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Semplificare la scrittura: è ciò che dicono molti professionisti del settore (blogger autorevoli, copywriter e scrittori famosi). L’uso di un linguaggio semplice ci aiuta a raggiungere un pubblico più vasto.
Isaac Asimov disse di aver scelto un linguaggio semplice per poter scrivere più libri. E infatti ne scrisse qualche centinaio (e milioni di copie vendute: solo la saga della Fondazione ne ha vendute oltre 20 milioni).
Anche Stephen King (che secondo il «Washington Post» ha venduto oltre 350 milioni di copie) scrive usando un linguaggio semplice – ma come lessico lo preferisco a Asimov. D’altra parte Cormac McCarthy ha uno stile molto ricercato e appena una decina di libri sulle spalle a quasi 90 anni d’età (e non ha raggiunto quei numeri di copie vendute).
Che cosa significa semplificare la scrittura?
Ecco alcune regole diffuse spesso:
- Scrivere paragrafi brevi e frasi brevi.
- Non usare parole gergali o dialettali.
- Non usare parole complicate.
Rispetto queste regole? Nella scrittura creativa assolutamente no. Un lettore mi ha fatto notare più volte che nei miei racconti ci sono periodi troppo lunghi. Uso anche frasi lunghe. Non uso però parole gergali o dialettali, almeno credo, ma complicate sì, se capita. In un classico moderno, di cui non ricordo né titolo né autore, ho letto periodi durati perfino più pagine.
Nella scrittura per il web uso invece un linguaggio chiaro. Paragrafi più brevi possibile, frasi brevi, parole semplici.
Perché? Leggete il punto seguente e lo saprete.
Scrittura semplificata: differenza fra scrittura creativa e per il web
Non si possono fare paragoni fra la scrittura creativa – la scrittura di romanzi, racconti, poemi e sceneggiature – e la scrittura per il web – la scrittura di articoli per blog e di testi per pagine web.
Sono due scritture differenti perché sono diffuse su supporti differenti: la carta stampata (ebook compresi, naturalmente) e il web.
- Nel web il lettore legge più velocemente, cerca informazioni e le vuole scoprire subito, non ha mai tempo (non si sa bene perché).
- Quando legge un libro, il lettore ha tempo, perché si sta rilassando, sta leggendo storie di intrattenimento o anche saggi, poesie.
Due funzioni diverse, dunque, che richiedono diversi linguaggi.
Il concetto di linguaggio semplice
È il contrario dell’aziendalese, del burocratese e del linguaggio istituzionale. Il linguaggio semplice usa espressioni chiare e dirette, non usa più parole del necessario né frasi contorte.
Un linguaggio semplice trasmette il messaggio nel più breve tempo possibile e può essere compreso da più persone. Soprattutto non potrà essere frainteso.
Ecco a confronto un brano preso dal sito dell’Agenzia delle Entrate e una mia revisione per renderlo meno contorto, in cui ho eliminato il 28% delle parole.
Come richiedere l’inclusione nel Vies
La volontà di essere inseriti nel Vies viene espressa compilando il campo “Operazioni Intracomunitarie” del quadro I dei modelli AA7 (soggetti diversi dalle persone fisiche) o AA9 (imprese individuali e lavoratori autonomi). Vale come manifestazione di volontà di porre in essere operazioni intracomunitarie la selezione della casella “C” del quadro A del modello AA7 da parte degli enti non commerciali non soggetti passivi d’imposta.
Come richiedere l’inclusione nel Vies
Compila il campo “Operazioni Intracomunitarie” del quadro I dei modelli AA7 (soggetti diversi dalle persone fisiche) o AA9 (imprese individuali e lavoratori autonomi). Gli enti non commerciali non soggetti passivi d’imposta devono selezionare la casella “C” del quadro A del modello AA7 per effettuare operazioni intracomunitarie.
