“Ho visto uomini malvagi e stupidi, un gran numero di entrambi; e credo che entrambi siano pagati alla fine; ma gli stupidi per primi.”
Robert Louis Stevenson (Kidnapped)
9 gennaio 2016, ore 3,48
Non sono più nel mio vecchio rifugio. È stato dato alle fiamme martedì scorso, quando l’intera banda dei Disperati è venuta a prendermi, alle 3 di notte. Credo di essere riuscito a ucciderne un paio, ma non posso esserne sicuro. Nonostante la mia aggressività sia aumentata in questi ultimi giorni, erano troppi per poterli sopraffare.
E alla fine sono stato fatto prigioniero. Ho ricordi vaghi di quella notte. Mi sono ritrovato sanguinante dentro un pulmino, dove ho viaggiato fino alla città-roccaforte dei Disperati, poi qualcuno ha urlato ordini a qualcun altro, che mi ha preso e gettato in una stanza che puzzava di escrementi. Dentro c’erano altre persone. Ho chiesto loro chi fossero e un tipo con una cicatrice sotto l’occhio mi ha risposto che erano della Banda.
«Ci siamo rifiutati di sparare a della gente e così ci hanno rinchiuso qui dentro, in attesa del processo», ha detto l’uomo. «Il Cane non è uno che perdona.»
Era la prima volta che sentivo quel nome. «Chi è il Cane?», domandai. E l’uomo disse che era il capo della Banda. Si faceva chiamare così. Parlammo per un po’ e mi colpì la rassegnazione di quegli uomini, che avevano accettato il loro destino, quale che fosse.
«Tu sei quel pazzo che si era rintanato al paese, vero?», mi domandò poi l’uomo. «Quello che scriveva nel blog.»
«Sì», risposi. «Tu non hai paura di me…» Ricordavo bene come l’autista del fuoristrada, giorni prima, era rimasto terrorizzato al solo vedermi. Ma in questa stanza era buio e forse il mio volto restava celato.
«È da tempo che ho smesso di avere paura», disse. «Sai che uno di quelli che hai ammazzato la settimana scorsa era il fratello del Cane?» Poi rise, di una risata rauca e senza allegria. «Non vorrei essere nei tuoi panni, al processo.»
Passai il resto della notte a pensare. Ero convinto anch’io che fosse finita, ma non avevo mai conosciuto la rassegnazione nella mia vita. Ero sempre stato un tipo combattivo, anche se si trattava di combattere contro i mulini a vento. No, non mi sarei arreso all’inevitabilità di un destino deciso da altri. Non avrei mai accettato una sorte prima del suo compimento. Il dado non era ancora tratto, per me.
Con quei pensieri m’addormentai, ormai assuefatto al cattivo odore della stanza, ma il sonno non durò che pochi minuti. Un calcio su un fianco mi svegliò e non ebbi tempo di maledire il bastardo che quello mi mise a forza in piedi e, urlando e minacciandomi col mitra, mi sospinse fuori dalla stanza, assieme agli altri prigionieri.
Ci fece montare di nuovo nel pulmino e ci condusse in una piazzetta, dove ci ordinò di entrare in un tendone. Dentro vidi due uomini, uno dei quali, il più grosso, aveva una faccia che è impossibile dimenticare. I capelli erano grigi e lunghi, legati a coda. La barba era incolta e i vestiti un’accozzaglia di colori e mode. Portava una pistola infilata alla cintura e se ne stava in silenzio, lo sguardo impassibile, con le braccia conserte e una posa da dominatore.
Non fu difficile indovinare che era quello che si faceva chiamare il Cane.
Il carceriere ci mise in fila. Eravamo quattro in tutto, noi prigionieri. Per primo fu portato davanti al capo l’uomo con cui avevo parlato, quello con la cicatrice. Mentre camminava si voltò verso di me, facendo un cenno col capo per salutarmi. Sapevo che non avrei più parlato con lui.
Poi vidi il Cane dire qualcosa all’uomo che gli stava vicino, evidentemente il suo secondo. Quello annuì, guardandomi e sorridendo, poi prese dal tavolo una telecamera e ordinò al carceriere di portarmi da lui.
«A te abbiamo riservato l’onore di filmare il processo», mi disse, porgendomi la telecamera. «E vedi di filmare tutto». Gli occhi e il tono della voce lasciavano presagire le parole non dette. Presi la telecamera e fu subito chiaro che non ne avevo mai maneggiata una in vita mia. Così l’uomo l’accese e mi disse di tenerla puntata contro il prigioniero guardando nel display.
