Un giorno di scuola
«Glisso», rispose Francine.
La maestra ammutolì. I bambini della classe, prima vivaci, chi a chiacchierare nonostante i continui rimproveri della signora Evans, chi a farsi dispetti, furono immortalati da un silenzio carico di stupore. Guardarono la compagna con occhi quasi persi, come se la bambina avesse parlato in aramaico.
«Come… come hai detto, Francine?», chiese la signora Evans balbettando confusa.
«Glisso», rispose nuovamente l’alunna.
Buddy Patel, il più scalmanato della classe, un bambinone che pesava come due o tre signore Evans, restò a fissare Francine a bocca aperta, incurante del filo di bava che gli colava dalle labbra finendo sul grembiule. Persino Jaquelyn Jackson non trovò nulla dire, lei che, consapevole della propria bellezza – i capelli dai boccoli biondo oro facevano impazzire tutta Londra – era sempre pronta a far sfigurare le altre compagne, ribadendo la sua superiorità.
«Ma…», la maestra non riuscì a trovare le parole adatte. «Ma non esiste il verbo glissare, Francine», terminò con una sorta di risata a metà fra lo scherno e il bonario rimprovero.
«Lo so», disse la bambina spiazzando la Evans. «È un verbo che mi piace usare, però. In francese c’è glisser, che significa scivolare. A me piace molto, sa? Mi ricorda sempre il mio cognome, Glissant, identico poi al participio presente di glisser. Se preferisce», aggiunse infine Francine, «posso dire je glisse: dà un tocco elegante alla risposta.»
Adesso il silenzio divenne di piombo. La maestra sbatté più volte le palpebre, come per ridestarsi da uno stato d’incoscienza. I bambini si voltarono verso la donna, unica autorità culturale nell’aula, in una muta aspettativa.
Quando fu annunciata la fine della lezione, gli scolari furono felicissimi di uscire e mettere quanta più strada possibile fra loro e quella insolita situazione. In realtà, erano anche felici di non vedere, almeno fino all’indomani, quella strana bambina di nome Francine.
Partenze
Quando i signori Delmar e Gloria Glissant si trasferirono a Londra, Francine non ne fu contenta.
«Andiamo a Parigi, papà», suggerì la mattina della partenza.
«A Parigi?», chiese meravigliato e un po’ divertito il signor Glissant. «Mia cara, ho trovato un buon lavoro a Londra, non a Parigi.»
«Ma Parigi è magica, papà», insistette la bambina. «E poi là c’è il mio amico Yakov. Si è appena trasferito dall’Ucraina.»
«Francine», intervenne la signora Gloria. «Sai bene che non esiste nessun amico di nome Yakov fra le tue conoscenze. Ucraina, poi! Ma come ti vengono in mente certe storie?»
La bambina non rispose. I signori Glissant finirono di caricare i bagagli in auto e dopo pochi minuti si misero in moto. Verso Londra.
Un nuovo amico
Francine non ricordava bene quando aveva conosciuto Yakov Mikhajlovič Berger. Erano però in contatto da qualche mese. In Ucraina le cose non andavano bene, le aveva detto Yakov un giorno.
«Presto dovremo partire per Kremenets», le confidò in una delle loro conversazioni a distanza.
Francine non aveva mai spiegato a nessuno, tanto meno ai genitori, come avvenissero queste conversazioni. Sì, perché erano mentali. I signori Glissant non avrebbero mai capito e la bambina temeva di essere rinchiusa in qualche manicomio. Si era quindi limitata a dire loro di avere un amico ucraino di nome Yakov.
Era un giorno di pioggia – uno dei tanti a Sapperton – quando Francine se ne stava in sala a fare i compiti. Non riusciva a risolvere un problema di matematica sulle espressioni numeriche e decise così di accantonare il quaderno e mettersi a leggere un libro. In questo modo aveva divorato l’intera libreria di casa e quasi tutti i libri disponibili nella biblioteca della città.
«Devi calcolare prima le potenze e poi le sottrazioni». La voce provenne da dentro la testa di Francine. La bambina d’istinto si volse a destra e a sinistra, ma era sola nella stanza.
«Ciao, io sono Yakov», disse ancora la voce.
Francine si spaventò, poggiò il libro e andò a controllare tutta casa. Porte e finestre erano chiuse, i genitori erano fuori. Non c’era davvero nessuno. Doveva aver sognato a occhi aperti, come le accadeva spesso.
«Puoi sentirmi?», chiese la voce.
«Ma chi sei?», domandò allora la bambina, ancora spaventata.
«Sono Yakov, te l’ho detto», disse ancora quella voce, un po’ risentita questa volta. «Abito in Ucraina. Come ti chiami?»
«Io… io sono Francine.»
«Piacere, Francine.»