Quando e perché eliminare parole inutili
Non sono un economo di parole, almeno non nella scrittura creativa (e neanche qui, visto che spesso supero le 1000 parole ad articolo). Ma nella scrittura per il web – come anche nella scrittura tecnica (manuali, libretti delle istruzioni, ecc.) o in quella istituzionale – una certa economia di parole rende il testo più chiaro, scorrevole, comprensibile, adatto a tutti.
Ci sono parole che taglierei, parole che allungano inutilmente il testo – e che reputo anche cacofoniche. Alcuni esempi visti online:
La mia guerra contro gli “in quanto”
- Non ti hanno promosso in quanto non hai studiato
- In quanto alla faccenda, ti dirò qualcosa più avanti
- Non ti hanno promosso poiché non hai studiato
- Sulla faccenda ti dirò qualcosa più avanti
Il linguaggio contorto delle istituzioni
Di nuovo un brano dall’Agenzia delle Entrate (dal momento che prendono i miei soldi, posso massacrarli un po’, vi pare?).
L’accesso documentale consente ai soggetti interessati di accedere a quei documenti amministrativi la cui conoscenza è necessaria per la tutela di una propria situazione giuridicamente rilevante.
L’accesso documentale consente agli interessati di accedere ai documenti amministrativi utili alla tutela di una propria situazione giuridicamente rilevante.
Eliminare parole inutili rende le frasi meno ingarbugliate. Ma forse, senza neanche essere troppo complottista, è il gioco (sporco) delle istituzioni evitare una scrittura semplificata?
E basta con tutto quest’inglese!
La mia battaglia contro l’(ab)uso di parole inglesi nella lingua italiana continua, anche se forse sarà una battaglia contro i mulini a vento – ma il personaggio di Don Chisciotte m’è sempre piaciuto.
Eliminate le parole inglesi dalla lingua italiana – quelle inutili, ovvio, non dico né pretendo di eliminare flash, web, computer, che restano confinate a determinati contesti e sono entrate nel linguaggio perché realmente rappresentano qualcosa che prima non esisteva.
Ma competitor cosa mai rappresenta che prima non c’era? E brand? E mission? E vision? E basta!
Su Linkedin una professionista nei miei contatti ha scritto (il corsivo è mio):
Quello che sta succedendo a Napoli in queste ore, se letto con gli occhi della consumer behaviour, assume significati completamente diversi.
Sarà per deformazione professionale o per la passione che nutro per lo studio del comportamento umano, ma non posso fare a meno di notare il concetto di “fear arousing appeal” e relativa “strategia di coping”.
Io non ho capito nulla. Ma negli ultimi anni spesso non riesco a capire cosa scriva e dica la gente, con tutto questo inglese nelle frasi: alla fine non state scrivendo né in italiano né in inglese e il peggio è che neanche ve ne rendete conto.
La pandemia, poi, ha aggravato la situazione. Perché lockdown e non isolamento (o, meglio, confinamento)? Perché recovery fund e non fondo per la ripresa? Perché contact tracing e non tracciamento dei contatti?
L’abuso di inglese complica notevolmente la comprensione di un testo italiano.
Semplificare o no la scrittura?
La scrittura creativa, secondo me, deve restare frutto della creatività dello scrittore, perché rappresenta le sue emozioni del momento, è testimone del suo stile narrativo, l’immagine della sua personalità.
Negli altri casi una scrittura semplificata riesce a raggiungere un pubblico più ampio, perché i suoi destinatari sono un pubblico più ampio.
Tendete a semplificare la vostra scrittura? Se sì, in quali contesti?
Elisa
Buongiorno.
Dipende.
Io lavoro nel pubblico e tendo a semplificare per l’utenza. Peccato che i “burocrati” poi riformulino il tutto in “burocratese” appunto. In effetti io tendo a ridurre, a togliere il non necessario, ma garantisco che è pressoché impossibile: non te lo fanno fare, come se fosse un linguaggio necessario proprio per non farsi comprendere.
