Per quanto l’occhio s’estenda, oltre i tetti di case abbarbicate su colline rocciose e mucchi di pietre consolidate, non riesco a intravedere i confini di Stratus, il nuovo mondo rinato dalla distruzione di secoli fa. Non c’è più la società d’un tempo, con le sue strutture e le leggi e i voti e le assemblee. I Padri dicono che neanche il ricordo di quelle forme di governo è sopravvissuto fino a oggi e che gli scritti, impressi su materiali deboli, sono stati ridotti in cenere dalle fiamme, disintegrati dall’acqua, sbriciolati dai crolli.
Ora, come Mastro Incisore, ho imparato a scrivere la Storia su tavole di pietra che nessun fuoco, né acqua, né frane potranno annientare. Insegno la mia arte agli ultimi venuti, i Distinti, che percorrono assieme a noi le vie di Stratus, non più prigionieri nelle sue viscere, da cui io stesso fuggii tempo addietro.
Laggiù non c’è requie.
Ma ormai appartiene tutto al passato, una vita che non mi riguarda più, anche se torna nei miei sogni e nei miei pensieri: le frane, i rumori assordanti, i sibili annunciatori, il vento assiduo, la scalata, le notti insonni. Tutto questo era la mia vita prima.
Laggiù.
Nei Livelli.
Il rumore devastante lo colse impreparato. Quintali di rocce e terriccio rovinarono dall’alto quasi seppellendolo vivo. Tossì, sputò polvere e grumi. Agitò le mani in cerca di appigli, scalciando per rimuovere i detriti. Si tirò fuori da quella tomba, respirò a pieni polmoni, l’oscurità cieca che lo sovrastava pesante e densa.
Chiamò gli altri. Nessuno rispose. Erano in quattro in quella frattura, ma degli altri non sapeva neanche il nome. Si pulì gli occhi e chiamò di nuovo.
Silenzio.
Poi un sibilo.
E giunse il vento. Raffiche di aria fredda e grumi di polvere e residui lo buttarono a terra. Si tenne aggrappato a un masso, resistendo contro la forza dell’aria che spirava da chissà dove in quel mondo che andava implodendo giorno dopo giorno, rigurgitando se stesso e ricostituendosi in una continua, infinita metamorfosi.
Quando la calma tornò, si tirò su.
Chiamò ancora.
Città distrutte, annientate da pseudosismi parossistici, il pianeta una ragnatela di squarci, fessure, solchi. Tutto sprofondò giù, nell’inferno del sottosuolo. Non più comunità, non più continenti, non più l’idea stessa di nazioni, popolazioni, vite. Eravamo solo sopravvissuti che non dovevano fare altro che scavare, sputare terra, salire di livello in livello fino a incontrare di nuovo la superficie.
Se c’era ancora una superficie lassù.
Dalle nubi giunse una luce pallida. Era giorno, capì. Si strinse la giacca addosso, ma il freddo l’assaliva ancora. Aveva fame.
Vagò per qualche minuto in cerca di cibo, rovistando fra i detriti. Era difficile, si accorse, capire che cosa fosse crollato, se i resti di un palazzo, di una strada, di un campo. Tutto era ogni volta caos di elementi, materiali, corpi.
Le fitte allo stomaco arrivarono presto. Non ricordava quando aveva mangiato qualcosa l’ultima volta. Avevano trovato delle carogne di cane, giorni addietro, la carne non ancora guasta. Se n’erano nutriti divorandola fredda, scuoiando le bestie a mano o usando pietre acuminate come i loro antenati della preistoria.
Trovò il cadavere di uno dei suoi compagni. Il volto sfigurato, il cranio sfondato da un masso. Due arti mancanti.
Tornò indietro.
Si accovacciò al riparo di qualche roccia, sulla parete della frattura.
C’era.
Ne ebbi la certezza quando era sempre più vasta la porzione di cielo visibile dal fondo del mio livello.
E dalle voci che giunsero, lontane, ma chiare: voci umane.