Se in un primo momento la bambina fu colta di sorpresa da quell’insolita chiacchierata – in realtà era come parlare con un fantasma, anche se Yakov le aveva assicurato più volte di essere vivo e vegeto – si convinse presto che qualcosa doveva essere accaduto nell’aria. Forse s’era aperto un varco nello spazio e la distanza fra Sapperton e l’Ucraina era ora ridotta a zero.
«Non so cosa sia successo», disse Yakov rispondendo alla richiesta di chiarimenti della bambina. «A un certo punto ho saputo che avevi problemi con un esercizio di matematica. Ho sentito la tua presenza qui, in casa mia. Ti va di essermi amica?»
E da quel giorno iniziò l’amicizia tra Francine Glissant e Yakov Mikhajlovič Berger.
Colloqui
Francine frequentava la Albion Primary School da appena due settimane, quando la signora Evans mandò a chiamare i signori Glissant.
«Devo parlarvi di vostra figlia», esordì la maestra.
«È successo qualcosa?», chiese preoccupato il signor Glissant.
«Avevo chiesto ai bambini di raccontarsi in una parola, una sola che esprimesse loro stessi nella totalità», rispose la donna. «Qualcuno ha detto di essere curioso, Jaquelyn si è definita bella, Buddy simpatico, John collezionista. Ma Francine ha usato una parola che nessuno di noi aveva mai sentito.»
I signori Glissant restarono a guardare la maestra nell’attesa che continuasse, ignorando che quello fosse un silenzio d’effetto.
«Non ricorda più quella parola, signora Evans?», incalzò la signora Gloria.
«Oh, la ricordo benissimo invece, perché non esiste», rispose la maestra. «Capite? Francine usa spesso parole che lei stessa inventa.»
«Beh, che cosa ha detto, signora Evans? Non ci tenga sulle spine», la esortò il signor Glissant.
La maestra si schiarì la voce, si sistemò la giacca, si lisciò la gonna, spostò una ciocca di capelli che riteneva in disordine ma che invece stava bene, si aggiustò gli occhiali e poi guardò dritto negli occhi i signori Glissant.
«Ha detto di essere una sinesteta.»
Quello che seguì fu un silenzio abbastanza imbarazzato. La signora Gloria guardò il marito nella speranza che avesse compreso, il signor Delmar restò invece a guardare la Evans, che a sua volta sperava di ricevere aiuto dalla coppia.
«Una sinte… sin… scusi, potrebbe ripetere?», chiese l’uomo.
«Si-ne-ste-ta», rispose la Evans. «Sinesteta.»
«E cosa vorrebbe dire?»
«Pensavo che poteste dirmelo voi, a dire la verità.»
Ma i signori Glissant non conoscevano quella parola. Risposero che avrebbero parlato con la figlia, una volta a casa.
Di sinestesie ed ermetismi
Chérie si accoccolò sulle gambe di Francine e cominciò a ronfare. La bambina carezzò la gatta, mentre se ne stava seduta sul divano a leggere il Corpus Hermeticum di Trismegisto. Era sera e la pioggia batteva sui vetri delle finestre in un ritmo costante e rilassante.
Gloria Glissant entrò in sala e sedette a fianco della figlia, prendendo distrattamente il Daily Telegraph e facendo finta di interessarsi alle notizie del giorno. Delmar Glissant entrò subito dopo, riempì la sua pipa, l’accese e sedette su una poltrona, accavallando le gambe e lasciando lo sguardo fisso sulla parete di fronte.
«Di cosa volete parlarmi?», chiese Francine, smascherando l’atteggiamento disinteressato dei genitori: stavano di sicuro per prepararsi a una discussione pesante e noiosa, pensò.
Alla signora Glissant cadde di mano il giornale e a Delmar andò di traverso il fumo.
«Cosa?», disse l’uomo fra un colpo di tosse e l’altro.
Francine chiuse il libro, stropicciò le orecchie di Chérie che ora dormiva con le fusa accese e sospirò. «Che vi ha detto la maestra?»
A quel punto i genitori decisero di chiudere la farsa e cambiarono condotta. Gloria Glissant posò il giornale e Delmar Glissant smise di fumare.
«Ecco, Francine», iniziò suo padre, «la signora Evans è preoccupata per via di certe tue abitudini. Dice che inventi le parole, per esempio.»
«Che c’è di male, papà?»
«Nulla», rispose l’uomo, «nulla, davvero. Ma suvvia, Francine, non puoi accontentarti delle migliaia di parole che ha il vocabolario inglese?»
«Non bastano per esprimere tutte le mie sinestesie», rispose la bambina.
La signora Gloria si volse verso il marito, che a sua volta le restituì lo sguardo. Quindi il signor Delmar tornò a occuparsi di quella figlia così strana.