Via sicuramente gli inglesismi e concordo perfettamente: nella scrittura creativa si scrive ciò che si è!
Daniele Imperi
Buongiorno Elisa, i burocrati sono il male d’Italia
Gli inglesismi pure.
A questo punto devo davvero pensare che l’obiettivo sia non farsi capire.
Elisa
Non ci crederai: pensano di essere chiarissimi.
Daniele Imperi
Ci credo eccome
Corrado S.Magro
Pensando a chi semina a piene mani “barbarismi-neologismi” importati negli scirtti, mi salta agli occhi l’immagine dei cagnetti che fanno di tutto per guadagnarsi la simpatia del molosso. E poi c’è lo “spocchio”, l’essere “IN”, marchio della nostra meschinità o della nostra ignoranza. Una considerazione diversa per la lettura/scrittura digitale. Premettendo che la transizione è un fenomeno costante che varia solo d’intensità, i lettori di domani cresciuti in un ambiente “più” digitalizzato saranno meno soggetti al dualismo carta-schermo.
Sono del parere che adotteranno un ritmo diverso nella lettura di un romanzo o testo didascalico digitale, da quello delle notizie lampo. Lo facciamo già oggi con il cartaceo a secondo quello che leggiamo e l’interesse o il valore che gli diamo.
Daniele Imperi
Mah, forse essere nati nell’era digitale non è un vantaggio per quelle generazioni, perché sono abituate ai testi insipidi, istantanei e brevi del web e trovandosi davanti a romanzi monumentali di spaventano. E neanche capiscono, forse.
Corrado S. Magro
Un aspetto, il tuo, da non escludere perché mai assente anche nell’epoca del cartaceo ma da non generalizzare. Nell’ambiente in cui vivo ho la possibilità di osservare alcuni lettori di domani: adolescenti e pre-adolescenti, che frequentano la scuola o i due anni di asilo obbligatorio in preparazione di essa. L’approccio al digitale non è leggero né tantomeno superficiale ma robusto e profondo, analogo in qualche modo alla matita per le aste o gli “o” (senza bicchiere). Non è solo quello del telefonino “Tik-Tok, FB … minchiate e basta” che contagia più generazioni, in cerca di cosa poi, se escludiamo l’informazione valida che è tanta? La scuola in questo contesto ha un ruolo vitale e può offrire alle nuove leve la capacità di gestire l’immenso patrimonio multimediale e di separare la farina dalla crusca.
MikiMoz
Sono d’accordo con te.
C’è da distinguere bene per quale ambito si scrive, a chi ci si vuole rivolgere, e DOVE si scrive,
Già, perché penso anche che un articolo di blog non può essere uguale a un analogo articolo di magazine cartaceo, sebbene l’argomento possa essere identico e identico anche l’autore.
Sembra strano, ma è così, e lo hai esposto chiaramente.
Sul web la gente scansiona con lo sguardo, vuole tutto e subito, e bisogna anche distinguere tra articoli corposi e articoli semplici; e quelli corposi, peraltro, anche impaginarli bene.
Che poi serve pure questo: l’uso azzeccato di immagini, spazi, capoversi, grassetti.
Quanto all’inglese: non lo demonizzo, spesso con una parola in quella lingua si intende proprio tutto un concetto circoscritto. Può essere il caso del recovery fund, che associamo immediatamente alla situazione covid-19, per dire.
Insomma, tranne l’esempio assurdo del tuo contatto, che usa questi termini quasi a sproposito (cioè, sono usati bene ma superflui, non occorre), trovo l’inglese utile come arricchimento del nostro stesso discorso, in un’ottima di linguaggio dinamico.
Moz-
Daniele Imperi
Un articolo di blog non è uguale infatti a un articolo di giornale o di rivista cartacei, che possiamo assimilare, almeno come supporti, ai libri.
Non vedo l’inglese come un arricchimento del discorso, perché impoverisce la nostra lingua, mandando in pensione parole italiane a vantaggio di inutili parole inglesi.
