvertendo una strana forza fluire in lui dalla roccia. Era esaltato. Non aveva mai visto una meteorite prima d’ora e adesso poteva perfino toccarne una. Peccato non avere un attrezzo per staccarne un frammento, ma forse poteva essercene qualcuno in terra. Diresse il piccolo fascio di luce a destra e a sinistra sulla terra sassosa e riuscì infine a trovarne un paio di pezzi, uno piccolo come un bottone, l’altro grande quanto una lente d’occhiale. Li tenne in mano, illuminandoli con la torcia e soppesandoli. Erano suoi, si disse, frammenti provenienti dallo spazio profondo, ora in mano sua, suoi e di nessun altro. Per un attimo si meravigliò di quei pensieri, proprio lui che aveva vissuto la fame e le ristrettezze della guerra e del dopoguerra, proprio lui che aveva voluto vivere senza più sentirsi attaccato agli oggetti, quegli stessi oggetti che la guerra gli aveva portato via, strappato senza scuse. No, niente più legami con le cose. Eppure adesso avvertiva quel legame. Non appena aveva toccato i frammenti meteorici, se n’era sentito avvinto, e ora desiderava possederli, desiderava l’intera meteorite. Ma sarebbero bastati quei due pezzetti di roccia nera, pensò, per il suo compito. Bastava donarli e altri, come lui, avrebbero saputo come agire. Perché, scoprì Pietro ora, c’era un solo modo di agire, a quel punto. La guerra era finita da quarant’anni, come gli ricordava fin troppo spesso sua moglie, ma adesso erano alle soglie di un’altra, nuova guerra, una guerra che avrebbe spazzato via tutto il lordume che si era accumulato negli anni, fin dalla prima comparsa dell’Uomo sulla scena dell’Universo.

Inspirò a fondo l’aria della sera e sorrise. Si sentiva un altro, non più un vecchio che ciabattava per casa battibeccando con sua moglie, ma rinvigorito, se non nel corpo, nella mente e nello spirito. Nelle idee.

Uscì dal cratere, guardò la sua palazzina, si ficcò in tasca i frammenti e s’incamminò verso casa. Aveva un compito da svolgere, perché tutto ciò che si doveva fare, anche se inaccettabile, doveva esser fatto. Era come se quel compito fosse stato sempre nei suoi propositi e Pietro avesse atteso il momento più propizio per metterlo in atto. D’un tratto gli era tutto chiaro, come se le nebbie dell’età si fossero diradate e i suoi pensieri rivelati, distinti, netti.

Non entrò subito in casa, suonò prima all’appartamento del primo piano. Il lieve rumore del coprispioncino che si spostava e poi la porta si aprì.

«Signor Marconeri», disse un uomo di mezz’età sulla soglia.

«Buonasera e scusi l’orario», salutò Pietro. Si tolse di tasca uno dei frammenti e lo allungò verso il vicino di casa. «Guardi che ho trovato. È un pezzo della meteorite caduta l’altra sera. Lei l’ha sentita?»

«No… una meteorite?» L’uomo prese il pezzo di roccia e lo osservò affascinato. «Ma dov’è caduta?»

«A duecento metri da qui», rispose Pietro. «In mezzo ai campi. Lo tenga, io ne ho altri. Buonasera.»

Il volto dell’uomo si illuminò. «La ringrazio», disse.

Pietro salì le scale fino al secondo piano e suonò all’appartamento attiguo al suo. Una voce dall’altra parte chiese chi fosse e Pietro si fece riconoscere. Consegnò alla donna che gli aprì il secondo frammento meteorico e poi rientrò in casa.

Non disse nulla a sua moglie, che si stava preparando per andare a letto. Si diresse invece in salotto, aprì un cassetto che teneva sempre chiuso a chiave e ne trasse una scatola di cartone. Dentro, avvolta in un panno giallastro, c’era la sua Beretta M34 con accanto il caricatore pieno. Sette cartucce. Non l’aveva più tenuta in mano dal ’43. Pietro sorrise, inserendo il caricatore in sede. Poi scarrellò e tolse la sicura.

Quando entrò in camera, Anita gli rivolse uno sguardo perplesso.

«Che hai?», chiese. «Hai trovato la tua meteorite?»

«Certo», rispose Pietro. Poi le puntò la pistola contro e sparò.

Dal piano di sotto giunse un grido di donna e rumori di oggetti che cadevano. Qualcosa andò in frantumi, forse una finestra. Il pianto di un bambino dall’appartamento a fianco e un uomo che urlava, un urlo smorzato, un urlo di terrore e agonia. Pietro annuì.

Quando uscì dal palazzo, fuori lo attendevano i suoi due vicini, l’uomo e la donna cui aveva dato i frammenti meteorici, che ora tenevano in mano come fossero reliquie di una religione scomparsa. Bastò uno sguardo d’intesa e i tre si avviarono per le strade della borgata.

Avevano un compito da portare a termine. E la notte era ancora giovane.

Nota

Scrivere una storia ambientata nel 1983 non è stato facile. Ho vissuto appieno gli anni ’80, ma è incredibile quante cose si siano perse di quei fantastici anni. Ho dovuto documentarmi – e nel frattempo rinfrescare i miei ricordi – in continuazione. Le periferie romane, le biciclette dell’epoca, l’ordinamento della Polizia di Stato – che proprio in quegli anni aveva subito delle modifiche – le auto in voga a quei tempi, il modo di viaggiare in aereo, la situazione politica italiana e quella libanese, il gergo usato, i programmi e i canali televisivi.