«Per esempio», disse, «perché non leggi Piccole donne o Il Mago di Oz come tutte le bambine della tua età?»
«Perché li ho letti quando avevo sei anni, papà!»
«Beh, e non trovi niente di meglio di questo Tristo… Trimagisto o come si chiama?»
«Trismegisto, papà», lo corresse sbuffando Francine. «Ermete Trismegisto. È quello che ha fondato l’ermetismo.»
«Ah, capisco», disse il signor Glissant, confuso. Evitò di chiedere alla bambina cosa fosse questo ermetismo, sicuramente un movimento autoreferenziale di questo oscuro Ermete. La mente dell’uomo lavorò a pieno regime per dare un senso anche vagamente logico alle risposte della figlia, ma alla fine dovette arrendersi all’evidenza che lui e sua moglie avevano messo al mondo una bambina non troppo normale.
«La signora Evans», continuò l’uomo cambiando argomento, «dice anche che non familiarizzi coi tuoi compagni di classe.»
«Sono limitati», disse Francine.
«Limitati?»
«Sì», rispose la bambina. «Con loro non so mai di che parlare, papà. I maschi sono tutti stupidi. Seguono quel Buddy Patel come se fosse un Maestro, ma è più ignorante di un neonato. Le mie compagne sono invece troppo occupate a invidiare Jaquelyn Jackson e a cercare di diventare belle come lei. Che discussioni potrei avere con loro?»
«Già», concordò a malincuore Delmar Glissant. «Beh, ti lasciamo alle tue letture impegnate, ora. Ne riparleremo un’altra volta.»
Quella sera, a letto, Francine sentì i genitori bisbigliare per parecchio tempo, senza tuttavia capire cosa dicessero, anche se era sicura che discutessero di lei. Alla fine il sonno la avvolse portandola in un mondo luminoso di sogni e pensieri e la bambina non sentì più nulla fino al mattino.
Cambiamenti
«Ho cambiato nome, Francine.»
Da fuori giungeva il suono delle automobili e dei clacson, decisamente meno musicale e romantico di quello prodotto dalla pioggia, si disse Francine. Stava spazzolando Chérie quando sentì Yakov. Si volse a guardare se i genitori fossero a distanza di sicurezza. Nessuno in vista.
«Che significa, Yakov?»
«Ho preso un altro nome», rispose l’amico. «Adesso sono Jacques Bergier. Ti piace?»
«Sì», disse sorridendo Francine. «Mi piace molto.»
«Grazie. Come stai?»
«Al solito», rispose malinconica Francine. «Mi annoio. La scuola è piena di ignoranti. I miei genitori non capiscono niente. A parte te e Chérie non ho altri amici con cui parlare.»
«Mi dispiace.»
«Beh, va così. Immagino che uno debba accontentarsi del proprio destino.»
«E invece no, Francine.»
«E che posso fare?»
«Puoi partire, per esempio», disse Jacques. «E cominciare una nuova vita.»
«Sarebbe bello», concordò la bambina. «Ma dove vado?»
«A te dove piacerebbe andare?»
«A Parigi!», rispose sicura Francine. «L’avevo anche detto a mio padre, ma lui preferisce Londra.»
«E allora perché non vieni?», le propose l’amico. «Sai che qui ora sto studiando matematica, fisica, tedesco e inglese? E sto leggendo tantissimo, poi, specialmente fantascienza.»
«Cosa?»
«Fantascienza», rispose Jacques, entusiasta. «È una narrativa particolare, che unisce nelle storie conoscenze scientifiche e fantasia. Ti piacerebbe senz’altro.»
«Ma è bellissimo!», urlò Francine. D’istinto si voltò verso la porta e sentì i passi di sua madre avvicinarsi.
«Tutto bene, Francine?»
«Sì, mamma, stavo… stavo leggendo e m’era piaciuto un sacco un brano», mentì con un lieve rossore la bambina.
La signora Glissant scosse il capo e tornò in cucina.
«È bellissimo», ripeté sottovoce Francine.
«Sì, è molto interessante.»
«Secondo te quanto costa andare fino a Parigi da Londra?»
«Non lo so», rispose Jacques. «Ma non è detto che tu debba prendere un treno o una nave.»
«E come ci arrivo, Jacques? Con un dirigibile?»
«Perché no?»
Francine scoppiò a ridere. «Peccato che non ne abbia uno.»
«Puoi sempre prenderlo in prestito», disse con un tono cospiratorio l’amico. «Fra due giorni a Londra si terrà una fiera, lo sai? Ho letto su Le Figaro che ci sarà anche una nave volante.»
«Ho saputo della fiera», rispose Francine. «Ci andrò con i miei genitori. Ma io non so guidare una nave volante.»