C’era ancora una superficie, c’era ancora vita lassù, da qualche parte.
Qualcuno era riuscito a risalire, a sopravvivere ai crolli, a uscire dai Livelli.
Aprì gli occhi al buio. Non seppe dire se fosse notte oppure un altro giorno di nubi. I dolori allo stomaco si fecero più forti. Respirava a bocca aperta, come se fosse stremato da una corsa. Gli occhi, infossati nel volto ferito e sporco, erano spalancati, il pensiero rivolto al corpo senza vita dell’altro e lo sguardo sofferto di decisioni impossibili da prendere.
Lontane.
Tutto ciò in cui aveva creduto, i tabù che lo legavano e proteggevano, rischiavano di crollare assieme al mondo e a ciò che ne restava.
A pochi metri da lui i resti del compagno.
La fame.
Vicina.
Chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi, augurandosi di non far più ritorno alla veglia.
La prima volta scivolai. Potevo vedere la fine del Livello, due metri e mezzo più su. Spiccai un salto, afferrando il bordo della spaccatura, ma le mani non fecero presa e caddi. Riprovai più volte, ma ero stanco, senza più energie.
Accatastai rocce su rocce e riprovai. Mi tenni al bordo, scalciando per darmi la spinta finale coi piedi.
Poi riuscii a poggiare i gomiti e con un ultimo sforzo mi tirai fuori dalla frattura.
Ce l’avevo fatta.
Mi tirai su e guardai attorno a me.
Si svegliò. Urlò per le fitte allo stomaco, contorcendosi sui detriti e piangendo senza lacrime.
Strisciò verso il cadavere, sedette, afferrò un braccio, lo lasciò ricadere. Restò in quella posizione per parecchio tempo, indeciso su cosa fare. Prese ancora il braccio, lo scosse come per accertarsi che fosse attaccato, lo lasciò andare di nuovo.
A fatica si alzò e tornò indietro.
Con una mano frugò fra le macerie, tirò fuori qualcosa e l’annusò. Non capì se fosse commestibile, ma provò ad addentarla. Gomma, forse di pneumatico.
Tornò dal cadavere. Si distese lì, in una patetica necrofilia.
«Chi eri?», chiese al nulla.
Non capii subito cosa stavo vedendo. Oltre la frattura si estendeva un deserto di detriti. La superficie era ancora attraversata da un reticolo di spaccature, ma in lontananza potevo scorgere il fondo di alcune, segno che s’erano riempite, e oltre mucchi di roccia e terra e quelle che sembravano costruzioni.
Avanzai in quella direzione, incuriosito e con la speranza che qualcosa poteva ancora cambiare. Camminai per circa due ore quando vidi una figura venirmi incontro.
«Felice ritorno», mi disse. «Seguimi, le Vasche della Rinascita accoglieranno il tuo corpo. Poi sarai portato nella Sala dell’Assunzione».
Quella notte non dormì. L’odore della carne in putrefazione lo avvolse e i dolori allo stomaco divennero insopportabili. Scosse il corpo più volte, come se volesse svegliarlo.
«Perdonami», disse.
Poi si alzò, cercò una pietra affilata e colpì l’unico braccio del cadavere.
Mi igienizzarono, ripulendomi dalla polvere di mesi e mesi di calvario nei Livelli. Poi entrai in quella che era una mensa comune e che avevano chiamato Sala dell’Assunzione. Mangiai poco, era prevista una dieta per chi aveva digiunato e era malnutrito, ma mi sentii meglio comunque.
Da allora iniziò per me un lungo tirocinio di insegnamento e riabilitazione fisica. Seppi che ciò che vedevo era Stratus. Un nome che rievocò in me i Livelli.
«È per questo che è stato scelto», disse il mio Patrono. «Per rimembrare il passato di ognuno e perché Stratus nasce da depositi del precedente mondo andato distrutto. Le faglie hanno fratturato la Terra, inghiottito i mari, annientato continenti e civiltà. Ma tutto ciò che è andato perduto è ancora qui, sotto di noi, in strati su strati di cemento, suolo, vegetazione, corpi, mezzi, ferro. Camminiamo sul nostro passato e sulla nostra morte. Stratus è il nostro domani».