Il processo era la solita farsa messa in piedi in situazioni del genere. La sentenza era stata già scritta e il mitra che il carceriere teneva puntato contro quell’uomo non lasciava dubbi sulla sua natura. Il Cane ordinò al prigioniero di spiegare i motivi della sua disobbedienza e l’uomo parlò, con una calma che gli invidiai. Il capo della Banda rimase in silenzio e quando l’uomo terminò di parlare il carceriere fece fuoco.
M’ero aspettato un ordine o quantomeno un cenno della testa, ma evidentemente il via a quella barbara esecuzione era stato deciso che avvenisse a quel modo. L’uomo fu proiettato indietro e quando cadde a terra era già morto. Sentivo che le gambe mi tremavano. Il carceriere urlò al secondo prigioniero di farsi avanti e la stessa scena si ripeté. L’uomo che parlava, il Cane che ascoltava e poi il suono secco del mitra e il tonfo del corpo senza vita che cadeva. Mi chiesi, in quel momento, chi avrebbe filmato la mia morte. Forse il Cane stesso.
Infine il terzo prigioniero arrivò e spiegò perché si era rifiutato di ammazzare gente inerme. Mentre parlava, la mia testa si riempì di pensieri e decisioni. Fra qualche minuto sarebbe toccato a me. Poi ricordai le parole dell’uomo, quando eravamo chiusi nella stanza, la notte precedente. Non vorrei essere nei tuoi panni, al processo. E allora ebbi la certezza che nessun mitra avrebbe posto fine alla mia vita. Non me la sarei cavata così velocemente.
Il mitra in funzione mi riscosse. Quando il prigioniero cadde e, dopo qualche sussulto, morì, il carceriere appoggiò il mitra al muro per accendersi una sigaretta. Con disinvoltura armeggiai con la telecamera, come se avesse un problema, e mi accovacciai per lavorare meglio. Poi presi la mia decisione.
In questi ultimi giorni mi sono chiesto più volte cosa mi spinse ad agire e credo che la risposta sia soltanto una. Anche se dentro di me avverto sempre più pesantemente la trasformazione causata da quel maledetto morso, anche se ignoro come andrà a finire tutta questa storia, anche se molto probabilmente non avrò più un futuro né l’avrà il genere umano, finché l’uomo è vivo lotta per sopravvivere, anche quando tutto sembra perduto.
In condizioni normali non so se sarei uscito da quella situazione, ma la mia aggressività era aumentata e non aveva potuto esplodere a causa di un mitra puntato contro e di una stanza chiusa e sbarrata. Ma in quel momento c’era un’arma incustodita, lasciatami a portata di mano da uno stupido. E la mia nuova natura ne approfittò.
Afferrai il mitra e sparai all’impazzata. Il primo a cadere fu il carceriere, che mi stava vicino, poi vidi il corpo del Cane sbalzare all’indietro, seguito da quello del suo vice. Frugai nelle tasche del carceriere e presi le chiavi del pulmino, poi scappai. Forse il rumore non avrebbe attirato gli altri, che sapevano delle esecuzioni. O forse sì.
Fuori del tendone il pulmino sembrava aspettarmi. Entrai, misi in moto e corsi via. Dopo alcuni minuti sentii i primi spari. Dallo specchietto retrovisore vidi tre fuoristrada inseguirmi. I proiettili andarono a segno, ma non fecero danni. La Banda aveva blindato tutti i suoi mezzi. Accelerai. Dovevo tornare nel mio rifugio. Dovevo recuperare il mio portatile, che nascondevo sempre quando me n’andavo a dormire.
Impiegai quasi un’ora per arrivare, seminando i miei inseguitori. Il mio rifugio non c’era più. Gli avevano dato fuoco. La mia casa, che avevo abitato per tanti giorni, era ridotta in cenere. Non mi soffermai più che qualche secondo, non era quello il momento più adatto per i sentimentalismi. In mezzo a un mucchio di ferraglia arrugginita accatastata una ventina di metri più in là avevo nascosto un vecchio baule tutto rovinato. Dentro c’era una scatola di metallo che avevo imbottito e foderato, in cui riponevo sempre il mio portatile, ogni volta che l’usavo.
Lo presi e rimontai nel pulmino. Non mi voltai verso i resti del mio rifugio, non c’era tempo. Sulla strada, dopo un paio di chilometri, vidi i tre fuoristrada venirmi incontro. Qualcuno cominciò a sparare, ma per fortuna nessun colpo raggiunse il parabrezza. Io accelerai e mi misi in mezzo alla strada, puntando i tre mezzi.