«Ti aiuterò io, se deciderai di partire. Ti dirò esattamente cosa devi fare.»
«Jacques… tu non puoi tentarmi così!»
«L’ho appena fatto, invece.»
Risero. In quel momento Francine si sentì felice come non lo era mai stata in vita sua. Promise all’amico che ci avrebbe pensato per un intero giorno e l’indomani gli avrebbe dato la risposta.
In realtà la bambina aveva già deciso cosa fare, ma preferì concedersi ventiquattr’ore per riflettere.
Alla fiera
«Eccola», disse il signor Delmar.
Ad Hampstead Heath sembrava essersi riunita tutta Londra: le famiglie gironzolavano fra giostre, giochi e bancarelle, i bambini correvano da ogni parte urlando e ridendo, qualche poliziotto controllava che tutto andasse per il meglio e uomini e donne passeggiavano chiacchierando spensierati.
Alle orecchie di Francine rumori, suoni e brusii arrivavano come ovattati dai mille pensieri che le si affollavano in testa. Aveva declinato i continui inviti dei genitori a salire su questa o quella giostra o a mangiare dello zucchero filato o delle mele caramellate. L’unico motivo che le faceva sopportare tutta quella confusione era l’aeronave di cui le aveva parlato Jacques.
La famiglia Delmar si fermò davanti al recinto. La gente si stava già assiepando tutt’attorno e qualcuno tentava di intrufolarsi per osservare da vicino.
«Da qui si vede bene lo stesso», disse la signora Gloria.
«Hai ragione, cara», concordò il signor Delmar. «E poi non ho proprio intenzione di fare a spintoni in mezzo a quella calca.»
Davanti a loro l’aeronave si stagliava imponente sullo sfondo nebuloso della campagna. Il signor Glissant prese dalla tasca il programma della fiera e si mise a leggere.
«È un R80», disse, «il primo vero dirigibile aerodinamico britannico. È stato lanciato la prima volta il 19 luglio 1921, ma la sua costruzione è iniziata nel novembre del ’17.»
«Ma è enorme», disse la signora Gloria portandosi una mano al petto.
«Già», disse l’uomo, «direi anche impressionante. Non ne avevo mai visto uno così da vicino.»
Francine guardava la nave volante con un misto di meraviglia e timore. Si domandava ancora come avrebbe fatto a guidarla fino a Parigi. La decisione di partire era stata presa già dal giorno prima e la bambina, nel frattempo, aveva pianificato la sua fuga nei minimi dettagli. Ripassò mentalmente la lista delle cose da fare, per assicurarsi di non aver dimenticato nulla.
- Bagagli: preparati, una borsa con qualche cambio e alcuni libri.
- Soldi: pochi scellini, erano in tasca.
- Provviste: pane, marmellata e biscotti nel porta pranzo di latta, già infilato in valigia.
- Lettera: già scritta ai genitori. L’avrebbe messa in vista prima di partire.
- Chérie: cestino chiudibile in vimini per la gatta preparato. Avrebbe solo dovuto convincerla a entrare senza farsi sentire da tutta Londra.
Sì, non aveva dimenticato nulla. Almeno sperava. Che cosa si porta dietro, normalmente, una bambina che decide di partire per Parigi in aeronave?, si chiese. Ma forse, di norma, nessuna bambina parte per Parigi in aeronave, convenne.
I signori Glissant restarono qualche altro minuto a guardare il dirigibile, poi fecero un altro giro per i banchi e le giostre e infine, insieme alla figlia, ripresero la strada di casa.
Piani di fuga
«È semplice», aveva detto Jacques.
Francine dubitava che ci fosse qualcosa di impossibile per il suo amico. Il giorno prima della fiera avevano avuto una lunga chiacchierata su come preparare il viaggio per Parigi.
«Per prima cosa fai una lista di quello che ti devi portare», le aveva consigliato Jacques. «Mi raccomando, non tutta quanta la casa, Francine!»
«Beh», aveva risposto lei, «non saprei neanche come trasportarla fino alla fiera…»
«Non si sa mai con voi donne.»
«Io non sono come le altre donne, Jacques», si era risentita Francine.
«Poi», aveva continuato Jacques, «all’una di notte, quando i tuoi sono addormentati, esci e vai alla fiera. Hai detto che ci metterai due ore, giusto?»
«Sono quasi sei miglia!», aveva risposto Francine. «Spero di farcela in due ore. E di non incontrare nessun poliziotto.»
«Bene», aveva detto Jacques. «Calcolando una velocità media dell’aeronave di 70 miglia orarie e considerando una distanza di circa 220 miglia fra Londra e Parigi, dovresti cavartela più o meno con tre ore di volo. Alle sei di mattina sarai qui.»
«Spero di non addormentarmi», disse Francine un po’ preoccupata.