Soppesò il moncone che aveva in mano. Sembrava leggero. Con la pietra tentò di ripulirlo dalla sporcizia e dalla pelle. Il sangue gli macchiò mani e pantaloni.
Lottò contro se stesso e le sue inibizioni. Poi addentò la carne e tenne il boccone fra i denti senza inghiottire. Gli occhi lacrimarono. Tremò per il freddo e la sensazione insolita che avvertiva.
La salivazione aumentò e lunghi rivoli di bava colarono dalla bocca perdendosi fra la barba incolta.
Con un sforzo prese a masticare.
Stratus. Case abbarbicate su colline rocciose e mucchi di pietre consolidate. I Livelli ridefiniti in una nuova entità. È una civiltà rigenerata quella che ora vive sulla superficie terrestre. C’è ancora acqua e le piante non sono andate tutte distrutte. Dal suolo spuntano alberi distorti, spezzati ma ancora vivi, cespugli e arbusti crescono in mezzo a detriti eterogenei, erba si sviluppa ovunque. Il mondo è ancora verde e azzurro e degli altri colori che prima vedevo in natura.
Ma il mio pensiero torna sempre laggiù, ai Livelli. Va ai miei compagni e ai loro corpi che nutrirono il mio. È grazie a loro se sono vivo, ora, Mastro Incisore e Primo Istitutore di Stratus.
Sono io che accolgo i sopravvissuti, adesso, che li trasformo in Distinti, sono io la figura che avanza verso chi riesce a vincere nei Livelli.
E sto aspettando te.
Luigi Leonardi
Ciao Daniele,
la tua voglia di liberarti da questa pseudo civiltà straripa in ogni riga di questo racconto, ma anche in altri tuoi scritti. Ed è anche la mia; ma sono pessimista, o meglio realista comprendendo che la natura umana non potrà cambiare.
In questo racconto apocalittico mi hai riportato a quello spirito comunistico che si respira da “La città del sole” di T. Campanella: la mensa comune, il mastro incisore, (offiziale) i livelli.
E la volontà determinante di liberarsi dalle pastoie, dalle spire di un sistema tanto feroce quanto disgustoso ( politica, profitto, vanità di potere.. ) emerge da chi non si rassegna. Una volontà che non concede a tutti la vittoria, ma che comunque ne contribuisce l’attuazione. E’ forse questo il messaggio?
Daniele Imperi
Ciao Luigi,
forse la voglia di disfarmi di questa pseudo civiltà è inconscia
Devo assolutamente leggere La città del sole, ce l’ho
Non c’era nessun messaggio, a dire il vero, ma è bello che ognuno trovi il messaggio che ci vede.
Cristiana Tumedei
A me questo racconto apocalittico è piaciuto molto Daniele. Come sempre, le ambientazioni sono ben descritte e l’atmosfera si riesce a percepire senza difficoltà. Perché dicevi che non ti convinceva?
Daniele Imperi
Grazie.
Perché è scritto di getto e velocemente
Andrea Mandelli
Laggiù non c’è requie.
Ma ormai appartiene tutto al passato, una vita che non mi riguarda più, anche se torna nei miei sogni e nei miei pensieri: le frane, i rumori assordanti, i sibili annunciatori, il vento assiduo, la scalata, le notti insonni. Tutto questo era la mia vita prima.
Laggiù.
Nei Livelli. MAGNIFICO!!! Ho iniziato a leggere i suoi racconti pochi giorni fa. FUGA DAL TEMPO ricorda davvero IL DISTRUTTORE NERO di VAN VOGT. Ma è più inquietante. A mio modesto parere mostra elementi strutturali da vera fuga musicale. Complimenti. E grazie. Andrea
Daniele Imperi
Ciao Andrea, grazie per la lettura e l’apprezzamento e benvenuto nel blog