Arrivati a poca distanza da me, si resero conto che non avrei sterzato, così lo fecero loro, buttandosi sulla cunetta. Una raffica di mitra colpì il pulmino e uno dei proiettili mandò in frantumi lo specchietto di destra. Vidi i tre fuoristrada affannarsi per fare manovra e ricominciare a inseguirmi, ma avevano perso molto terreno.
Decisi di dirigermi a valle, l’unico posto più sicuro, visto che a monte c’era la roccaforte della Banda. Il mio mezzo era più veloce dei loro e riuscii così a seminarli definitivamente dopo un bivio, parecchi chilometri più avanti.
Di quel viaggio non ricordo molto. Attraversai cittadine e paesi distrutti, deserti, morti. A volte cadaveri spuntavano sull’asfalto e mi costringevano a deviare per evitarli. A decine. Forse quella gente era morta nel tentativo di fuggire, forse era stata uccisa da qualche banda.
Approssimativamente mi diressi verso nord est di Roma, a cercare un altro rifugio. Già dalle campagne che attraversai lo scenario non era differente. Auto lasciate persino in mezzo ai terreni, ora quasi divorate da piante infestanti.

Entrai in un paese senza più insegne. Case bruciate e palazzi semi crollati mi accolsero in un silenzio tombale. Non sembrava esserci qualcuno, le strade erano vuote, alcune auto erano state lasciate in mezzo alla strada, le portiere spalancate, come se i suoi occupanti avessero dovuto lasciarle all’improvviso.
Vagai per qualche minuto per le strade di quell’ennesimo paese abbandonato, fino a una piccola piazza dove si ergeva un grosso palazzo ancora intatto. Sul muro di una casa distrutta che sorgeva davanti lessi Piazza della Costituente e alcuni ricordi tornarono a galla. Io ero già stato là. Quel paese era ciò che restava di Valmontone e quel palazzo era il Palazzo Doria-Pamphilj.
Il portone era chiuso, così sparai alcuni colpi finché il caricatore si esaurì, ma alla fine riuscii a entrare. Dentro non c’era più quasi nulla, come al solito tutto ciò che poteva servire era già stato preso. Trovai comunque una stanza al primo piano in cui stabilirmi.
Il giorno dopo esplorai il palazzo in cerca di qualcosa di utile e feci lo stesso nei giorni seguenti. Non c’era nulla da mangiare, né là dentro né nel pulmino. La mia trasformazione mi aiutò, in un certo senso, a sopportare meglio la fame, anche se pensare al cibo non mi dava sollievo.
Un altro appetito, estraneo e inumano, stava facendosi strada fra le ultime barriere che il mio subconscio aveva eretto. Barriere che prima o poi sarebbero cadute.
Fu soltanto ieri notte, sabato, che riuscii a collegarmi, trovando la linea telefonica ancora funzionante in uno degli uffici del palazzo. Scrissi subito di ciò che accadde in quei giorni maledetti.
Dopo aver chiuso il portatile, mi affacciai a una finestra, a respirare l’aria gelida della notte. Allora, nel silenzio di quel buio invernale, vidi una luce e poi un’altra e un’altra ancora. Era un piccolo gruppo di uomini, armati, che si avvicinava al palazzo facendosi luce con torce elettriche.
Forse la mia fuga disperata non si era ancora conclusa.
Michela
Che pellaccia ‘sto tipo…:)
Il Cane mi fa pensare a una versione negativa e avvelenata del capo degli sbandati in “Che la festa cominci”, di Ammaniti.
Ma toglimi una curiosità, quando ha visto tutti quei morti per terra gli è venuta l’acquolina in bocca?
Mi sa di no, perché era di fretta…
Hell
Vedo che se ancora da queste parti…
Preferisco scambiare quattro chiacchiere con te, che sembri meno vanesio di molti altri.
In risposta alla tua domanda: sopravvivere non è uno scopo, ma una contingenza.
Anche se non ti sembra, adesso hai il potere. E no, non mi riferisco al morso.
Sappilo usare, il potere. Cambia le regole. Lascia indietro tutte le scorie della società che ci ha condotto a tutto questo.
(off):

Daniele Imperi
On: di quale potere parli? Di quello provocato dal morso?
Daniele Imperi
‘sto tipo sono io e ce l’ho sì la pellaccia
No, niente acquolina, il momento non era certo opportuno…
Gaspare
(off) Ormai ‘sto racconto mi ha preso. Non vedo l’ora di leggere come va a finire.
Daniele Imperi
Grazie Gaspare