«Ti terrò sveglia io, tranquilla», l’assicurò Jacques.
Francine, seduta sul letto in camera sua, ripensò ai piani di fuga e sospirò. La gita alla fiera si era conclusa e la famiglia Glissant, dopo cena, si apprestava a riposare. La signora Gloria diede la buonanotte alla bambina e così anche il signor Delmar. Quando uscirono dalla stanza, Francine tolse da sotto il cuscino la lettera che aveva scritto ai genitori e la rilesse per l’ultima volta.
Cari mamma e papà,
quando leggerete questa lettera io sarò già lontana, ma non dovete preoccuparvi per me! Sto andando in un posto dove le mie sinestesie potranno trovare un’accettazione che qui non avrebbero. Chérie verrà con me, non posso pensare di trasferirmi senza di lei.
Non riesco a concludere niente alla Albion e a Londra sono sempre sola e non ho nessuno con cui parlare. Dove andrò a vivere c’è qualcuno che può farmi scoprire mondi che voi neanche immaginate. Perché là fuori, anche se voi non ci credete, ci sono tanti universi da visitare, terre lontane ignorate, una realtà fantastica che si nasconde proprio sotto il nostro naso.
No, non sto sognando mamma. E, no, non sono pazza, papà.
Vi voglio bene e vi penserò sempre.
Vostra,
Francine.
PS: non chiamate la polizia! Tanto non riuscirebbe a trovarmi.
Sì, va bene, si disse Francine. Del resto, pensò la bambina, non esisteva un modo indolore di dire ai propri genitori che la figlia di undici anni se ne stava andando via per sempre.
Si sdraiò sul letto e attese che l’orologio segnasse l’una. Per mantenersi sveglia iniziò a leggere qualche pagina, poi, quando mancavano alcuni minuti all’ora X, si vestì, tirò fuori da sotto il letto la valigia, prese Chérie, che nel frattempo dormiva beatamente, e la mise nel cestino. La gatta aprì gli occhi, sbadigliò, si stirò e osservò la padroncina con uno sguardo curioso. La bambina la carezzò, le bisbigliò qualcosa per rassicurarla e le diede alcuni bocconcini di carne che aveva conservato.
«Adesso fai la brava, Chérie», sussurrò chiudendo il cestino. «Dobbiamo uscire in silenzio.»
Francine socchiuse la porta della camera, controllò che nessuno si fosse svegliato e uscì. Richiuse la porta e in punta di piedi si avvicinò alla stanza dei genitori. Il debole russare di suo padre le giunse alle orecchie e una sensazione di nostalgia la avvolse per un attimo per poi scomparire.
Attenta a non fare rumore, Francine aprì la porta di casa e scese in strada. Borough High Street era deserta e buia. La luce dei lampioni scendeva giù a rendere la notte ancor più opalescente. La bambina si fece coraggio e s’incamminò.
La strada per Hampstead Heath era lunga.
In volo
Sotto di lei Piccadilly Circus era una teoria di luci velate dalla nebbia e dalle nubi. Francine si meravigliò di non soffrire di vertigini, anzi cercò di individuare casa sua, ma da quell’altezza era impossibile. L’aeronave filava accompagnata dal ronzio dei quattro motori e alla bambina non faceva più impressione come prima, quando si era avvicinata al mostro volante e era salita a bordo della navicella.
«Tutto bene?», la voce di Jacques giunse sussurrando.
Francine non rispose. Ripensò al furto della nave volante e alla lettera ai genitori, alla scuola abbandonata e alla signora Evans. Si era stupita di ciò che aveva fatto: in brevissimo tempo aveva dato una svolta alla sua vita, anche se ancora non immaginava che fine attendesse la sua mirabolante avventura.
Per Jacques, come al solito, era stato tutto facile, come se si fosse trattato davvero di un gioco per bambini. A Francine venne quasi di sorridere al ricordo, ma la tensione che aveva gli procurò solo un’incomprensibile smorfia sul viso.
«Il funzionamento dell’aeronave è semplice, Francine», aveva iniziato Jacques quando la bambina era salita a bordo sganciando l’ultima corda. «Secondo il principio di Archimede, un corpo immerso in un fluido riceve una spinta verticale pari a…»
«Jacques!», l’aveva interrotto Francine. «Ma ti pare il momento di una lezione di fisica?»
«Mi sa che hai ragione, scusa», convenne l’amico.
«Dimmi come funziona questo coso, prima che qualcuno mi scopra e mi faccia arrestare.»
E così Francine aveva acceso i motori, aveva sentito le eliche girare, aveva atteso che l’aeronave salisse nel cielo, aveva sentito il proprio stomaco sussultare – o forse era stato solo il terrore delle sue azioni? – e aveva visto Hampstead Heath rimpicciolire sempre più.