MikiMoz
Beh, no, se le usiamo entrambe. È qui che sta il tutto…
Moz-
Orsa
Mh… non mi piace il postulato “semplificare per arrivare a più persone”, sa tanto di abbassiamo il livello per raggiungere la massa.
Anche durante il Ventennio l’uso della parola scritta mirava a raggiungere “tante persone”, soprattutto in quei contesti rurali con bassissima percentuale di alfabetizzazione.
Eppure era un linguaggio molto solenne, forbito e ricercato. No a me non dispiace un linguaggio ricercato: denota studio, analisi, esplorazione. Lo apprezzo molto.
Diverso è l’abuso di tecnicismi e inglesismi. Vediamo se riesco a ridicolizzare il concetto (in realtà ci vuole poco):
la mission è: generare follow-up a benefit di un background culturale bipartisan contro il digital divide. Il leitmotiv non deve essere underground ma politically correct, e soprattutto gay-friendly. Con l’uso corretto dell’inbound marketing, lo scrittore moderno sbaraglierà i competitors e sarà evergreen agli occhi dei followers, conquistando il target del sold out.
A proposito di SoldAT… 😂 “battaglia contro gli inglesismi”, “guerra contro gli in quanto”: e poi sarei io la guerrafondaia?
Buongiorno!
Daniele Imperi
Anche a me sa di abbassare il livello.
Il linguaggio solenne era proprio dell’epoca, ma forse c’era anche prima, tra fine ‘800 e primi del ‘900.
Hai ridicolizzato alla perfezione, ma anziché riderci su c’è da piangere perché ho paura che pian piano si arriverà a leggere davvero porcherie del genere (e qualcuno lo fa già ora).
Anch’io son guerrafondaio!
von Moltke
Ciao Daniele, e grazie per un altro articolo interessante.
Riguardo alla scrittura creativa, l’appunto che mi è stato fatto dalla mia lettrice beta è che il mio periodare è decisamente barocco, le frasi sono lunghe e complesse. Mentre autori di best-seller (lei mi citava Robert Harris) scrivono, appunto, periodi molto brevi. Dopo questo ho cercato di accorciare le mie frasi, anche se bisogna pur ammettere che è anche una questione di stile, non ci si può costringere ad una gabbia e scrivere tutti uguale. Certo, bisogna anche poterselo permettere, soprattutto in casi limite: un Umberto Eco poteva iniziare un periodo e farlo finire dopo una pagina, ma lì, appunto, si trattava di una scrittura volutamente barocca che cercava di ricreare anche stilisticamente un’epoca. E sapeva che l’editore non gli avrebbe comunque rifiutato la pubblicazione. Oggi un esordiente si vede cestinato alla prima pagina se il c.d. lettore professionale si stufa dopo le prime cinque righe.
Quanto alle parole “difficili”, ossia un po’ desuete, ricercate, a volte tecniche, me le cerco apposta. Quì è davvero questione di stile, e non accetto di essere ridotto a scrivere come per un pubblico di bambini delle elementari, almeno se non scrivo libri per bambini. Una volta un tale che aveva preso un mio manoscritto mi disse di essersi arenato, lui e un suo conoscente, perché c’erano “parole troppo difficili”. Come ad esempio “chinavano”. L’ho mentalmente spedito in Siberia con una condanna a vita e non ne ho più voluto sapere nulla.
Niente termini gergali, e neppure parole storpiate nel tentativo di ricostruire un accento straniero. Mi sembra ridicolo, in un libro, far parlare un tedesco come una Strurmtruppen, anche se nella realtà rende proprio così.
All’inglese ho dichiarato proprio guerra. Amo leggere in inglese, ma mi rifiuto di seguire chi infarcisce di termini inutili discorsi e frasi che divengono ridicole e incomprensibili. Siamo ormai quattro gatti, ma mi sembra una battaglia di civiltà.
