«Il sangue è la vita!»
Bram Stoker (Dracula)
23 gennaio 2016, ore 7,26
Per due giorni ho vomitato tutto quello che ho mangiato. Il mio corpo, ormai, non assimila più altro cibo che carne. Carne che la gente m’ha portato solo un paio di volte. Posso capirli, la carne è un bene raro, in tempi come questi. Ma io ne ho bisogno, altrimenti morirò.
La debolezza comincia a farsi sentire. Sprazzi di lucidità si alternano a momenti di amnesia profonda.
Ho letto del freddo. Ho letto che il freddo inibisce questo male interiore che sta distruggendo l’umanità. Ripenso allora a quando la mia aggressività e la mia forza sono state più acuite. Quando l’aria era più calda.
Ho bisogno di freddo per ragionare, preparare un piano. Spalanco le finestre, tutte. L’aria della notte entra gelida, ventosa. Porta dentro foglie morte. Somigliano a noi uomini, che cadiamo senza più vita dall’albero del mondo che abbiamo fatto seccare.
Devo costringerli a entrare, quando verranno a portare il cibo. Devono salire. Devo bloccare l’entrata, poi. E scaldare l’aria.
Accendere un fuoco.
Mangiare.
I ricordi tornano alla mente, lenti, sbiaditi. Talvolta confusi. Sono passati pochi giorni dalla mia fuga da Valmontone, ma sembrano anni. Non so in che città mi trovi, adesso. Ho parcheggiato il blindato dentro il capanno di una fabbrica abbandonata. La rete wireless funziona. A tratti, ma funziona.
Quella sera mi finsi malato. Arrivarono come sempre dopo il tramonto. E come sempre erano accompagnati da una piccola folla di curiosi. Mi chiamarono. Non risposi. Chiamarono di nuovo. Alla fine urlai che non riuscivo a muovermi per la debolezza. Che avevo avuto la febbre alta e non mi reggevo in piedi.
Abboccarono.
Sentii dare ordini, poi qualcuno che apriva il portone e lo richiudeva. Passi sulle scale. Voci che mi chiamavano.
Ma io ero di sotto, mentre i tre salivano, armati. Ero di sotto a bloccare il portone. In varie stanze avevo acceso dei fuochi, che ardevano bene e scaldavano l’aria. Erano anche l’unica fonte di luce, poiché avevo trovato la centralina e staccato la corrente. A me, tanto, la luce non serviva più.
Mi nascosi alla loro vista. Li sentii cercarmi e avvertii la loro paura. Chiusi una porta, per spaventarli nel silenzio del palazzo vuoto. Uno dei tre urlò.
Decisero di lasciare il cibo per terra e andarsene, ma da quel palazzo non uscirono mai più. Non vivi, almeno.
Che cosa sia accaduto, quella notte, è per me un ricordo opaco nella mente. Ho dei flashback che ogni tanto appaiono nella mia memoria, come lampi di luce nel buio. Sono improvvisi e taglienti. Sento ancora le urla dei tre uomini. Sento le raffiche dei loro mitra, che non vanno a segno. Sento rumori di ossa rotte e altri suoni che è meglio non ricordare.
Mi vedo poi mangiare carne, finalmente. Mi vedo accovacciato a terra, sulle mie prede, come una belva di tempi preistorici. Il sapore è buono, gradito. Ma forse è stato un sogno, quello. Non ne sono sicuro.
Poi altre voci ruppero quel silenzio. Venivano da fuori. Mi affacciai alla finestra e le urla si fecero più forti. Il posto di sorveglianza venne potenziato con altri uomini e dopo qualche minuto giunse un mezzo corazzato dell’Esercito, preso chissà dove. Lo vidi arrivare spedito verso il portone, sfondarlo ed entrare così nel palazzo.
Nessun altro, eccetto gli uomini del mezzo, entrò.
Poi fu il caos.
Di ciò che accadde non ricordo quasi nulla. Ore dopo mi ritrovai a guidare quel blindato sulla strada. Sul sedile accanto a me c’era il portatile, dunque avevo avuto dei momenti di lucidità. Dentro c’erano anche taniche di benzina di riserva. Potevo quindi contare su parecchio carburante. Viaggiai coi finestrini aperti, nonostante tremassi di freddo, ma dovevo restare lucido e non far prendere il sopravvento al mio alter ego. Il mezzo non era veloce e la strada poi non mi consentiva di correre.
Mi fermai all’alba. A giudicare dal sole, avevo viaggiato verso nord. Avevo percorso meno di 200 chilometri. La strada era molto larga, anche se in gran parte dissestata. Doveva essere l’Autostrada del Sole. Uscii dal veicolo e spaziai con lo sguardo per il paesaggio desolato che avevo attorno. Alla mia sinistra scorsi in lontananza un lago. Il lago di Bolsena, sicuramente, a giudicare dalla distanza percorsa e dalla posizione. Sì, era quello il lago e infatti, proprio oltre la strada, le rovine di Orvieto si stagliavano alla luce pallida del primo mattino.
Decisi di proseguire. Viaggiai per qualche altra ora, finché trovai una cittadina abbandonata e semidistrutta e mi infilai in un grosso capanno, dove prima c’era una fabbrica.
La scorta di cibo è adesso al sicuro. Il capanno è chiuso e da fuori nessuno potrà accorgersi che dentro c’è qualcuno.
Sono passati alcuni giorni dalla mia fuga. Periodi di crisi tornano a scuotere il mio sistema nervoso e il mio corpo. Una notte mi sono svegliato all’esterno, in aperta campagna. Ero mezzo congelato. M’ero addormentato sull’erba ghiacciata. Ho dovuto attendere le prime luci dell’alba per fare ritorno al capanno.
Vivo alla giornata. Ormai non è più tempo per fare progetti, per pensare al futuro. Il futuro è scritto nel nostro passato e ha lo stesso volto del presente che viviamo ogni giorno.
Sono tornato in forze. È questo che mi dà sollievo e un’altra sensazione che non posso chiamare più speranza. La speranza appartiene al genere umano, non a quelli come me. È qualcosa che non posso spiegare, un sentimento istintivo che non ho mai provato.
Non è più nero il mio destino, ma ha assunto un nuovo colore. Il colore rosso sangue che mi sono lasciato alle spalle, quello che mi sono portato dietro, quello che mi consente di sopravvivere.
È questo che mi conforta.
E il sapore metallico che sento ancora in bocca.
Gianluca Santini
L’unico momento di lucidità che devi sfruttare è quello che ti permetterà di renderti innocuo per quelli non più della tua specie. Ma credo che ormai sia passato il momento, dovevi agire prima. Presto o tardi un giallo si aggiungerà alla schiera dei dannati, e altre persone dovranno temerti, potranno morire per tua mano, per tua bocca.
Ringrazio di essere distante.
Gianluca
(off): bel pezzo, mi piace come stai costruendo l’escalation dell’infezione! la frase su futuro, passato e presente è bellissima!
Daniele Imperi
(Off): grazie mille, Gianluca
Lucia Donati
Mi ha colpito la frase, riferita alle foglie morte: “Somigliano a noi uomini, che cadiamo dall’albero del mondo che abbiamo fatto seccare.”.