Trecento piedi.
«Ma quanto devo salire?»
Cinquecento piedi.
«Jacques?»
Mille piedi.
«Ma mi senti o no? Ho superato i mille piedi!»
Millecinquecento piedi.
«Va bene così», era intervenuto finalmente il bambino. «Direi che la quota è sufficiente. A quell’altezza avrai un bel panorama, immagino. Beata te.»
«Oh, Jacques!», aveva risposto un po’ esasperata Francine. «Sto proprio pensando al panorama in questo momento! Se i miei genitori sapessero che mi trovo quassù…»
Nella navicella, oltre il tappeto di nubi e i fumi di Londra, appena sotto le stelle e la volta buia dell’universo, Francine si chiese come avrebbero reagito suo padre e sua madre al risveglio. Immaginò la scena: la mamma l’avrebbe chiamata e sarebbe andata a preparare la colazione. Il papà invece si sarebbe infilato in bagno a radersi. Quindi la mamma l’avrebbe chiamata ancora, esortandola a uscire dalla stanza. Il papà si sarebbe affacciato in corridoio? Sì, al terzo richiamo sicuramente. Poi la mamma avrebbe aperto la sua camera e…
Francine sospirò. E la signora Glissant avrebbe visto la sua lettera sul letto intatto. Una busta gialla su cui era scritto “Per mamma e papà”. L’avrebbe aperta con mani tremanti, guardandosi intorno nella stanza sperando di vedere sua figlia nascosta da qualche parte. Avrebbe quindi tirato fuori il foglio ripiegato in due e avrebbe chiamato suo marito con un tono di voce che non faceva supporre niente di buono.
Ma per quanto si sforzasse, Francine non riusciva a figurarsi la scena successiva, dopo la lettura della lettera. Avrebbero chiamato Scotland Yard? La mamma avrebbe gridato e sarebbe svenuta? Il papà si sarebbe vestito e sarebbe andato a cercarla per tutta la città? Francine non avrebbe potuto saperlo.
Decise di concentrarsi sul viaggio, ma aveva sonno. Non poteva addormentarsi, però, altrimenti il dirigibile se ne sarebbe andato per conto suo chissà dove. No, doveva mantenere la rotta per Parigi.
Verso la libertà.
Parigi
Chérie grattò con le zampette sul cestino di vimini. Un miagolio ben conosciuto ridestò Francine dai suoi pensieri.
«Vuoi uscire, Chérie?»
La bambina aprì il cestino e la gatta prese a gironzolare per la navicella odorando qualsiasi cosa fosse a portata del suo naso. Poi scelse un punto in un angolo e fece pipì.
«Oh, Chérie», disse Francine. «Non potevi aspettare un altro po’?»
La gatta la guardò senza capire, poi si avvicinò e cominciò a fare le fusa. La bambina la carezzò, le diede qualcosa da mangiare e tornò a concentrarsi sul volo.
«Sono quasi le sei». La voce di Jacques riapparve nella mente di Francine. «Che cosa vedi?»
«Vedo delle luci», rispose Francine.
«Potrei anche fraintendere», disse ridendo Jacques.
«Intendo che forse è una grande città, magari Parigi.»
«Dovresti vedere la Torre Eiffel, se sei già a Parigi. Una fabbrica di automobili, la Citroën, l’ha illuminata con una scritta. Se la vedi, allora inizia a scendere di quota.»
Francine si concentrò. Le luci aumentarono, piccole stelle del mondo di sotto, e una figura alta e stilizzata apparve lontana nella nebulosità del primo mattino. Man mano che l’aeronave procedeva, la bambina riuscì a distinguere delle forme. Azionò i comandi e si portò a 300 piedi.
«C’è qualcosa», disse nella mente di Jacques.
«È la torre?»
«Sì, forse.»
«Beh, è lei oppure no?»
«Jacques, dammi tempo!», si spazientì Francine. «E dimmi dove devo atterrare. Il dirigibile è enorme, non posso scendere per strada.»
«Certo che puoi», disse Jacques. «Atterra all’Avenue De La Grande Armée. La strada è molto larga. Mi troverai sotto l’Arco di Trionfo. La piazza è grande, dall’alto la riconoscerai.»
«Vuoi che lascio l’aeronave in mezzo alla strada, Jacques?»
«Proprio così», rispose l’amico. «Non posso farti atterrare fuori città, come faccio poi a venire a prenderti? E prova a immaginare quando la gente lo vedrà che cosa potrà succedere.»
«Mi arresteranno», disse Francine.
Dalla navicella poteva adesso distinguere chiaramente la Torre Eiffel e perfino leggere la scritta Citroën fatta di tante lampadine accese. «Eccola», comunicò a Jacques. «E vedo anche l’Arco di Trionfo.»