Daniele Imperi
Secondo me dipende anche da cosa stai scrivendo. Un giallo breve con stile barocco per me stona, per esempio, così come stonerebbe un western con quello stile.
Gli editori dovrebbero avere lettori preparati.
“chinavano” dal verbo chinare? Sarebbe difficile?
Per far parlare stranieri in italiano in una storia bisognerebbe ricreare bene la loro parlata, ascoltandoli o leggendo ciò che scrivono.
Sull’inglese è davvero una battaglia di civiltà: non si può accettare questo stato di cose.
von Moltke
D’accordo con lo stile che non deve disturbare l’azione. Io scrivo romanzi storici, e mi sentivo giustificato ad una certa ampollosità. In seguito, come detto, ho cercato di limitare certi effetti alla Kant (che scriveva proprio dimenticandosi del punto).
Guarda, ho riletto le prime due pagine del romanzo che gli avevo dato da leggere e “chinavano” dal verbo “chinare” è la parola più ‘difficile’ che ci ho trovato. Poi però ho notato una cosa: è pieno di nomi e cognomi russi, essendo ambientato in Russia negli anni della Rivoluzione. Quindi forse erano queste le “parole difficili” che hanno spaventato questi due Gianni e Pinotto della lettura.
Probabilmente sulla parlata degli stranieri hai ragione, ma io proprio non ci riesco: mi sembra sempre così pesante o ridicolo, un tedesco mi diventa una Sturmtruppen, un inglese Stanlio e Ollio, un francese l’ispettore Clouseau…
Daniele Imperi
Se sono difficili i nomi russi, e molti lo sono (ma prova a leggere certi nomi indiani!), allora questi non leggeranno mai i classici russi.
Il tedesco delle Sturmtruppen, l’inglese di Stanlio e Ollio (che poi era italiano e magari non sai perché parlavano così i doppiatori), e il francese dell’ispettore Clouseau sono caricature della lingua e non rappresentano la realtà.
Ferruccio
Sono molto in sintonia con il tuo pensiero e anch’io aborro i troppi inglesismi. In linea di massima ritengo che un determinato stile di scrittura debba integrarsi perfettamente e in maniera lineare con chi lo legge. Per spiegarmi meglio voglio dire che la scrittura di un documento legale è perfetto se lo legge un avvocato, è invece idiosincratico per una persona comune che deve solitamente ricorrere a un avvocato. Insomma un articolo per i lettori del blog funziona se è scritto in un determinato modo. Per la narrativa il discorso lo ritengo molto soggettivo. Io per esempio non sopporto la narrativa di King, non riesco a leggere quasi nulla di suo, lo trovo pesante malgrado la sua semplicità. L’effetto contrario mi fa McCarthy, magari dipende dal fatto che le sue storie mi appassionano, ma lo trovo di una precisione talmente maniacale con la sua scrittura da farmelo apparire “semplice”
Daniele Imperi
Davvero trovi pesante King? Anche lo stile va a gusto: ho trovato stili di scrittura che, anche se semplici, non mi piacevano.
McCarthy non si discute
Ferruccio
Lo trovo davvero pesantuccio. Tutte le volte che provo a leggere qualcosa di suo mi chiede se quella frase presente in quel paragrafo è veramente necessaria, cose del genere.
Per esempio:
“Per me, il terrore – il vero terrore, ben diverso da tutti i demoni e gli orchi che avrebbero potuto vivere nella mia mente – cominciò un pomeriggio di ottobre del 1957. Avevo appena compiuto dieci anni.”
Io trovo inutile tutto quello scritto tra i trattini e anche quell’appena della seconda frase, ma è tipico di King
Daniele Imperi
Be’, King è prolisso, questo sì. L’esempio che hai fatto si trova spesso nei suoi romanzi. A me non dispiace, devo dire, ma a volte ho trovato dei pezzi che io al suo posto avrei tagliato.
Ma fa parte del proprio modo di scrivere.