Il Ministro della Difesa Vittorio Falchi non è mai esistito. Non mi piaceva l’idea di usare il vero ministro come personaggio (non ho mai amato i nostri politici), anche se è deceduto nel 2017. Ma Wazzan e Gemayel furono realmente il Primo Ministro e il Presidente della Repubblica del Libano nel 1983. La missione Italcon, e questo lo ricordo perfettamente come se fosse ieri, ebbe davvero un caduto.

Il cacciatorpediniere lanciamissili Ardito ha partecipato alla missione in Libano, a partire dal luglio 1983. Il suo comandante non era il Capitano di Vascello Nicola Demarco, mai esistito. Anche in questo caso ho preferito inventare il personaggio storico.

Ho sempre sognato di avere una bici da cross come Davide, ma a me regalarono una bicicletta pieghevole di colore azzurro, se non ricordo male era una Safari.

Faticosa documentazione a parte, è stato divertente lavorare a un racconto ambientato nel 1983. Credo proprio che tornerò a scrivere degli anni ’80.

Un grazie all’amico Luca, poliziotto, che m’ha fornito importanti dettagli. E come al solito a Anna, lettrice beta collaudata, per i preziosi consigli di sempre. Ha scovato, come al solito, un’enorme lacuna, logica, nel racconto, che a me era invece sfuggita.

Il racconto è stato scritto fra il luglio e il settembre 2017, ma soltanto a settembre di quest’anno mi sono deciso a revisionarlo.

14 Commenti

  1. Bonaventura Di Bello
    giovedì, 1 Novembre 2018 alle 9:30 Rispondi

    Secondo me dovresti mettere un link per scaricarlo in formato ePub e mobi, vista la lunghezza. :)
    Intanto complimenti, finalmente ti sei deciso! :)

    • Daniele Imperi
      giovedì, 1 Novembre 2018 alle 10:31 Rispondi

      Grazie :)
      Ci avevo pensato all’ebook, ma occorre tempo per crearlo. Forse più in là metterò il link per scaricarlo.

      • Bonaventura Di Bello
        giovedì, 1 Novembre 2018 alle 11:39 Rispondi

        Con lo strumento Write di StreetLib lo fai in pochi minuti e senza sforzo, e ottieni un ebook ‘certificato’ (in ePub e mobi) senza doverlo necessariamente pubblicare, dagli un’occhiata magari. Lo so, c’è da fare la copertina, ma per quella puoi usare Canva, scegliendo l’eventuale immagine da un sito di immagini free e senza richiesta di attribuzione per uso commerciale.

        • Daniele Imperi
          giovedì, 1 Novembre 2018 alle 12:56 Rispondi

          Ebook preparati: si possono scaricare a inizio pagina.

  2. Daniele Imperi
    giovedì, 1 Novembre 2018 alle 11:48 Rispondi

    La copertina c’è, uso quella che vedi ora, opportunamente ridimensionata.
    Io uso Sigil, per questo racconto alla fine sono 2-3 pagine in html. E la conversione in mobi con Calibre.
    Dai, forse lo faccio oggi.

  3. Giuseppe Marino
    giovedì, 1 Novembre 2018 alle 12:23 Rispondi

    Complimenti! Davvero molto bello!

    • Daniele Imperi
      giovedì, 1 Novembre 2018 alle 12:45 Rispondi

      Grazie Giuseppe :)

  4. Nani
    venerdì, 2 Novembre 2018 alle 8:50 Rispondi

    Grazie, Daniele.
    L’ho riletto con piacere. :)

    • Daniele Imperi
      venerdì, 2 Novembre 2018 alle 9:14 Rispondi

      Ah, già, tu l’avevi già letto ;)

  5. Elena
    venerdì, 2 Novembre 2018 alle 11:50 Rispondi

    Bell’intreccio. MI hai convinta a tenermi ben alla larga da qualunque meteorite!

    • Daniele Imperi
      venerdì, 2 Novembre 2018 alle 12:08 Rispondi

      Grazie, ma non era quello l’intento :D

  6. Barbara
    lunedì, 5 Novembre 2018 alle 11:03 Rispondi

    Quando ti dicono di non raccogliere niente da terra… :D :D :D
    Non so perché ma mi ha ricordato Invasion, film con Nicole Kidman, che poi è un remake di L’invasione degli ultracorpi, di cui non ho (ancora) letto il libro. Forse per l’influsso malefico che sembra quasi una possessione aliena.
    Curiosità: perché hai scelto di trattare la parola meteorite al femminile, quando la maggioranza la tratta al maschile? La meteorite cattiva è femminile, il meteorite buono è maschio?! :D

    • Daniele Imperi
      lunedì, 5 Novembre 2018 alle 11:53 Rispondi

      Non ricordo quel film, e non ho letto il libro, che devo rimediare.
      Meteorite: così non vengo accusato di fare del sessismo linguistico :D
      M’era venuto il dubbio, così ho visto nel dizionario che, come alce, è sia maschile sia femminile. Io l’ho sempre usata al femminile la parola.

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