«Bene. Devo spiegarti meglio l’atterraggio, Francine.»
«Me l’hai detto, devo atterrare all’Avenue De…»
«Non dove, Francine», la interruppe Jacques, «ma come.»
«Non capisco.»
«Dunque», cominciò Jacques. «Le aeronavi hanno bisogno di parecchio personale a terra per atterrare, gente che afferri i cavi e che trascini il dirigibile in un hangar. Noi abbiamo questo personale, ma all’Avenue De La Grande Armée non ci sono hangar. Quindi lasceremo il dirigibile in mezzo alla strada. Tutto chiaro?»
Francine ci pensò su qualche attimo, poi una domanda le venne in mente, una piccola questione che l’incuriosì.
«Chi prenderà questi cavi?», domandò. «Dove hai preso quel personale?»
«Oh», rispose Jacques. «Sono miei amici.»
La bambina preferì non indagare troppo e tornò a rivolgere l’attenzione al volo.
L’Arco di Trionfo era vicino.
L’arrivo
Le sembrò di galleggiare nell’aria. La stanchezza l’afferrò minacciando di trascinarla in un sonno pesante e senza risveglio. Immagini confuse scorrevano davanti ai suoi occhi e Francine si chiese quali fossero reali e quali frutto del torpore.
Aveva seguito le istruzioni di Jacques sull’atterraggio. Ridotto i motori al minimo. Scesa di quota. Adesso, dai vetri della navicella, poteva vedere gli amici di Jacques darsi da fare con le corde e trascinare la gigantesca aeronave lungo Avenue De La Grande Armée. Non sembrava esserci nessuno in giro a quell’ora. O era un’altra trovata del suo amico?
Avvertì ancora una specie di vuoto allo stomaco. Stava scendendo ancor di più. Fra poco avrebbe toccato terra, sarebbe uscita dall’aeronave, avrebbe incontrato Jacques, iniziato una nuova vita. I pensieri tornarono quindi a Londra e ai suoi genitori che di lì a breve avrebbero scoperto la sua sparizione. Sentì le lacrime bagnarle le palpebre e si domandò se aveva fatto la scelta giusta. Ma non poteva più tornare indietro, ora.
Uno scossone la riportò indietro dalle preoccupazioni. Era ferma. Il viaggio da Londra era finito. Francine prese Chérie, che nel frattempo si era riaddormentata, e la infilò nel cestino, che richiuse. Poi prese la borsa, aprì il portello e uscì.
Parigi era… la bambina non aveva parole per descriverla. Il sonno sembrava del tutto svanito. Francine si guardò attorno e vide gli amici di Jacques che l’avevano aiutata ad atterrare. Bambini? Nani? Non riuscì a capire chi fossero.
«Freak», disse qualcuno alle sue spalle.
Francine si voltò. Davanti a lei stava un bambino coi capelli neri corti, una piccola ciocca che formava una sorta di virgola sulla fronte. Da dietro un paio di occhiali tondi la stavano guardando occhi intelligenti e scopritori.
«Ciao Francine», la salutò il bambino.
«Jacques!»
«Dammi la borsa, ti aiuto», si offrì l’amico.
«Che cosa avevi detto, prima?»
«Freak», ripeté Jacques. «Li ho scovati al Parco di Buttes Chaumont. Vedrai, quando andremo, che cosa nasconde quel posto. È il più magico di Parigi.» Jacques le indicò la strada. «Da questa parte.»
Si incamminarono. Un anziano signore, che era rimasto a guardare l’atterraggio dell’aeronave in mezzo ad Avenue De La Grande Armée a bocca aperta, osservò quella strana bambina col cestino scesa dal gigante volante e si chiese chi mai fosse e da dove venisse.
«Bonjour monsieur», lo salutò Francine, passandogli vicino. «C’est une belle journée, n’est-ce pas?»
«Oh, oui, oui!», rispose prontamente l’anziano senza neanche pensarci.
E restò a osservare i due bambini allontanarsi finché non scomparvero oltre l’arco, verso gli edifici di Avenue des Champs-Élysées.
Mondi oltre il mondo
Quando svoltarono per una stradina deserta, Jacques si fermò e la guardò negli occhi. Intorno c’erano pochi rumori, una vettura lontana, zoccoli di cavalli e ruote di carrozza che svanivano nel silenzio, alcune voci, chissà dove. Nessuno in strada. Francine si ritrovò sola con un bambino che non aveva mai veduto e che poteva essere chiunque, in una città lontana e sconosciuta.
«Ho bisogno della tua testa, Francine», disse Jacques, serio.
Francine trattenne il respiro.
«Ma non ho intenzione di portartela via», sorrise Jacques, notando l’espressione dell’amica.