Grazia Gironella
Non mi è mai capitato di semplificare la mia scrittura, ma non amo scrivere in modo complicato, dotto o barocco, perciò il mio stile è semplice di natura (almeno a mio parere). Non mi viene spontaneo, e nemmeno vorrei, usare termini lontani dal linguaggio quotidiano, se non quando servono a caratterizzare un personaggio. Quanto all’abuso di termini inglesi, il tuo esempio rasenta l’assurdo per quanto diventa poco comprensibile. Se dobbiamo partire dal presupposto che capisca solo chi conosce l’inglese, allora scriviamo l’articolo direttamente in inglese! Non mi disturbano termini inglesi qua e là, se sintetizzano bene un’intera espressione e sono conosciuti; altri proprio non li capisco: mission e vision suonano anche un po’ ridicoli, così uguali all’italiano ma “nobilitati” dall’omissione della vocale finale.
Daniele Imperi
Lo stile è personale proprio perché viene spontaneo.
Anche secondo me molti pensano di “nobilitare” (e le virgolette ci stanno bene) i loro scritti e la loro parlata inserendo questi termini. Ieri sera il nostro “Ministro” (e anche qui ci stanno bene le virgolette) degli Esteri in un’intervista se ne è uscito con “è quasi un game changer” o qualcosa di simile. Che vuol dire? Io non ho capito e così credo il 99% degli ascoltatori. Forse s’è capito da solo. Fossi stato il giornalista gli avrei chiesto spiegazioni: “Scusi, Ministro, può tradurre in italiano? Grazie”.
Alice
Per rispondere alla tua domanda, personalmente non tendo a semplificare perchè devo, nè tendo a complicare “Perché così è più profondo”. Credo che tutto dipenda dalla storia, dal personaggio, da quello che vogliamo far capire direttamente e indirettamente e sopratutto dal tipo di pubblico vorremmo “ammaliare”.
Devo ammettere di cercare sempre nuovi modi di accostare le parole, sopratutto quando devo fare paragoni, ma solo per cercare di non essere ripetitiva o scontata… con questo non voglio intendere che scambio i termini italiani con quelli inglesi, infatti condivido la tua opinione. La trovo una moda fine a se stessa oltre che, in alcuni casi, incomprensibile.
Magari il termine lockdown ( come anche gli altri usati per descrivere la situazione Covid-19) sono utili perché usati nella maggior parte dei paesi e non ne vedo un abuso, ma solo perché inseriti in un contesto che va oltre il nostro paese.
Per quanto riguarda l’ articolo, devo ammettere che ho gradito di più quello in cui consigliavi uno studio delle parole e le sfumature di significato…però ho apprezzato molto la discussione che è nata e il tema, secondo me fondamentale, del fatto che oggi un po’ tutti, non solo i giovanissimi, cercano la via più breve senza riflettere e questo anche su ciò che si legge e sul tempo che viene dedicato alla lettura.
Daniele Imperi
Ciao Alice, benvenuta nel blog. L’uso di parole inglesi è diventata una moda, o forse un vizio, che è peggio.
Lockdown per me non si può usare neanche in contesti che parlano di altri paesi, perché stai comunque parlando in italiano a italiani. I miei nonni non avrebbero capito.
Annalisa
Daniele, ti ringrazio per l’esempio sull’Agenzia delle Entrate perché a volte mi sento un’analfabeta funzionale. Magari è la mente poco fresca o la concentrazione che viene meno, boh. Una volta ho scritto all’INPS in merito a un dubbio: mi è arrivata come risposta una supercazzola brematurata che ho riletto cento volte e poi sono dovuta andare allo sportello per farmela tradurre…
Daniele Imperi
Tutte le istituzioni scrivono così. Mesi fa scrissi alla Polizia per chiedere informazioni per un ricorso e hanno risposto in burocratese… secondo me hanno delle risposte preconfezionate.