Francine riprese a respirare.
«Sai», disse Jacques, «qui possiamo arrivare dove nessun altro è mai stato.»
«Che significa?», chiese Francine.
«Sto parlando degli altri mondi», rispose Jacques, «te ne avevo accennato in una nostra chiacchierata.»
«Sì, mi ricordo», disse Francine. Quello era stato uno dei motivi che l’avevano convinta alla partenza.
«Ma ne parleremo domani», continuò l’amico. «Quando andremo a Buttes Chaumont. Tu hai letto tanto, sei molto intelligente e assieme a te potrò svelare molti segreti di questa terra e arrivare lontano, capisci? Dove nessuno è mai stato prima.»
«Quanto sei misterioso, Jacques!»
«Non sono io a esserlo, Francine», disse il bambino. «È Parigi a essere misteriosa.»
Jacques proseguì a camminare. Chérie invece grattò sulle pareti del cestino miagolando con tono urgente. Francine la fece uscire e la gattina si guardò attorno spaesata. Ma le bastò odorare qui e là per impadronirsi del posto. Poi segnò il territorio come prima aveva segnato la navicella dell’aeronave.
Jacques, ormai qualche metro più avanti, si fermò ad aspettare. «Forza, Francine», disse.
La bambina guardò l’amico: le ispirò improvvisamente fiducia. Volse lo sguardo alle sue spalle. L’Arco di Trionfo non era più visibile, né la nave volante. Lontani, come la sua Londra, i genitori, i compagni di classe anonimi e la signora Evans. Come la sua vita di prima.
Davanti a lei, in quella magica città, l’aspettava un’avventura quotidiana al di sopra di ogni immaginazione, capì d’un tratto. Un sorriso si formò finalmente sulle sue labbra. Guardò la gatta, che tergiversava davanti a un portone, strofinandosi contro i battenti.
«Andiamo, Chérie», disse Francine esortandola. «Jacques ci sta aspettando.»
KINGO
Certi amici e’ meglio perderli che trovarli:
«Ho cambiato nome, Francine.»
«Ti dirò esattamente cosa devi fare.»
«Ti terrò sveglia io, tranquilla»
«Sono miei amici.»
«Ho bisogno della tua testa, Francine»
Jacques/Yakov non e’ un buon amico immaginario, perche’ gira tutto intorno a lui. Di solito l’amico immagiario non ha bisogno del tuo aiuto, e’ lui ad occuparsi di te!!
Del resto, pero’, ero ovvio: trattandosi di un racconto di Imperi, l’amico immaginario e’ reale, coi suoi pregi e i suoi difetti!
Daniele Imperi
Beh, le frasi che hai citato, al di fuori del loro contesto, sono inquietanti
La mia realtà immaginaria è solo un’altra realtà reale
Grazie della lettura.
Federica
Concordo con l’unico commento presente. La bambina, a dispetto delle premesse e delle potenzialità, non acquisisce una caratterizzazione positiva, tanto che a un certo punto diventa ingenua, incapace di decidere pienamente da sola. Non compresa da chi le sta attorno (insegnanti, genitori), diventa facile preda della voce di qualcuno che dice di voler esserle amico, che si presenta nella veste di una guida, di un aiutante, ma che, di fatto, la…. plagia. E questo, anche se ragionevolmente ritengo che non sia voluto, lascia, terminato di leggere, una sensazione di amarezza.
Ma, trattandosi di un racconto, non sappiamo come prosegue… E questo lascia in ogni caso campo libero all’immaginazione del lettore!!
Daniele Imperi
Grazie della lettura.
L’amico non è immaginario, come ha pensato Kingo, ma reale. E non plagia la bambina, le chiede solo aiuto. Almeno è così che l’ho pensata io. Poi è chiaro che di correzioni da fare ce ne sarebbero.
Federica
L’ho riletto velocemente. Forse ci sono troppe cose mescolate assieme e, nel complesso, non riesco a ricomporlo a una unità di significato e di messaggio.
I temi dell’incomprensione, dell’insoddisfazione per lo stato delle cose, del doloroso desiderio di fuga, di trovare qualcuno che ti capisca veramente, della possibilità di dare spazio alla fantasia e al proprio modo di essere (ognuno di noi è unico ed irripetibile), di realizzare se stessi e i progetti che abbiamo in mente, della speranza in un domani differente, di cambiare (simboleggiato dal nome nuovo) capisco che ci sono.
Forse il fantasy non è il genere più adatto per parlarne. O può inglobarne solo alcuni.
Di più non mi sento di dire.
Lucrezia
È incredibile sono nel 2022 e leggo ancora queste storie le adoro
Un 👋 saluto e bye bye
Daniele Imperi
Ciao Lucrezia, grazie della lettura e benvenuta nel blog.