Annalisa
Può essere… Oppure hanno il cervello “burocratizzato” e nemmeno si accorgono di parlare un altro idioma
Barbara
Come tutte le cose, dipende dal contesto.
Intanto ci sono anche, purtroppo, articoli sul web che che di semplice non hanno il testo, ma il concetto. Panegirici infiniti che girano attorno alla …fuffa. Di solito accompagnati da titoli acchiappaclick, che lasciano il lettore incavolato come una bestia. Quindi non prendiamocela solo con l’Agenzia delle Entrate và, che ci sono interi pseudo magazine che pubblicano il …niente, solo per tenere in piedi le pagine con la pubblicità.
Sulla semplicità della scrittura creativa, è di questi giorni un’intervista a Ken Follett (mica Gino Pasticcio ma Ken Follett, autore da 160 milioni di copie vendute) in cui dichiara serenamente di non usare un linguaggio forbito nei suoi testi, ma di scegliere parole semplici, sia per essere più “popolare” e raggiungere facilmente il grande pubblico, e soprattutto per essere traducibile senza intoppi. Quindi, minor tempo e costi di traduzione, maggiore diffusione su diversi mercati esteri.
Sull’inglese: sicuramente c’è chi ne abusa solo per darsi un certo contegno e/o per nascondere la pochezza di idee (dall’altra parte però c’è pure chi è ostile all’estremo solo perché non lo parla ), però dipende sempre dal pubblico a cui ci si rivolge. Che piaccia o meno, in determinati ambiti, con mercati internazionali, anche quando dialoghi in italiano alcuni concetti restano nel termine inglese perché esprime un concetto specifico della materia. La mission non è la missione, la vision non è la visione, il brand non è il marchio (esiste il personal brand, non esiste il “marchio personale”). Ha senso utilizzare tutto ciò per la scrittura creativa? Dipende. Dalla storia e dai personaggi (se il protagonista è un impiegato del marketing, parlerà in quella maniera, se è un “trader” ancora peggio!!), come pure dallo stile e da scelte personali dell’autore. Come lettore non mi blocco certo per una parola d’inglese, se tutto il resto merita di esser letto. Se invece l’inglese è il contorno di un piatto insipido, decisamente lo peggiora.
Daniele Imperi
Di fuffa ne trovi quanta ne vuoi, ormai, nel web.
La scrittura di Ken Follett è semplice, è vero, infatti ci metto poco per leggere i suoi romanzi monumentali.
Chi non parla l’inglese ha doppiamente ragione a contestarne l’uso nella lingua italiana
La mission sono gli obiettivi di un’azienda, e vision è proprio la visione aziendale. Queste parole sono entrate per fanatismo, perché quegli stessi concetti sono sempre esistiti nel settore lavorativo, ma prima questo vizio, o bisogno, di ricorrere all’inglese non c’era e la nostra lingua era appunto nostra, non inquinata dall’inglese.
Silvia
Ecco, sottoscrivo e apprezzo tutto quello che dici. Ormai mi sto immolando nella battaglia contro il burocratese e gli inutili inglesismi, ma trovo ancora tantissime resistenze.
Dal punto di vista narrativo, sono concorde sul fatto che ci sia maggior libertà, tanto più che molto dipende dal pubblico che vogliamo raggiungere.
Però credo che valga comunque la pena di farsi delle domande e vedere se non si possa provare a rendere più semplice il proprio pensiero. Sempre a condizione di non eliminare la vena creativa e di non banalizzare. Abbiamo talmente tanto nel nostro DNA l’abitudine a complicare la scrittura che a volte lo facciamo senza accorgercene.
Post molto interessante, grazie.
Daniele Imperi
Le resistenze ci sono, purtroppo, sia perché c’è un disamore verso la nostra lingua sia per un menefreghismo totale verso il Paese sia perché c’è l’assurda convinzione che non ci siano termini italiani adatti.
Sulla narrativa dipende sia dal pubblico che vogliamo raggiungere sia dal tipo di storia che scriviamo.